Il mistero delle attività estreme
(quelle dei “turisti perversi”)
Dai grandi misteri del tempo medioevale fu lungo il cammino alla contemplazione pittoresca e al Piacere, ma quando in questi irruppe il senso del Sublime fu il ritorno al Mistero. Sono questi i mattoni fondamentali con i quali sono costruite le odierne imprese estreme, in un ciclo che riproduce la nostra esplorazione nel mistero della vita stessa.
Spesso, nella contemplazione dei misteri che circondano la nostra vita e la nostra interiorità, ci sentiamo inadeguati. Perché, anche se di qualcosa riusciamo ad essere competenti, in genere siamo del tutto ignoranti quando tentiamo un compendio di ciò che effettivamente siamo. Come gli stessi astronomi che, proprio perché i più dotti sull’universo visibile, sono più bambini di altri nel riconoscere l’Ultimo mistero.
Il lavoro di Piero Priorini (Attività estreme e stati alterati di coscienza, Carabà Edizioni, 2012) parte dal presupposto che l’osservatore è parte integrante della cosiddetta realtà: necessariamente non crede all’oggettività delle cose. Per lui, il fine ultimo per il quale l’uomo occidentale è affascinato dalle attività estreme non è un qualcosa di oggettivo alla portata cognitiva di tutti. È al contrario uno stato di coscienza soggettivo che affonda le sue radici collettive assai lontano nel tempo. E giunge a dire, con il filosofo russo Nikolaj Aleksandrovič Berdjaev, che “… ciò che crediamo oggettivo è proprio il soggettivo, mentre è il soggettivo ad essere oggettivo”.
Ritengo di possedere un’esperienza di psicologia del tutto relativa, però in tutti gli anni di esperienza di attività estrema mi sono sempre domandato anch’io, come Priorini, perché ne fossi una “vittima” così volontaria.
Per quanto ne so, il primo a manifestare poeticamente e artisticamente il dissidio tra l’Io e l’oggetto, quindi tra l’Io e la Natura, fu Johann Wolfgang Goethe: questa grande figura di romantico, di drammaturgo e di poeta, precorse l’alpinismo e ne fu lo “sponsor” culturale. È famosa la sua descrizione di come per la prima volta, sul finire di una giornata di viaggio, gli apparve la sommità del Monte Bianco, un colosso che svetta sulle vallate tanto quanto poi ingombra il cuore:
“Le stelle ascendevano una dietro l’altra, e noi osservammo sopra le cime dei monti, davanti a noi, a destra, una luce che non riuscimmo a spiegare. Quella luce chiara, senza splendore, come la via lattea, ma più densa, quasi come le Pleiadi, ma più grande ci fermò l’attenzione a lungo, fino a che, essendoci noi spostati, ci apparve più alta delle cime: una piramide, rischiarata da una luce segreta interna, che non si potrebbe meglio paragonare che a quella di una lucciola e che ci fece certi che era la sommità del Monte Bianco. Visione di bellezza straordinaria, poiché brillando la montagna con le stelle che la circondavano, non di una luce altrettanto viva, ma in una massa più vasta e più coerente, sembrava agli occhi che appartenesse ad un’altra sfera, e la mente faticava a fissarne le radici sulla terra. Davanti ad essa vedevamo una fila di monti ammantati di neve, già invasi dalle ombre, stendentisi su larghi dossi boscosi, e immani ghiacciai divallanti tra i boschi cupi (Goethe, Aus einer Reise in die Schweiz, 1779)”.
Leggendo attentamente questa descrizione difficilmente si resiste alla tentazione di confrontarsi con l’oggetto misterioso e gigantesco, fascinoso. Conoscere e appropriarsi, misurandosi con esso, di un simbolo che ormai l’Io percepiva come qualcosa di altro da sé. Ma non era sempre stato così: fino ad almeno tre quarti del secolo XVIII erano stati più importanti il piacere e il pittoresco, vale a dire quello che oggi chiamiamo “turismo”.
Difficilmente si trova un territorio così ricco di storia e di vestigia, con un paesaggio così vario, come quello dell’Engadina, luogo di nascita del turismo. L’inizio dell’interesse per quei luoghi si può datare al 1535, quando il famoso medico Paracelso riferì delle acque di San Murézzan (St. Moritz): “Seppi di una fonte che esiste in Europa in San Maurizio in Engadina. È una sorgente che in agosto è più carbonica che mai. Chi si disseta ad essa, beve medicina ed acquista salute perfetta”.
Soltanto nella seconda metà del XVIII secolo furono costruiti i primi bagni termali attorno all’ormai ben nota e apprezzata sorgente di acqua ferruginosa. È interessante notare che i primi ospiti in cura erano nobili italiani, mentre la clientela di lingua tedesca cominciò ad affluire all’inizio del XIX secolo. Salute del corpo e bellezza dei luoghi, piacere e pittoresco, sono i genitori del turismo. Il turismo in grande stile ebbe inizio con la prima ristrutturazione dei bagni e con l’apertura delle strade dello Julierpass e del Maloja. Nel 1864 il padrone dell’Hotel Kulm di St. Moritz convinse un gruppo di inglesi a passare un periodo di vacanza invernale in Engadina: arrivò perfino a promettere completo rimborso in caso di scontento. Vent’anni dopo fu aperta la prima pista di sci, la Cresta Run, e nel 1935 fu costruita la prima seggiovia del Suvretta: era così spianata la strada ad ogni tipo di esuberante piacere edonistico legato alla montagna e alla natura, il cui insieme in seguito il cittadino chiamò “vacanze”.
La lunga parte bassa della Val Roseg è percorsa da una stradina sterrata che sale dolcemente fino all’Hotel Roseg, dove la visuale si apre ampia sui ghiacciai e sulla corona di cime innevate della valle. Come tantissime altre strade non è percorribile dai mezzi privati e i turisti, d’estate e d’inverno, si servono di carrozze trainate da cavalli. Nessuno rompe la quiete di questi luoghi assai affollati. Ciclisti, pedoni con carrozzine portabambini, fondisti, corridori, coppie anziane si susseguono al ritmo degli allegri e discreti scampanii di carrozze a cavalli. Chi percorre questi luoghi ha un senso soffuso di pace e serenità. Ad un occhio cosmopolita la gente sembra mite e gentile, quasi parte di un mondo fiabesco e futuro dove finalmente si riuscirà a far convivere armoniosamente uomo e natura. La gente chiama “romantiche” le passeggiate di questo genere. E in effetti sono proprio stati gli artisti e gli scrittori del romanticismo a valorizzare questo tipo di attività fisica, prima riservato alla vita quotidiana dei contadini e dei montanari. Eppure, nel silenzio e nella solitudine dei boschi, i romantici cercavano ben altro. Erano turisti “perversi”.
