Lettura: spessore-weight**, impegno-effort**, disimpegno-entertainment**
Il nuovo mattino
di Ugo Manera
(pubblicato su Scandere 1989)
Oltre trenta anni di alpinismo difficile ininterrotto, occupano un grande spazio nella vita. Guardando in avanti, con la prospettiva dell’inevitabile declino fisico, si vivono a volte attimi di paura. Paura che le motivazioni scompaiano e non subentrino altri interessi così intensi e importanti. Volgendo invece lo sguardo al passato si riscopre la lunga storia delle tante avventure, nasce il timore di dimenticarle, allora ti viene voglia di fissarle con il racconto scritto per non perderle mai più.
Ma sono poi veramente interessanti? Vale la pena raccontarle? Oppure sono banali, illuminate solo dalla nostalgia di chi le ha vissute? Però anche i fatti più comuni della normale vita quotidiana possono diventare i temi avvincenti di un racconto. Tutto dipende da chi scrive, se è così sensibile da stimolare i sentimenti del lettore. Non credo né all’avventura assoluta né alla totale banalità. Vale la pena provare.
Nel 1960 usciva il primo numero dell’annuario Liberi cieli della Sezione UGET del CAI, seconda sezione torinese di questo sodalizio. Scorrendo questo storico bollettino si nota che sebbene edito a nome della Sezione tutta, era invece l’espressione di un solo organismo di essa: il GAM (Gruppo Alta Montagna). Questo gruppo era nato nel 1946 e fino allora aveva avuto come presidenti Giulio Salomone (1946-49), Luciano Ghigo (1950-56), Giovanni Mauro (1957), Guido Rossa (1958-60). Il presidente in carica, Guido Rossa, in una scarna ed essenziale prefazione così sintetizzava storia e intendimenti del Gruppo: «Nel 1946 dopo l’oscura parentesi della guerra un gruppo di giovani torinesi, tagliati fuori delle vicende belliche delle grandi tradizioni dell’alpinismo torinese, muniti solo di un immenso bagaglio di progetti e speranze, unitamente al desiderio di diventare degli autentici montagnards decisero di riunire in una unica somma le nozioni ricavate dalle loro disunite attività alpinistiche.
Nacque così il GAM in seno alla Sezione UGET i cui intendimenti benché modesti furono linearmente chiari: creare un ambiente alpinistico di un certo valore nelle leve giovanili, nel quale poter trovare il compagno di cordata per affrontare le difficoltà delle Grandes courses. Ora il GAM conta 13 anni, pochi, ma sembrano tanti ripensando agli amici incontrati, ai bei ricordi acquisiti, alle ore felici e piene vissute grazie ad esso.
Il GAM ha servito in questo modo, nelle sue possibilità, la causa della grande montagna e dell’evoluzione dell’alpinismo; per questo i soci del GAM salutano chi divide con loro una passione che è scuola di vita».
Va precisato che il GAM non era un gruppo di «élite» confrontabile in sede nazionale con il CAAI (Club Alpino Accademico Italiano) ma era una selezione di alpinisti attivi ad alto livello formanti un gruppo, come dice Rossa, nel quale trovare il compagno per affrontare le «grandes courses». La tesi è dimostrata dall’esiguo numero di soci conseguenza del preciso regolamento di ammissione e permanenza nel Gruppo.
