Le Alpi Marittime sono un’emozione di ricordi che s’affacciano tutte le volte che a mente mi raffiguro quell’angolo di carta geografica, il posto di tanti desideri. Montagne misteriose come i ricordi da troppo tempo sopiti o come cose troppo a lungo vagheggiate. Il compagno che era con me la prima volta non c’è più, perduto nelle nevi lontane del McKinley.
La neve era stata la costante di quella nostra impresa, alla fine un incubo. Era il Natale 1964, con Gianni Calcagno salivo lentamente le nevi sulla strada che dalle Terme di Valdieri conduce al Pian del Valasco. Gli zaini carichi anche dell’inutile ci schiacciavano sugli sci, c’ingobbivano tutte le volte che alzavamo lo sguardo per vedere quanto mancava.
Per me allora era tutto mistero, la novità di quei ripidi versanti stracarichi di neve mi faceva sentire così piccolo che era solo per fedeltà al progetto e rispetto per l’amico che non proposi di tornare indietro.
Per fortuna il mistero è ancora di casa sulla montagna, in modo speciale d’inverno. Le tracce di animali, piccole orme nella neve, disegnano itinerari misteriosi per chi è solo di passaggio e non ha le misure di questo territorio. Avevo visto vette tramontare ed albeggiare attorno a me con forme e colori così belli da essere istantanei, profili di pensieri così attraenti da vivere solo un attimo prima di essere sostituiti da altra poesia. Lassù però le cime non le vedevo ancora, le indovinavo al di sopra di pendii scintillanti nel biancore luminoso del mezzodì.
Nello scialpinismo praticato come mezzo di avvicinamento ogni conquista è rimandata al giorno dopo: invece lassù, oltre l’infinito Pian del Valasco, ogni metro ripido verso il Rifugio Questa era una piccola conquista. In realtà ogni vittoria sarebbe stata solo di noi stessi: quando la conquista è dell’inutile, si può anche dire che non c’è nulla da conquistare. Ogni metro vinto andava a naufragare nell’oceano del mistero: la salita e la discesa di una montagna sono una traccia nell’atmosfera interlocutoria di un foglio bianco su cui può essere scritta qualunque cosa. Ci domandavamo perché non avessimo neppure ancora aperto il quaderno. E quando si vive e si respira il mistero, ecco che crolla nella neve il fardello dell’inutile, nell’indefinibile sospensione tra terra e cielo, nel zig-zag che si ritaglia a sghimbescio per evitare un pendio troppo ripido.
Gianni Calcagno al Pizzo Badile, dicembre 1967
Se ci si volta, si vede la scia creata dal nostro passaggio. Evanescente, labile, senza vigore, come una creazione di oggi ci sembra senza futuro alcuno; perché forse le tracce nella neve dureranno lo spazio di un giorno. Ma chi calza gli sci in luoghi selvaggi e si confronta con la solitudine delle proprie creazioni ripercorre l’incessante azione vitale della salita cui segue sempre una discesa.
Il cielo si velava veloce; alle tre del pomeriggio eravamo ancora lontani dal rifugio. Cominciò a nevicare, una neve così umida che gli sci prima sfondavano, poi rimanevano incollati in profondità. Ci dichiarammo vinti e ci pareva impossibile non riuscire a scendere se non con uno sforzo immane. Alle otto di sera ricavammo una truna al Pian del Valasco, sotto al muretto della strada, ed il giorno dopo lo impiegammo tutto per raggiungere il primo centro abitato, S. Anna di Valdieri, ancora alle sette di sera. Direi incredibile, se non lo ricordassi così bene.
Dopo quest’inizio avventuroso e senza risultati se non quello di aver riportata a casa la pelle, le cose migliorarono. Le uscite compiute in seguito, rubando posti a sedere nelle auto degli amici e soprattutto tempo che avrebbe dovuto essere dedicato allo studio per gli esami di maturità, ebbero successi misurabili. Dopo lo storico e vincente confronto con gli esaminatori statali mi ritrovai a fine luglio 1965 con Gianni e Lino Calcagno ed un altro amico, Bernardo De Bernardinis, ancora al Rifugio Questa. Nella settimana in programma erano in lista almeno il doppio di salite possibili. Forse eravamo in anticipo sui tempi dei concatenamenti. Una sera litigai ferocemente con Lino per divergenze sulle mete del giorno dopo; invano Nello cercò di mettere diplomazia nello scontro mentre Gianni tendeva a rimanere neutrale. Il mattino dopo ero così arrabbiato che decisi di andare a scalare da solo e con la foga tipica dell’inferocito andai fin sotto alla parete est della Punta Maria della Cresta Savoia. Qui attaccai la via di Giovanni Guderzo, di cui non si aveva alcuna relazione se non i racconti epici di Pippo Abbiati, malcapitato compagno del suo capocordata. Portai alla fine il progetto e, sceso per la via normale, incontrai i tre amici che avevano salito la Est della Punta Jolanda. Ci legammo insieme, in un ritrovato accordo, per scalare la Ovest della Punta Umberto nel pomeriggio.
A fine settembre trascorsi un’altra splendida settimana al Rifugio Zanotti, con Giuseppe Grisoni. Rastrellammo tre o quattro delle vie nuove possibili sulle cime più belle della zona, come il Becco Alto d’Ischiator, la Testa del Vallone o il Monte Tenibres. Senza una lira in tasca, quindi con poco mangiare, badando bene a non pagare neppure un pernottamento.
postato il 12 aprile 2014
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Altri tempi….be mi tempi!!
Alpinismo d’antan, pillole di storia, ricordi che smuovono altri ricordi e sarà banale ma dire “che tempi…!” leggendo di questi e ripensando a quelli tuoi forse al giorno d’oggi non lo è…malgrado a suo tempo abbiamo tutti, con la splendida arroganza giovanile tacciato di vecchio chi ce li raccontava… Tempus fugit ma la storia lo congela…
Bel ricordo, normale, vero e vissuto…
[…] Gli zaini carichi anche dell’inutile […] badando bene a non pagare neppure un pernottamento.
bel racconto, bellissimo ricordo, stupenda storia …