I primi a decantare le Alpi e la loro “bellezza” furono i poeti del XVIII secolo. Il loro messaggio mirava così lontano che nessuno dei montanari locali poteva capirlo. Per la gente che viveva lassù l’esistenza era assai grama; coloro che erano costretti a transitare per le montagne non parlavano di bellezza: soldati, pellegrini, commercianti vedevano solo i fastidiosi ostacoli sul loro cammino; e infine gli abitanti delle città vedevano i montanari come ignoranti trogloditi. Eppure le ali della poesia volano lontano, perché maestosità dei paesaggi, grandiosità delle montagne selvagge e semplicità di costume giunsero relativamente in fretta al cuore del cittadino, con le conseguenze che conosciamo. Nel 1729 il bernese Albrecht von Haller, giovane ventunenne, pubblicò Die Alpen, le sue recenti esperienze di viaggio. L’opera ebbe fortuna pur essendo veramente rivoluzionaria. Nessuno fino ad allora aveva parlato così del mondo della montagna. Egli capovolgeva le idee correnti di inospitalità e inabitabilità delle alte vallate, introduceva il rispetto per una vita di duro lavoro lontano dalle scostumatezze delle città e dagli agi materiali. Quello di von Haller era un entusiasmo giovanile che si rivelò contagioso, provocando interesse e voglia di vedere di persona. Il messaggio di von Haller era però rigorosamente razionalista, la natura era da lui contemplata in un idillio pittoresco comune alla letteratura del primo ‘700. Si può dire che siano tutti seguaci di von Haller (e non romantici) coloro che risalgono a piedi o in carrozza la Val Roseg.
Come in seguito andarono le cose von Haller l’aveva già previsto: “Hier herrscht die Vernunft, von der Natur geleitet (qui regna la ragione, guidata dalla natura)”. Il villaggio che per primo raccolse la curiosità dei lettori di von Haller fu Grindelwald. Già le cronache locali del 1748 registrarono la presenza di numerosi ospiti: i lord inglesi portarono nel loro paese e al mondo le meraviglie di una terra che aveva i ghiacciai quasi sulla porta delle case. Le stupefacenti colate di ghiaccio furono infatti la prima paurosa attrazione turistica. L’inglese Norton Nicholls nel 1771 attraversò la Grosse Scheidegg assieme al filosofo Karl Viktor von Bonstetten e al sacerdote Jakob Samuel Wyttenbach: i tre provenivano da Lauterbrunnen per la Kleine Scheidegg ed erano diretti a Meiringen. Fu lo stesso Wyttenbach a descrivere più tardi quel percorso in una pubblicazione. Ormai i visitatori non si limitavano più alle passeggiate ma si spingevano sempre più numerosi fino al ghiacciaio di Rosenlaui e fino alle pittoresche cascate del Reichen. E con essi proliferarono i racconti e le relazioni, che divennero presto vere e proprie guide turistiche. E Grindelwald divenne quell’elegante supermercato che è, dove un attento marketing coniuga con successo il denaro e la voglia di piacere e di pittoresco del turista.
E, sia detto tra parentesi, è forse per un effetto di compensazione che proprio sopra la paciosa ed efficiente Grindelwald sia posta quella terribile parete nord dell’Eiger che negli anni ’30 diventò un “tragedificio”. La “parete assassina” ha la ventura di non essere distante dalla Kleine Scheidegg, uno dei luoghi più turistici al mondo, quindi può essere osservata con potenti binocoli. Qualunque dramma si svolga sui suoi 1800 metri di dislivello, con i minimi particolari, può essere divorato da occhi avidi di emozioni. A meno che una cortina di nubi e di nebbie, o una bufera, non chiudano ogni visuale, una pietà che la natura ha e l’uomo no.
A più riprese Goethe accennò al Monte Bianco e alle regioni ai suoi piedi. In Aus einer Reise in die Schweiz (1779) racconta del Col de Balme e dei grandi panorami tra Savoia e Vallese. Non appena il massiccio del Monte Bianco divenne l’attrattiva del nascente turismo alpino, fra le escursioni del visitatore più preparato e ambizioso ci fu subito il periplo completo. Tra i primi illustri viaggiatori che compirono quella che per allora era già una bella impresa, dobbiamo ricordare Horace Bénédict de Saussure. Per studiare da ogni angolazione la montagna dei suoi sogni, lo studioso ginevrino fece il giro ben tre volte, nel 1767, nel 1774 da solo e infine nel 1778, allo scopo di riempire “molte lacune e dubbi” in vista della pubblicazione di una descrizione del massiccio. Si viaggiava allora con una piccola carovana di muli, ingaggiando guide e aiutanti fra gli abitanti dei paesi attraversati. I muli erano fondamentali, non solo per portare attrezzi scientifici, viveri di conforto ed equipaggiamento, ma anche per essere caricati dei campioni di roccia che lo studioso raccoglieva. Il giro era molto più ampio di quello proposto oggi. Più o meno coincideva da Chamonix a Courmayeur, attraverso il Col du Bonhomme e il Col de la Seigne, ma poi non risaliva la Val Ferret per tornare a Chamonix attraverso la Fenêtre d’Arpette. Si preferiva invece scendere ad Aosta ed entrare in Svizzera attraverso il Gran San Bernardo per raggiungere Martigny. Allora non c’era fretta e percorsi come questo erano momenti di studio e riflessione; non un bene di consumo da bruciarsi nelle nostre poche giornate di ferie annuali. Queste lunghe e faticose camminate erano preparatorie: in de Saussure possiamo vedere l’uomo del ‘700, studioso, illuminista, classicista. Un esploratore del pittoresco che si preparava, senza saperlo, a vivere l’esperienza della sua vita, quella del Sublime.