Nel 1960 i soci attivi erano: Guido Rossa, Corradino Dino Rabbi, Giorgio Rossi, Piero Fornelli, Luciano Ghigo, Franco Manfrinato, Andrea Mellano, Giovanni Miglio, Giorgio Ribetti, Franco Ribetti, Alberto Risso, Arturo Rampini, Edmondo Tron. Il regolamento del Gruppo infatti prevedeva due anni di attività con la totalizzazione di 1000 punti per l’ammissione, mentre per la permanenza occorrevano comunque 800 punti sempre cumulando l’attività alpinistica di due anni. Chi non svolgeva più attività ad alto livello inevitabilmente usciva dal Gruppo. Il punteggio era ricavato attraverso una semplice ed efficace metodologia di valutazione delle salite. Oltre alla chiara definizione degli scopi del Gruppo tra le poche righe di Guido si colgono alcuni spunti importanti per una corretta indagine sulla storia dell’alpinismo torinese. Da un lato con le frasi: «… gli amici incontrati, i bei ricordi acquisiti, le ore felici e piene vissute…» si avverte una fuga in avanti che stacca Guido dalla mentalità dell’alpinismo anni ’50 e ’60 e lo avvicina a quel periodo denominato da Gian Piero Motti «Nuovo Mattino»; mentre le espressioni: «… la causa della grande montagna… una passione che è scuola di vita… » esprimono quelle tesi dalle quali noi alcuni anni dopo ci scostammo arrivando fino a contestarle. In ogni caso la personalità di Guido Rossa e la sua attività di scalatore influenzarono molto Gian Piero Motti e lo ispirarono in alcune idee che furono tra i motivi conduttori del «Nuovo Mattino». All’inizio degli anni ’60 per i giovani era difficile raggiungere l’alta montagna per compiervi grandi salite; ristrettezze economiche e scarsità di mezzi di trasporto spesso erano ostacoli più impegnativi delle pareti più difficili. Non di rado poi l’impresa tanto desiderata non veniva neanche tentata perché mancava il compagno sufficientemente preparato e determinato. Tra i giovani scalatori era naturale perciò fare causa comune per superare tutte queste difficoltà. Il GAM con i suoi intenti e la dinamicità della propria formula era un gruppo ideale per i giovani scalatori di allora, acquistò perciò sempre più importanza fino ad uscire dall’ambito regionale nella seconda metà degli anni ‘60. Troviamo infatti nel 1969 Alessandro Gogna vicepresidente. Il punteggio per l’ammissione e la permanenza nel GAM dava grande dinamicità al Gruppo e, se pure lo condannava a un numero limitato di soci, garantiva però la costante attività alpinistica degli stessi; sull’onda riflessa del ’68, avvertita anche nell’ambiente alpinistico, appariva però un limite alla maturità e capacità di autogestione dell’uomo, così la valutazione dell’attività tramite punteggio venne abolita e questa fu una delle cause della decadenza del Gruppo. Quando, alcuni anni dopo, il GAM era ormai agonizzante, ci fu un tentativo di reintrodurre il punteggio di ammissione ma il declino era ormai irreversibile, gli scalatori avevano perso l’interesse per il Gruppo e il GAM finì. Al declino del GAM contribuì anche un progressivo spostamento dell’interesse degli alpinisti di punta verso la Scuola Gervasutti. Da parecchi anni molti degli esponenti più attivi del GAM svolgevano anche l’attività di istruttore nella scuola di alpinismo torinese e l’interesse per l’insegnamento dell’alpinismo era in crescita tanto che nel 1965 il GAM organizzò un corso di perfezionamento in alta montagna. Il corso venne funestato dalla morte del pinerolese Raffi sul Corno Stella e l’iniziativa si spense. Erano tempi di grande evoluzione tecnica sia sui materiali che sulle manovre e le novità spingevano gli scalatori verso le scuole di alpinismo unici centri allora ove era possibile lo studio e la sperimentazione in modo collettivo. L’avvio di questa nuova cultura tecnica coincide con l’arrivo in Italia dei primi materiali americani sviluppati in USA per vincere le grandi pareti granitiche californiane. Chiodi in acciaio trattato, lamelle «rurp», bong in lega leggera e dopo qualche anno i blocchetti ad incastro, diventano al tempo stesso stimolo di evoluzione tecnica e veicolo di diffusione del mito californiano che ci influenzerà sul finire degli anni ’60. Ad accrescere l’interesse degli scalatori di punta nei confronti delle scuole di alpinismo fu però la rivoluzione portata nel meccanismo di sicurezza della cordata dallo sviluppo dell’assicurazione dinamica su ancoraggio. Era una grossa e importante novità che ampliava enormemente i limiti di sicurezza della cordata, ogni scalatore si sentiva coinvolto direttamente, desiderava sperimentare la validità delle nuove manovre e trovava l’ambiente giusto per approfondire le proprie conoscenze nelle scuole di alpinismo. Le scuole più importanti attrezzavano alcune palestre di arrampicamento con strutture fisse per provare l’assicurazione dinamica e per collaudare in pratica i materiali. L’assicurazione dinamica si dimostrò in seguito un passaggio obbligato per arrivare alla moderna arrampicata sportiva ove è previsto il volo del capo cordata.
Agli inizi degli anni ‘70 la Scuola Gervasutti, stimolata dalle novità tecniche, crebbe anche come centro aggregante degli scalatori di punta torinesi riducendo in questo senso l’importanza del GAM.
Era tradizione del GAM la scelta del Presidente tra gli alpinisti più attivi del momento, così nel 1969 Gian Piero Motti viene eletto presidente. Con lui il GAM vive il suo momento di massima notorietà anche in campo nazionale. Gian Piero percorre le montagne delle valli di Lanzo fin da ragazzino, conoscente di famiglia di Giuseppe Dionisi, il fondatore e direttore della Scuola Gervasutti, viene da questi avviato alla scuola.
Inizia come allievo a 16 anni e superati in modo brillante i due corsi, nel 1965 viene invitato nel corpo istruttori. Si mette subito in evidenza come il migliore dei giovani scalatori torinesi, brillante nell’arrampicata in roccia, è estroso e pieno di inventiva accompagnata da notevole determinazione.
Imposta un suo tipo di attività indipendente ove appare come primo attore. Nei primi anni di scalate difficili arrampica sempre come primo di cordata salvo rare eccezioni e i compagni, disponibili alle sue scelte, appaiono inevitabilmente come gregari. Troviamo compagni fissi di quegli anni in tale condizione dapprima Sergio Sacco poi Gian Carlo Grassi e Vincenzo Pasquali. Non mancano salite con compagni alla pari come sulla Ovest dell’Aiguille Noire de Peuterey o nel tentativo alla Est delle Jorasses, in entrambi i casi con Alessandro Gogna, ma sono eccezioni. Gian Piero si butta molto giovane e senza esitazioni sulle grandi e celebri vie di roccia del Monte Bianco e delle Dolomiti, contemporaneamente inizia ad aprire nuovi itinerari nei luoghi di arrampicata classici per i torinesi come la Rocca Sbarua e il gruppo Castello-Provenzale.
L’ambiente alpinistico del tempo è conservatore e guarda in modo critico questo giovane che con apparente spavalderia si sta affermando macinando grandi vie di roccia una dietro l’altra. C’è chi si spinge a pronosticare una fine prematura per la rapidità con cui brucia le tappe. Gian Piero proveniva da una famiglia che gli permetteva qualche disponibilità finanziaria e quando interruppe gli studi tali disponibilità gli consentivano di arrampicare a tempo pieno per un certo periodo.
Fu tra i primi giovani ad avere un’auto per spostarsi, possedeva sempre i migliori materiali e quando era in giro per arrampicare amava trattarsi bene scegliendo buoni ristoranti per pranzare e alberghi anziché campeggi per dormire. Questo suo modo di vivere abbinato a qualche atteggiamento apparentemente egocentrico gli valse l’appellativo un po’ polemico di Principe.
Ma con Gian Piero gli osservatori superficiali hanno sempre sbagliato e non lo hanno mai capito. In montagna non era affatto spavaldo e, anche se determinato, era sempre molto prudente, sapeva valutare i propri limiti e non li superava.
Non era né egocentrico né egoista, anzi era invece molto generoso e altruista. Rifuggiva accuratamente quelle manifestazioni che potevano metterlo in evidenza come protagonista di fronte al pubblico, certe sue rinunce o assenze, che furono interpretate dai più come atti di superbia o di superficialità sono state invece per Gian Piero delle occasioni di profonda riflessione inferiore che lo hanno portato ad agire in modo diverso da come l’opinione comune e semplicistica si aspettava.