Quando il 2 agosto 1787 raggiunse dopo più tentativi la vetta del Monte Bianco, egli finalmente comprese, “come in un sogno“, le strutture, i rapporti, le pieghe d’un paesaggio che anni di lavoro non erano riusciti a far capire in profondità. Il paesaggio dalla vetta del Monte Bianco non aveva più nulla da spartire con quello di von Haller; e quando de Saussure fu costretto a bivaccare sul ghiacciaio, scosso dal terrore, gli sembrò “d’essere l’unico sopravvissuto all’universo che in quel momento, come un cadavere, gli era steso ai piedi”. Lo sconvolgimento illuminante di quella visione gli fece in seguito riconoscere che “per tristi che siano idee di quel genere esercitano su di noi un’attrazione alla quale con fatica si resiste”. Fu lui dunque il primo alpinista romantico: fu lui che trovò, nella grandiosità della montagna e nel sublime di certe esperienze, una propria coscienza dilaniata tra la dispersione nell’infinito e l’autoaffermazione ostinata.
E se torniamo a Goethe, a giudicare dal passo seguente, possiamo definirlo il primo turista acrobatico!
“Godevo di una tale salute che mi sentivo disposto ad intraprendere con successo qualunque cosa io volessi o dovessi fare; solo mi era rimasta una certa irritabilità nervosa che disturbava quest’armonia di funzioni… Salii da solo fin sopra la più alta torre della cattedrale e mi fermai sotto la corona dell’ultima cupola, e là stetti circa un quarto d’ora prima ch’io avessi il coraggio di uscir fuori sulla piattaforma che è larga poco più di una tesa, e dove aggrappandomi potevo contemplare il paese sterminato che mi si stendeva dinanzi. Pareva di trovarsi in un pallone volante. L’emozione e l’oppressione dolorosa che provavo stando a quell’altezza la vinsi ritornando spesso in quel luogo fino a che divenne per me affatto indifferente. Questo poi mi giovò, e molto, nei viaggi sulle montagne, negli studi di geologia, e nelle visite dei monumenti di Roma, dove spesso, per vedere da vicino le cose, gareggiai con i più intrepidi muratori (Goethe, Aus meinem Leben, IX)”.
Questo brano di Goethe racchiude in sé l’essenza del romanticismo, dall’abbandono del classico e del pittoresco verso la tensione al Sublime, con lacerazione interiore tra la sensazione d’essere piccoli e miseri e l’esaltazione di una vittoria su se stessi e sul mondo.
Goethe traeva ispirazione per le trame e i paesaggi interiori del suo teatro dal dissidio tra Io e Natura, tra pittoresco e sublime, tra senso di finitezza umana e aspirazioni d’infinito.
“Su, su, senza tardare, / in forte speme, su! / Alta, larga, magnifica / mi s’apre là d’intorno / la vista su la vita! / Di cima in cima spazia / lo spirito che, eterno, / vita eterna respira (Goethe, An Schwager Kronos, trad. Benedetto Croce)”. E lui stesso era vittima-attore: “Devo salire sempre più in alto / e guardare sempre più lontano“.
È lo Spirito che crea la realtà, è l’Io che da solo dà legge al mondo: con l’idealismo (la ragione filosofica del romanticismo), l’Io abbandona l’illusione di una vita naturale, tra la ragione dei “lumi” e il mistero in provetta dei primi chimici: l’Io cresce e soffre al cospetto della natura. La domina e ne è dominato. L’uomo che oggi si avvia a diventare il padrone dell’universo è il primo a soffrire di quel distacco dalla natura che questi due ultimi secoli gli hanno riservato. Così la calpesta e la protegge. A volte, decadenti, intuiamo che solo con la morte potremo ricomporre il dissidio tra la nostra coscienza di esistere e madre natura.
Ma Goethe era così grande che riusciva a contraddirsi senza pagarne il prezzo: solo lui, uomo anche classico, poteva ricomporre il proprio dissidio e il proprio “esilio”: “Come poi vien la sera, e nella brezza tranquilla le rade nubi si posano sulle cime dei monti librandosi nel cielo quasi immote e, dopo il tramonto, comincia a farsi distinto lo stridio delle locuste, allora ci sentiamo a nostro agio in questo mondo; e non più a pigione o in esilio”.
E nel Faust disse chiaramente: “Da lungo tempo è preparato un accordo tra le forze primitive dell’uomo e quelle delle montagne; felice chi seppe congiungerle”.
Friedrich Nietzsche sentiva ancora più forti questo contrasto e questa doppiezza: “Non l’altitudine, è il pendio che è terribile! Il pendio lungo il quale lo sguardo precipita in basso, mentre la mano brancica verso l’alto. E intanto il cuore, preso tra questo doppio impulso, ha la vertigine (Nietzsche, Also sprach Zarathustra)“. E ancora, lo stesso Nietzsche, a proposito di esaltazione: “Guardate in alto se volete esaltarvi. Chi di voi conosce insieme l’esaltazione e il riso? Colui che sale i monti più alti ride di tutte le tragedie rappresentate e vissute”. Ed ecco Goethe, sulla miseria dei propri tentativi: “Oh povero mio cuore! / Per andare lassù sopra quel monte, / oh celeste Possanza, / dammi ancora soltanto un po’ d’ardore… (Goethe, Sturm und Drang)”.
Con l’avvento e lo sviluppo dell’alpinismo, con il quale l’uomo ha raggiunto tutte le più alte vette per i versanti più difficili, con l’esplorazione ormai quasi totale delle nostre Alpi, con l’introduzione della tecnica di sfruttamento del potenziale turistico alpino, chiunque voglia oggi esprimere la montagna o per iscritto o per immagini rischia la retorica. Retorica, come oggi comunemente s’intende il significato di questa parola, cioè un esprimersi vuoto di senso. Ci si richiama continuamente a ideali che intimamente rifiutiamo. E più il dubbio interiore su questi ideali è forte, più il discorso è retorico, cioè vuoto. Gli ideali oggi sono forme senili di miti che si evolvono, in quanto approssimazioni variabili da epoca a epoca di ciò che vive dentro di noi. Diventa difficile per l’arte infrangere il compatto muro della retorica: non c’è stata finora espressione artistica o letteraria che si sia servita dell’esperienza alpinistica per significare la grandezza di un mito. Dopo l’orgia industriale e nel pieno dominio dell’informatica virtuale e globale, nasce il sospetto che lo scopo di questo muro così alto e compatto sia di far riacquistare alla montagna (e quindi un po’ anche al pianeta Terra) tutto il suo vigore e il suo mistero. Dentro noi alpinisti moderni c’è come una censura spontanea che c’impedisce l’ingresso nell’arte e nella letteratura maggiori. Tanto più la montagna è tecnicamente conosciuta, descritta, sfruttata, tanto più coercitiva è l’autocensura. Tanto più l’alpinismo diventa tecnico e mediatizzato, tanto più s’avvicina ad un prodotto della civiltà industriale, in piena opposizione ad una vera esperienza umana. Ed appare chiaro che questa contraddizione non può che rivelarsi soltanto nel nostro intimo, e diventare quindi un nuovo tabù, un qualcosa di cui quasi non si può narrare.
La separazione tra Io e Natura è più viva che mai, il Romanticismo perciò è ben lungi dall’esser concluso ed il mistero, più piccolo e lontano in questo nuovo secolo, sempre più appare come le Sirene di Ulisse, al tempo stesso un nemico acerrimo e un suadente tentatore.
Piero Priorini ci riporta le osservazioni di Gerhardt Semler, per il quale gli atleti estremi ricercano , più o meno consciamente, “quel particolare stato di grazia, che Semler ha chiamato Flow, che si realizzerebbe solo, ma non sempre, nel momento della massima concentrazione. Il paracadutista, il subacqueo, l’alpinista o lo speleologo affrontano a volte situazioni in cui il minimo errore, la minima distrazione può costare loro la vita; ed è appunto allora che il fenomeno tende a prodursi grazie al fatto che le informazioni provenienti dal mondo esterno e da quello interno convergono in un punto centrale e qui severamente selezionate. Ciò che è superfluo viene scartato; pensare, sentire e volere si fondono allora armoniosamente permettendo così all’Io il superamento della situazione. In queste condizioni percepire ed esistere diventano una cosa sola, ci si fa tutt’uno con l’azione, ci si identifica con essa completamente, e la dolorosa scissione soggetto-oggetto, che ci perseguita come un trauma dalla nascita, per un istante si annulla. Non ci si sente più separati da ciò che si fa, azione e coscienza coincidono. Talvolta (anche se non sempre) la perdita della cognizione astratta di sé è così totale da determinare una comunione con ciò che ci circonda. È un momento magico: l’Io e il mondo coincidono”.
Quando si prende in considerazione una qualsiasi azione sportiva balza subito evidente la sua componente più importante, la voglia di competizione con i propri simili o con se stessi è parte altamente trascinante e determinante di qualunque risultato. “È la ripidezza, la verticalità che sembra andare a genio alla gioventù; attaccarla, darle la scalata, conquistarla, questo è un godimento per le membra giovanili (Goethe)”.
L’alpinismo diventa sport quando le regole lo soverchiano, quando il mistero si allontana. Buttarsi giù nel vuoto come Icaro, oppure farsi travolgere dalla corrente impetuosa di qualche pazzo torrente mal si adegua ad una competizione organizzata. Strisciare nelle viscere della terra è una performance che ci riporta ad altri tempi, nel mistero del buio e nelle cattedrali interiori. E infatti uno sport nessuno lo considera tale se non è inserito in una qualche serie di competizioni organizzate. In assenza di queste e in assenza di avventura si parla infatti di “diporto” e torniamo alle passeggiate di von Haller di cui dicevo prima. Solo le attività estreme sono drammatiche e ci avvicinano alla soglia di cui parla Priorini.
Anche la competizione è dramma, ma è soprattutto umano e quindi teatrale. Un atleta piace ed ha successo non solo perché abbastanza spesso vince e ottiene risultati. Piace quando la qualità e l’intensità della sua esperienza umana superano quella dei suoi concorrenti, quando vince a dispetto dei pronostici, delle condizioni sfavorevoli, delle avversità o degli incidenti subiti in passato.
Il caso di Marco Pantani che nel 1998 vinse Tour de France e Giro d’Italia è veramente significativo di ciò che voglio dire: vincere quelle due competizioni nello stesso anno quando solo due anni prima molti lo davano per spacciato va oltre la prestazione atletica e innalza ad evento altamente drammatico ciò che normalmente sarebbe considerato solo una semplice doppietta di vittorie. Pantani così non è solo “il più forte” ma è anche il più simpatico, il più gradito, il più baciato dal successo con il favore dei tifosi e non solo di essi.
Nessun successo di quel genere per coloro che abbracciano l’estremo: chi di loro raggiunge la notorietà può al massimo sperare nella simpatia e nel rispetto. La distanza psichica tra loro ed il resto della gente rimane stellare.
Per chiarire ulteriormente ciò che si vuol dire quando si parla di attività estreme, è bene annotare la grande differenza insita tra le attività stesse, anche quelle che portano lo stesso nome. Solo per rimanere alle attività di cui ho diretta esperienza, e cioè quelle che si svolgono in montagna, occorre precisarne le diversità. Un tempo, e parliamo dell’ultimo ventennio del secolo XVIII un po’ prima della rivoluzione francese, nasceva l’alpinismo: improvvisamente si trovò che salire sulle montagne più alte delle Alpi fosse una tra le più nobili attività umane, assimilabile alle altre esplorazioni del nostro pianeta; si trovò che la grande componente avventurosa di ogni “viaggio” giustificava da sola, anche senza l’aiuto dell’innegabile voglia di giungere “prima di altri”, la grande drammaticità di ciò che si stava facendo.
Inoltre il dissidio romantico tra Io e Natura, come ho cercato di dimostrare in precedenza, è sempre stato alla base di ogni motivazione alpinistica. Un dissidio che, se in assenza del mistero a cui tende, si sviluppa e si manifesta nelle più varie forme di competizione dall’intrinseca drammaticità.