Quando Gian Piero assunse la presidenza del GAM l’ambiente alpinista torinese era in un momento di transizione. I protagonisti del «dopo Gervasutti», animatori dei primi anni del Gruppo Alta Montagna, erano quasi scomparsi dalla grande attività alpinistica. Guido Rossa si era trasferito a Genova e l’impegno politico-sindacale lo aveva allontanato dalle ascensioni in montagna. Il gruppo di Andrea Mellano aveva esaurito la propria spinta, così come i fratelli Fornelli. Franco Ribetti non era più tornato alle scalate dopo un grave incidente. L’unico a continuare l’attività mai intensa ma costante era Corradino Rabbi. Il giovane che più di tutti sembrava avviato a una grande carriera alpinistica, Gianni Ribaldone, era caduto al Mont Blanc du Tacul così come cadde sulla Nord del Greuvetta nel 1970 un altro protagonista, Paolo Armando. Gli alpinisti più attivi in quel momento restavano: Gian Piero Motti, Ugo Manera e Gian Carlo Grassi.
Gian Carlo Grassi, pur con già una notevole attività svolta, non era ancora il personaggio che tutti oggi conosciamo. Era un giovane timido e insoddisfatto, costretto a un lavoro che detestava e nel quale non si realizzava. Vedeva la montagna come suo unico orizzonte, arrampicare era il suo modo dì realizzarsi sfuggendo a un mondo che non era il suo e dal quale si sentiva oppresso ed umiliato. Con il suo carattere poco aggressivo, malgrado la notevole attività, non riusciva a imporsi in modo adeguato in un ambiente che nei suoi confronti a volte fu molto cattivo. Spesso anziché aiutarlo in qualche suo problema esistenziale ironizzammo proprio su questi problemi: qualcuno del nostro gruppo lo soprannominò Calimero da una pubblicità televisiva dove un pulcino dal nome appunto di Calimero appariva perennemente perseguitato dalla sfortuna.
Nella primavera del 1972 Gian Carlo, io credo per un errore medico, risultò malato ai polmoni e venne ricoverato per circa due mesi in sanatorio. Quando uscì aveva diritto per qualche tempo ad una piccola pensione. Pertanto su questo misero aiuto decide coraggiosamente di abbandonare l’odiato lavoro e di intraprendere la difficile e incerta strada del professionista della montagna. Si trasferisce da Torino a Condove in Val di Susa, diventa aspirante guida e poi guida. L’inserimento in questa professione con livelli di reddito sufficienti per vivere è lungo e difficile, all’inizio deve ricorrere alle stagioni di lavoro invernale nelle stazioni sciistiche e qualche volta, nella stagione della vendemmia, si trasferisce in Francia per la raccolta dell’uva. Proprio con alpinisti francesi realizza un rapporto stabile di guida accompagnandoli a esplorare i nostri gruppi alpini piemontesi. Agli inizi dell’attività di guida ricordo un episodio che Gian Carlo ci raccontò. Trovata una sistemazione in un piccolo alloggio a Courmayeur, Gian Carlo vi si trasferisce nell’estate per essere vicino al Monte Bianco e avere così maggiori possibilità di esercitare. Una notte però degli sconosciuti penetrano nell’alloggio e gli rubano l’attrezzatura alpinistica. Anche nei momenti più difficili, quando era alla ricerca di una dimensione di vita che lo liberasse dai vincoli di lavoro non legati all’alpinismo, Grassi non ha mai smesso l’attività di inesauribile ricercatore. Un’attività improntata al più puro e tradizionale spirito dilettantistico ossia espressa per proprio diletto e non proiettata all’affermazione ed esaltazione della propria immagine verso il pubblico e di conseguenza verso una possibile commercializzazione della stessa.
Credo di non aver mai incontrato nessuno con una passione alpinistica così radicata come in Gian Carlo, la sua attività è unica, forse non ci sono altri alpinisti che annoverano tante prime ascensioni, dai massi della Valle di Susa alle più alte cascate di ghiaccio del Monte Bianco. È senz’altro uno dei massimi ricercatori dell’alpinismo italiano, il bouldering a Torino lo abbiamo appreso da Grassi quando con certosina pazienza si diede alla scoperta dei massi erratici che circondano Torino, li ripulì con cura dalla vegetazione che li copriva e vi scoprì innumerevoli passaggi. Lo stesso avvenne con le cascate ghiacciate d’inverno, l’esempio di Gian Carlo ci trascinò tutti a provare e praticare questa attività che prima ci era praticamente sconosciuta.