Prova ne sia il fatto che, da una ventina d’anni ad oggi, si sono affermate le competizioni di arrampicata. Queste gare si svolgono oggi prevalentemente su terreno sintetico perché, al di là delle comunque valide motivazioni per preservare intatto un terreno naturale, la parete artificiale offre garanzie ben più sicure sull’effettiva uguaglianza per tutti gli atleti del terreno di gara, reso così inalterabile dai successivi passaggi. Un po’ quello che è successo con l’ormai affermato uso, in occasione di competizioni, dell’innevamento programmato per le piste da sci alpino o nordico. Lo spettacolo, e in ogni caso la parità di condizioni, sono assicurati e garantiscono così un risultato degno di fede e ligio ad alcune regole ben precise.
Che l’alpinismo non sia uno sport come gli altri lo dimostra anche la strabiliante quantità di opere e scritti che lo riguardano. Se i titoli in tutte le lingue riguardanti l’esplorazione della montagna e le imprese compiute su di essa fossero raccolti assieme non potrebbero stare in una biblioteca anche enorme, mentre la quantità di titoli dedicata allo sport tutto in confronto è insignificante. Questo significa secondo me che sulla montagna e sul nostro tendere ad essa c’è più da dire e da raccontare, segno evidente di una ricchezza interiore e di un’esperienza assoluta, simbolo di qualcosa ben più grande di noi.
Oggi questa ricchezza è in pericolo. L’evento alpinistico, la performance, si svolgevano in un ambiente naturale ricco di fascino e di mistero. I protagonisti erano spesso ribelli alle regole della vita normale, un po’ bizzarri: “Sì, lo considero un vanto / proseguir solo il cammino… (Goethe).
Quanto l’alpinismo di un tempo non aveva alcuna regola, tanto oggi sia le gare di arrampicata, sia l’arrampicata stessa praticata tutti i giorni dagli appassionati, e perfino l’alpinismo moderno contemplano una grande quantità di regole che, anche se non sono scritte, sono alla base dell’accettazione altrui. Il protagonista ha bisogno dell’accettazione di un pubblico e per garantirsela obbedisce alle regole. Talvolta le “supera”, oppure le aggira, oppure le ignora. In ogni caso, così facendo, si pone contro all’opinione del pubblico e degli esperti, provoca quindi una polemica che, proprio per l’esito incerto che questa può alla fine avere, favorevole a lui o no, contribuisce ulteriormente al rafforzamento di quella dimensione “alterata” che qualunque sport può avere, che però nelle attività estreme è la regola.
Lo svanire del mistero ha come diretta conseguenza che l’azione estrema mostra un suo aspetto comunque peculiare: l’essere fatta apposta per strutturare lo svolgersi di un dramma soggettivo nel quale la tensione di fondo è data dal pericolo di morte.
Ben colgono ciò i media, allorché pur avendo rinunciato da tempo ad un’informazione seria in questo campo, non perdono occasione di sparare titoli di tragedia ogni qual volta la morte colpisce un certo numero di protagonisti.
La suspense sul pericolo di morte è dunque una variabile di grande importanza ed è una variante semplicistica ma efficace delle grandi tensioni di sentimento che sono state alla base del Romanticismo e che ancora oggi sono i pilastri delle attività estreme.
Diceva Nietzsche in Così parlò Zarathustra: “Ha coraggio chi sa la paura, ma la raffrena; chi guarda l’abisso, ma superbamente; chi guarda l’abisso, ma cogli occhi dell’aquila, e vi si aggrappa cogli artigli dell’aquila: quegli ha coraggio”.
Oggi il coraggio non è più tanto di moda, perfino le istituzioni che prima ne facevano un must culturale, lo celebrano meno di un tempo. Siamo ben distanti dalle fascinose copertine della Domenica del Corriere. Ma la morte ha conservato tutto il suo fascino, a volte morboso a volte meno. Il pericolo di morte è sempre importante in fondo ai nostri cuori e le attività estreme sono uno dei mezzi a portata di mano per subirne il fascino, non importa che si sia attori o spettatori. La figura del gladiatore, in un modo o nell’altro, ci rende ancora partecipi, quindi coralmente assisi ad uno spettacolo che più o meno riguarda tutti noi e le profondità del nostro intimo mistero.
Ed è proprio il riconoscimento di questo pericolo di morte che mi consente l’ultima osservazione. Il non aver raggiunto, tramite le ascensioni vissute o raccontate, le più alte forme d’arte riconosciute ha sicuramente molte ragioni: ma io vedo come la più importante quell’assenza di mistero tangibile che oggi contraddistingue il nostro vivere. La nostra autocensura, come dicevo prima, crisi se volete, la nostra reticenza a raccontare ciò che veramente si agita dentro di noi, contribuirà a dilatare le dimensioni del mistero di cui tutti abbiamo tanto bisogno. Ma perché l’autocensura è così sensibile solo nell’azione estrema? Forse perché nello svolgersi dell’azione, nel momento della concentrazione massima, si comprende che la morte è vera, non finta, e che il mistero della vita è l’unica cosa sensata che dobbiamo investigare. Senza autocensura, la coscienza potrebbe proseguire il suo cammino, da alterata a nulla.
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Expo. Sicuramente è lo stesso posto. Prima del ponte a destra. Il ponte da cui i bambini dicevano : “Guarda mamma, ci sono le scimmie!”. Ci veniva anche Ivan Guerini. Adesso devo proprio andare. Le sensazioni (moderate) mi aspettano. Ciao
Refuso : Il libro era :”Ritorno ai monti” di Ernest Pertl e Reinhold Messner
Bellissimo. L’ eterna lotta interiore tra eros e tanatos
@ 27 PasiniAnche tu conosci quel cazzo di strapiombino a Porta Venezia ?Non so se intendiamo lo stesso posto , ma ho un’immagine di almeno 30 anni fa’ , in cui il mio socio pendola da secondo giù dallo strapiombino mentre una mamma con carrozzina e bimbo passava sotto distratta..
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Abbiamo dovuto darle i sali , perchè forse pensava ad un’aggressione sessuale e il mio amico ha pendolato come un pirla a lungo… :-).