Nel 1965 quando ci incontriamo nell’ambito della scuola chiamati come istruttori, le attività di Motti e mia non coincidono. Gian Piero preferisce la roccia e l’arrampicata tecnica mentre io sono attratto di più dalle grandi pareti sconosciute con prevalenza di terreno misto. Poi le nostre strade si incontrano proprio all’inizio di quel lungo periodo che Motti indicò con il nome di «Nuovo Mattino».
L’alpinismo in quegli anni cercava di rinnovare i propri obiettivi, precedentemente nuovi orizzonti erano stati offerti dal grande alpinismo invernale ma in pochi anni le pareti erano state salite nella stagione più fredda e il filone si stava esaurendo. Contemporaneamente si era sviluppata l’era delle super direttissime aperte con largo impiego di chiodi a pressione e totalmente in arrampicata artificiale. Gli scalatori di punta si accorsero presto che queste ascensioni anziché un nuovo orizzonte rappresentavano per l’alpinismo una involuzione; la tecnologia esasperata assassinava i valori tradizionali che gli scalatori avevano sempre scoperto nella loro attività e questo tipo di scalate si formò di fronte a una vera e propria contestazione da parte degli alpinisti più evoluti che reclamavano un ritorno all’arrampicata libera. I primi materiali di origine americana accompagnavano presso di noi le notizie di eccezionali ascensioni sulle pareti granitiche della California. Giorni e giorni passati su pareti rese torride dal sole fino a giungere a uno stato di essere quasi trascendente spinti da una filosofia della scalata diversa da quella romantico-eroica dell’alpinismo europeo e in particolare di quello italo-tedesco.
La dimensione «californiana» dell’arrampicata venne da noi mitizzata e certamente si scostò molto dalla realtà, però contribuì a indicarci che esistevano filoni diversi da quelli tradizionali entro i quali si erano mosse le ricerche di nuovi orizzonti del nostro ambiente alpinistico. Gian Piero era attento lettore delle notizie provenienti da oltre oceano, dall’Inghilterra e anche dalla Francia, le interpretava e le diffondeva tra di noi. Spesso nelle discussioni si dibatteva la possibilità della vita in parete come obiettivo alternativo alla conquista della vetta. Cominciammo a guardarci attorno per uscire dai noti centri di arrampicata e trovare pareti più difficili ove sperimentare la nostra interpretazione del mito californiano.
Se siamo andati al Bec di Mea, al Caporal, al Sergent prima e alle pareti di Sea, a Caprie ed Ancesieu dopo, è perché questo tipo di ricerca e di avventura ci piaceva e ci portava a un impegno completo. Ognuno di noi ha vissuto però quel periodo con interpretazioni personali che, viste esternamente, potevano dare delle immagini a volte alterate delle effettive motivazioni.
Io per esempio, alpinista del tempo libero, con un lavoro impegnativo e vincolante, dividevo in modo netto nell’arco dell’anno le stagioni della mia attività, così non sarei mai andato ad arrampicare al Caporal nei mesi estivi quando tutto il mio interesse era rivolto all’alta montagna, mentre altri come Grassi, con più tempo a disposizione, frequentavano queste pareti anche nei mesi di luglio o agosto. Questo non significa che a me piacesse di meno aprire una nuova via sul Caporal o in Sea che agli altri.
Quando cominciai con l’alpinismo delle grandi difficoltà era prevalente in me l’atteggiamento del «Bastian Contrario», non mi piacevano le cose note e confezionate, amavo poco le ascensioni classiche e alla moda. Così, andando contro corrente, ricercavo le pareti poco note e le vie dimenticate. Le esperienze maturate poi nei periodi del Bec di Mea e della valle dell’Orco mi stimolarono sempre di più nella ricerca del nuovo e ignoto. I miei progetti erano così sempre troppi e il tempo per l’alpinismo troppo poco; arrivai perciò a impostare la mia attività alpinistica quasi con gli stessi concetti di efficienza che professionalmente applicavo in quanto responsabile della produzione di uno stabilimento. Siccome poi spesso esageravo in questo atteggiamento, mi attiravo le punzecchiature ironiche degli amici.