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Il distinguo che fate tu e Matteo è sottile , chi rischia vivendo di esteriorità e pensando di essere :”Il figlio di Dio” , e chi , la maggior parte degli alpinisti credo , si rende conto della fuggevolezza della vita e vuole viverla intensamente , cercando di minimizzare il rischio ma non potendolo azzerare..
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Credo che quelli che si buttano dal Brento con la tuta alare non sappiano più fare a meno di certe sensazioni , e il loro compromesso con il rischio sia molto più spostato rispetto a me , che mi cago sotto quando il chiodo comincia ad essere lontano ; una volta nel piazzale davanti al bar delle Zebrate ho parlato con qualcuno di loro che stava per risalire in furgone al Becco dell’Aquila…concentrazione e adrenalina allo stato puro : sono stati 40 minuti seduti sul furgone senza scendere a farsi una coca al bar , anche questa è una delle scelte di cui parla l’articolo..
.Una frase che mi è rimasta nel cuore di un libro di poesie di Rehinard Karl e Messner è qualcosa che suonava come : “Io sono mortale , forse se sapessi che vivrò all’infinito non mi complicherei tanto la vita sulle montagne , ma sono mortale e il mio tempo finirà…
Per questo cercherò di vivere il mio tempo intensamente..
.Quell'”intensamente” è diverso per ognuno di noi.
Matteo. Si può intendere anche così: se ripeti la stessa via per quarant’anni sei dominato dall’ossessivita’ non dal sensations seeking. Cosa differente se ricerchi la stessa sensazione in contesti diversi come di solito accade. Qualche anno fa passando vicino all’asilo di Monte Merlo a Milano al Parco di Porta Venezia, che tu penso conosca, ho visto un tizio ormai invecchiato che incontrai da giovane negli anni ‘70 arrampicare sul mitico strapiombino su cui ci allenavamo prima delle palestre indoor lottando contro i vigili urbani che ci cacciavano. Non era un sensations seeker, che peraltro non è una patologia, ma un tratto di personalità che garantisce una forte leva motivazionale. Certo può diventare una patologia autodistruttiva. Come sempre è un problema di regolazione, come in tutti i sistemi, viventi e non. Ingegneria umana insomma 😀 ciao oggi vado a cercare sensazioni in mare e stacco. Il mare ha il vantaggio che anche nello stesso golfo ogni giorno è diverso, è qualcosa che sembra vivo e sempre in movimento e interagisce con te. Bella sensazione anche questa, accanto a quella montana.
Mishima diceva appunto che bisognerebbe presentarsi in maniera dignitosa alla morte riferendosi anche allo stato del corpo.
Ogni cosa può essere estrema, alcune cose estreme però possono essere strade senza ritorno. Dal punto di vista puramente biologico e fisiologico l’attività estrema è quella che prima fa produrre adrenalina cortisolo e poi dopamina ed endorfine …e quindi crea dipendenza…..ma poi sicuramente gli stati alterati della coscienza vanno bene oltre le conoscenza di fisiologia…..ci sarebbe molto da studiare anche in altre culture non occidentali
“Con il termine sensation seeking si intende un tratto della personalità caratterizzato dalla ricerca di sensazioni ed esperienze costantemente nuove…”
Quindi difficilmente applicabile a chi ripete la stessa esperienza rischiosa, che siano i tacchetti di un attaccante da 90 kg ogni domenica o per quaranta e più anni il rischio di cadere o di prendere un sasso in testa…
Albertperth, certo che chiunque viva rischia di morire (e sul lungo periodo la morte non è un rischio ma una certezza), però c’è una certa differenza tra chi evita deliberatamente o scaramanticamente di pensarci, chi fa di tutto per scongiurarla o allontanarla e chi volutamente si impegna in attività che ne contemplano il rischio.
Mah, è brutto invecchiare se non si è in salute.
Morire giovani per qualcuno è diventare mito immortale ( Icaro).
Spesso non capir nulla permette di vivere più sereni
L attività più estrema è e resta la vita in essa vi è presente il fartlek nei suoi aspetti,accelerazioni,pause ,etc,ognuno consciamente o meno consciamente la percorre,o meglio gli è dato la possibilità di parteciparla.Al pari di ogni attività sportiva è soggetta a bruschi arresti,taluni recuperabili,altri no.Lessere umano è portatore di una malattia mortale che è la vita.Forse anche per questo cerca risposte plausibili in altre,discipline?più esistenziali e meno fisiche.Evitare di spostare gli argomenti sul solito trito di destra o sinistra,Nella sua partita di vita mia nonna 101 anni diceva è brutto diventar vecchi,peggio è morire giovani,ma ancor peggio invecchiare senza aver capito nulla.
Carlo. L’esempio cinematografico era una metafora sulla dipendenza euforizzante da attività “estreme”. Ce ne sarebbero un mare di altri, Sicuro che certe attività si fanno solo per i soldi? La componente “aggressiva” è già un elemento in più come diceva l’articolo scherzoso ma non troppo di qualche giorno fa. Ma secondo me non basta. C’è sotto di più. Riflettiamoci e vediamo cosa ne pensa qualcun’altro. Sipario.
Quante parole in più…..torna perché si prendono una montagna di soldi e si può prevaricare i diritti degli altri….come fa ogni buon fascista che si rispetti
L’estremo è altra cosa
C’è una scena nel film nella quale il protagonista tornato a casa dopo i due turni obbligatori in Iraq va a fare la spesa al supermercato con la figlia e poi toglie le foglie dalla grondaia. Subito dopo dice alla moglie che si offrirà volontario per il terzo turno. Non ce la fa a stare a casa trovandosi magari qualcosa di più tranquillo. Perché lo fa? Certo per la Patria, perché è un patriota, per i suoi compagni che lo ammirano e ai quali ci tiene a far vedere che ha le palle, ma lo fa anche perché gli piace. Gli piace aprire il cofano, trovarci le bombe, sentir salire le pulsazioni e girare l’adreanali e poi mettere in atto tutta la sua capacità e abilità e venirne fuori vivo. Fino alla prossima. Suona familiare? Ciao. Ci risentiamo quando leggo il libro.