Oggi mi viene da ridere pensando a quella impostazione, ma allora ne ero abbastanza convinto tanto da tenere ben divise le stagioni delle avventure in falesia da quelle delle avventure in alta montagna.
Più avanti la mia ricerca del nuovo raggiunse l’eccesso quando nel corso del periodo di attività comune con Isidoro Meneghin trascorsi stagioni intere senza percorrere neanche un metro di arrampicata che non fosse via nuova, sia nelle cosiddette «palestre» che in alta montagna. Nell’ambito della Scuola Gervasutti, tra gli anni 1972 e 1973, balzò in evidenza tra gli allievi un giovane studente: Danilo Galante. Era un ragazzo dal fisico di atleta con poca voglia di studiare ma molta di arrampicare; si distinse subito per la sua intraprendenza e per la predisposizione all’arrampicata su roccia. Già nella primavera del 1973 ci trovammo accomunati in una bella avventura su una salita molto impegnativa per quei tempi: il pilier Leprince-Riguet sulla parete di Glandasse in Vercors.
Con Motti avevo scelto questo obiettivo nella sistematica esplorazione delle grandi pareti calcaree francesi iniziata tra il 1971 e il 1972. A noi si unì Grassi che ritornava alle grandi vie dopo la parentesi della malattia, con lui c’erano Danilo Galante e un altro giovane, Antonio Sacco. Gian Carlo, che aveva pernottato in un luogo umido e freddo, arrivò all’attacco della parete indisposto e dovette ridiscendere: così i due ragazzi, ancora allievi della scuola, formarono cordata indipendente dietro di noi e superarono in modo brillante il difficile pilastro. Galante con la sua esuberanza fisica era portato all’arrampicata di stampo atletico ed era molto sensibile a tutte le novità che l’arrampicata su roccia proprio in quegli anni cominciava a offrire. Fu il primo che io ricordo ad arrampicare costantemente con le pedule a suola liscia (allora esisteva solo il modello P.A.). Grassi, nel suo primo e difficile periodo di montagna totale, legò subito con Danilo dando inizio a una profonda amicizia e a una collaborazione alpinistica che se non fosse stata stroncata dalla morte di Danilo avrebbe certamente lasciato una traccia importante nel panorama dell’alpinismo italiano. Finita con il 1973 la scuola di alpinismo, iniziò per Galante un intenso periodo di attività d’arrampicata; attorno a lui si formò un gruppo di giovani animato oltre che dal comune interesse per le scalate anche da spiccate tendenze contestatrici e trasgressive. Tra questi il più rappresentativo si dimostrò Roberto Bonelli, mentre si evidenziava per la sua collocazione politica di sinistra Piero Pessa proveniente da una impegnata esperienza sindacale maturata negli anni di massimo potere del sindacato con i celebri «autunni caldi», seguiti al ’68. Tutti gli altri vivevano per lo più all’ombra di Danilo e, almeno alpinisticamente parlando, non hanno lasciato molto. Ebbi l’occasione di trascorrere due giorni interessanti con Galante, Bonelli e Pessa nel giugno 1974. C’era una salita che da tempo stava a cuore a Motti e a me: il grande pilastro della Croix de Tête nella Valle della Maurienne francese; programmammo un tentativo e a noi si unirono appunto Galante, Bonelli e Pessa. Non portammo a termine l’ascensione causa il sopraggiungere della pioggia a circa metà pilastro, ma fu per me comunque un’esperienza interessante in compagnia di quei giovani che interpretavano la società, il lavoro e l’alpinismo in modi molto diversi dai miei. Soprattutto mi incuriosì Bonelli che vedevo per la prima volta e che mi apparve subito fatalmente indirizzato a seguire, costi quel che costi, le sue idee non ragionate ma istintive. Il gruppo di cui Galante si proponeva come indiscusso leader portava senz’altro degli impulsi nuovi nel mondo dell’arrampicata sia sul piano della concezione della