Il marito di una mia conoscente, noto professionista milanese, con due figli, fu ucciso nelle campagne pavesi da un marocchino, uno dei tanti che abitualmente caricava alla Stazione di Milano. Certe esperienze sono al linite, possono anche non concludersi tragicamente ma il rischio è altissimo e lo sai. Proprio per quello produce uno “stato alterato di coscienza” che ti gratifica e ti motiva. Altrimenti faresti altre scelte anche in quell’ambito. Avrebbe potuto trovarsi un “amico” tranquillo e vivere la sua fluidità senza rischi, come fanno tanti. Ma il “normale” non gli diceva niente evidentemente. È un discorso un po’ “estremo” ma sotto ci sono temi trasversali. E’ anche il tema dell’artificiere in quel magnifico ritratto psicologico che è il film “The hearth locker”.
Ovvero Pasolini se la è cercata ???????
…ma veramente dici
C’è anche un estremo nella sessualità. Si mette in gioco la vita, alla Pasolini, oppure la propria reputazione, alla Marrazzo. Un continuo gioco al limite, sul crinale tra eccitazione e patologia.
Matteo: una delle tante definizioni che puoi trovare in rete. Sempre in rete se ti interessa puoi trovare anche letteratura sul tema.
”Con il termine sensation seeking si intende un tratto della personalità caratterizzato dalla ricerca di sensazioni ed esperienze costantemente nuove, varie, complesse e intense accompagnata dalla volontà di correre rischi fisici, sociali, legali e finanziari in nome di tali esperienze.”
C’e’ un estremo anche della fatica che oggi ha una popolarità enorme e crescente. La fatica produce stati particolari di coscienza durante e dopo. L’ho sperimentato nel trail running: di persona ( nel mio piccolo) e facendo il volontario al TOR. Ho visto cose vermente notevoli sotto il profilo fisico-emotivo. Altrimenti non ti spiegheresti perché lo fanno.
Per me ” estremo” è quando qualcuno mette volutamente e scientemente a rischio la propria vita.
Quindi, anche se si muore parecchio, non è estremo recarsi al lavoro. Né, a mio giudizio, speculare in borsa anche se a molti cui va male si ammazzano.
Quindi, per me, estremo ha a che fare con la fisicità sostanzialmente. E questo spiega che ognuno ha le proprie “estremità” che, se lo si vuole, le si affronta DOPO essere arrivati al proprio limite.
Perché lo si fa?
Secondo me per sfidare innanzitutto se stessi e dimostrarsi che si sa gestirsi. Poi subentra il narcisismo e la ricerca di un farsi notare.
Poi, ancora, può arrivare persino ad un lavoro.
Per concludere, secondo me, “estremo” è diverso da ” rischio”.
“una volta definite in letteratura “sensations seekers””
Io veramente avevo sentito parlare come profili di personalità da “risk takers” per piloti da corsa, portieri di calcio e alpinisti…(però sò ‘gnuranto, neh!)
Per come la vedo io “estrema” (sempre relativamente come ovvio alle potenzialità della persona) è un’attività che comporta livelli di rischio, di fatica o di concentrazione e di tensione decisamente più elevati della media. Ci sono attività, non solo in natura, che da questo punto di vista possono essere considerate “estreme”. Producono emozioni e stati d’animo particolari “alterati” direbbe l’autore del libro, che attirano un certo tipo di persone, una volta definite in letteratura “sensations seekers”. Ruoli di potere ad esempio, di rischio economico o di missione politica e via dicendo. Persone che le esercitano in modo totalizzante e spesso fino all’ultimo possibile, fino a morire sul posto di lavoro, su un areo, sul palco di un comizio, su un campo di battaglia, spinte da leve interne, che hanno poco a che fare con i soldi o le ambizioni sociali. Ci sono molte analogie con i cercatori di sensazioni forti in natura. Certo se tutti fossero così nella specie sarebbe un casino. Il grosso, la spina dorsale dell’umanità, che fa il lavoro di base è fatto da persone che si accontentano di molto meno e hanno bisogni diversi, coloni e non avventurieri. Per fortuna ci sono anche i coloni.
Intanto bisognerebbe capire cosa è o non è ESTREMO.
E’ solo mettere a repentaglio la propria vita, magari per un gioco divertente, e appagante ma pericoloso e per i più “inutile”…? Qui se ci lasci la buccia prendi dello scemo.
Oppure è estremo fare un lavoro che non ti piace per tutta la vita, e non poter, o non riuscire a fare diversamente? Qui, se ci lasci la buccia, oppure diventi frustato e depresso, ti suicidi o stermini la famiglia, ti faranno l’applauso dicendo: “era un buon lavoratore”.
Fetido. Piove effettivamente. Anche nelle grandi aree urbane, nei grattacieli di Manhattan e altrove, ci sono persone dedite ad attività “estreme” e ancora più defaticanti, rischiose e attrattive e non mi riferisco solo all’abuso di sostanze. La vita nelle aree urbane può essere più selvaggia, spietata, esigente,che in alta quota e infatti molti scappano nelle valli e altri ne diventano a volte dipendenti fino all’autodistruzione. Di persona ne ho conosciute un certo numero e la cronaca è piena di deragliamenti non difficili da prevedere. E non ne avevano alcun bisogno apparente di portarsi a quegli estremi, se non proveniente da dentro. Questo è il grande quesito che molti si pongono nei momenti nei quali la spinta all’azione per diversi motivi frena. Uno dei tanti misteri che accomuna forse l’animo degli avventurieri, di città, di mare, di montagna…
Epperò se non ricordo male, c’è qualcun altro che ha scritto qualcosa come “i veri eroi sono quelli che prendono il tram d’inverno alla mattina per andare a lavorare per mantenere la famiglia, non io che faccio ciò che mi piace anche se rischio la vita”
Mi sa che piove anche lì da te Pasini…… c’è un passaggio in montagna tempo per vivere tempo per respirare di Reinhard Karl in cui lui passando per new York dice ” ma come fa questa gente a vivere in questi grattacieli come cani nei canili……questo è un esempio di disprezzo a cui mi riferisco. A proposito di mistero dell’ attività estrema anche Karl poveraccio ha pagato un prezzo alto….il più alto.
Fetido. Per tua informazione ne’ l’autore del libro (guarda in rete biografia) ne’ l’autore della Prefazione sono intellettuali borghesi. Se ti riferisci ad altri commentatori, tra cui il sottoscritto, tu non sai niente di noi e non penso che a nessuno interessi l’esibizione dei curricula, quindi ti lasciamo alle tue illazioni. L’accostamento Goethe / Mishima è ardito ma certamente butta sul tavolo in tema importante che è quello dell’orientamento all’autodistruzione spesso legata alla depressione sicuramente presente in alcuni praticanti di attività estreme di ogni tipo. Giocare con la vita per vedere fin dove si può arrivare. Il famoso istinto di morte freudiano. Continua su questo filone se vuoi e lascia perdere il disprezzo che magari e’ utile a te ma che agli altri interessa davvero poco, perché ognuno ha i suoi disprezzi, se tutti andiamo in questa direzione come accade spesso è finita per questo spazio. Resteranno pochi e sarà un peccato. Grazie
Hanno risposto perfettamente Pasini 3 e Expo 4, ma al di là della sostanza esiste la forma, senza scadere nel politicamente corretto.
Perché utilizzare la parola disprezzo, che ha un ben definito significato, in un ambito in cui le valutazioni e le idee proprie devono (non, possono, ma devono) tenere conto delle mille condizioni diverse, delle aspirazioni di ognuno, di quali sono i condizionamenti della vita, ecc ? Esistono tante parole per esprimere accordo o disaccordo.
Sempre per il fetido, ma non vale solo per lui. Gogna è l’unico che nel suo quotidiano ha aperto una sezione commenti, aperta e senza “moderazione”, finalizzata a promuovere il dialogo e lo scambio. Non ce l’hanno Planet Mountain, L’altra montagna, Montagna Tv …se non nelle versioni FB e Instagram. Lo sfogo è un bisogno profondamente umano, tutti ne abbiamo bisogno, ma non è molto corretto andare ad inquinare in modo inappropriato uno strumento che gentilmente è stato messo a disposizione della comunità montagnarda, con il rischio di generare la fuga di persone che potrebbero contribuire per offrire qualcosa e non usare lo spazio solo per soddisfazione personale. Un minimo di autodisciplina mi sembrerebbe un buon modo per ricambiare la fiducia e la fatica che Gogna fa per tenere aperto questo strumento. Poiché gli articoli sono ripresi anche su FB e su Instagram chi sente il bisogno di un forum, che per sua natura, è più adeguato al bisogno di esternazione potrebbe mettere lì i suoi interventi. Penso che anche la comunità dei lettori apprezzerebbe e magari sarebbe più stimolata a contribuire offrendo le risorse di esperienza e conoscenze che possiede.
Io vi consiglio la lettura di yukio mishima in particolare sole e acciaio. (A proposito del mio disprezzo per gli intellettuali borghesi che parlano )….. Alla fine della storia di Goethe ricordatevi che il povero Werther si suicida …….per una delusione amorosa….mishima pure si suicida dopo aver tentato il colpo di stato in giappone ..però davvero….non come Werther nella fantasia di Goethe….(piove non posso scalare sono incattivito….)
@ Fetido
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Ma per chi e’ estremo l’estremo ?
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Ogni persona ha abilita’ estremamente soggettive , dettate dai geni , dal lavoro specifico , dall’assiduita’ e dall’eta’.
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A chi devo vendermi per :”estremo” , se magari fra 20 anni non saro’ capace di allacciarmi le scarpe ?
Fetido. Ripeto: i commenti agli articoli di un quotidiano hanno un altro obiettivo. Per esprimere il tuo disprezzo, sentimento nobilissimo e giustificato, puoi trovare luoghi più adeguati. Capisci bene che se tutti facessero così i commenti diventerebbero uno sfogatoio di sentimenti protetto dall’anonimato che dopo un po’ perderebbe qualunque valore se non per chi sente un prepotente bisogno di esternare sentimenti che, francamente, non interessano nessuno.
Continuo a notare con piacere la profonda separazione tra chi pensa all’azione estrema e chi la vive. Non nascondo assolutamente il mio disprezzo per la prima categoria.
Non ho letto il libro ma mi interessa la questione e lo leggerò. Questa Prefazione di Gogna riprende un tema coinvolgente già accennato in altri articoli. Perché alcune attività estreme attirano così tanto? Evidentemente dopo la stagione dell’azione ritorna l’interesse per domande magari a suo tempo accantonate e questa vale non solo per noi normo-dotati anche per chi ha vissuto vite alpinistiche “esagerate” come direbbe Vasco. Coninciamo dal titolo. Stati alterati di coscienza. Effettivamente le attività estreme (dove l’estremo può essere molto diverso a seconda del livello del praticante) producono delle reazioni fisiche che influiscono sulle emozioni e sugli stati d’animo. Ciascuno può testimoniarlo anche nel suo piccolo. Evidentemente questi stati d’animo sono esperienze “fuori dal normale” e sono apprezzate e perseguite dai praticanti, anche se agli altri dall’esterno possono sembrare “assurde”. Sicuramente questa è una leva motivazionale. Poi l’articolo mette in luce le influenze “culturali” che forniscono schemi e modelli di pensiero che sostanziano l’attività. Si mette in luce il ruolo della cultura illuministica e del Romanticismo come nelle prime fasi dell’alpinismo “istituzionalizzato”. Sicuramente anche questa è una leva. Sentirsi in linea con un sistema più o meno strutturato di “visione” della realta’ e della vita. Mi chiedo: vale anche per la contemporaneità o siamo in una fase totalmente “secolarizzata”? Oppure da dove vengono le influenze culturali sugli alpinismi odierni, perché forse è di alpinismi che dovremmo parlare. Infine ecco la tersza leva, conclude l’articolo, quella sociale. La competizione sublimata, lo spirito di conquista. Una leva che sta dentro di noi e si manifesta possente anche qui. Chi non e’stato competitivo prima con se stesso e poi con altri proprio nelle fasi più intense dell’azione? Domande impegnative sulle quali sarebbe interessante condividere letture ed esperienze. Perché questo dovrebbe essere lo scopo di una sezione commenti di un quotidiano: approfondire e condividere esperienze e conoscenze non fare palestra di pugilato. A quello scopo, nobilissimo peraltro, sono dedicati espressamente altri luoghi in rete.