via, e lo dimostrano le vie all’Orrido di Foresto e al Sergent, che sul piano tecnico: furono i primi a convertirsi radicalmente, oltre che all’uso della pedula a suola liscia, alle protezioni alternative ai chiodi (blocchetti a incastro, eccentrici, ecc.). Più difficile da inquadrare il loro indirizzo nei confronti dell’alpinismo oltre i limiti della «falesia», anche perché di tale alpinismo non ne praticarono molto. Ciò che a mio avviso caratterizzò maggiormente quel gruppo fu però l’atteggiamento di trasgressione generalizzata. Non si può neanche trovare l’aggancio di tale atteggiamento a una proiezione del ’68 ormai lontano perché i maggiori esponenti, Galante e Bonelli, non manifestavano certamente indirizzi legati ai movimenti di estrema sinistra seguiti al ’68, semplicemente erano portati a trasgredire le regole comuni. Per esempio: uno dei punti di onore sbandierato sempre dall’alpinismo ufficiale era l’assoluta sincerità dello scalatore tipo nel dichiarare le proprie salite. Galante, almeno in un caso, trasgredì in modo provocatorio a questa regola. Era l’agosto 1974, mi ero allontanato dal Monte Bianco coperto di neve fresca, per compiere una «prima» nel Gran Paradiso. Quando tornai a Courmayeur incontrai Danilo e compagni nel corso della consueta passeggiata tra il negozio di Toni Gobbi e la casa delle Guide; si informò sulla mia salita e mi comunicò in modo un po’ provocatorio che due giorni prima lui e Bonelli avevano salito in solitaria, rispettivamente le vie Mayor e Poire sulla parete della Brenva ripetendo l’impresa di Bonatti e Mauri di parecchi anni prima. Emerse in seguito che queste salite erano pura invenzione, ma sono convinto che l’affermazione non veritiera non aveva come fine l’acquisizione di gloria alpinistica ma semplicemente rappresentava una forma di trasgressione provocatoria alle regole dell’alpinismo convenzionale. Comparve per questi giovani l’appellativo di «Mucchio Selvaggio» coniato probabilmente da Andrea Gobetti che solo saltuariamente faceva parte del gruppo in quanto da parte sua la pratica dell’arrampicata e dell’alpinismo era modesta.
In quel periodo incontrai un giorno proprio Gobetti con un braccio al collo; alla mia domanda rispose che era il frutto di una allegra serata da «Mucchio Selvaggio». Durante una cena Gobetti, forse un po’ bevuto, aveva rivolto qualche complimento alla ragazza di Bonelli, quest’ultimo aveva ritenuto di rispondere con un bottiglione di vino scaraventato sulla testa. Gobetti per proteggere il capo sollevò il braccio, il bottiglione si ruppe e gli causò una profonda ferita alla mano. Sempre relativamente a quel gruppo correva poi voce nel nostro ambiente che non fosse disdegnato qualche episodio di «spesa proletaria» per procurarsi benzina, bevande e altri generi di consumo.
Al di là di questi coloriti episodi del «Mucchio Selvaggio», Danilo Galante era un arrampicatore molto forte e senza la sua prematura scomparsa certamente lo avremo trovato tra i protagonisti nella rivoluzione dell’arrampicata libera sportiva dei primi anni ’80.
Con il 1975 si chiude quell’importante fase dell’alpinismo torinese durata quasi dieci anni. Danilo Galante muore al Gran Manti e il gruppo di giovani che lo riconosce come leader lentamente si disgrega. Gian Piero Motti scompare a Ceresole Reale e per cinque giorni il mondo alpinistico piemontese e valdostano è mobilitato alla sua ricerca. Quando ritorna, forse provato da quell’esperienza, ma soprattutto amareggiato da commenti e critiche espresse anche da chi egli considerava amico, si ritrae in disparte, lascia l’alpinismo pur continuando ad arrampicare saltuariamente e cessa di proporsi come l’animatore culturale del movimento alpinistico torinese anche se rimane sempre il punto di riferimento per i protagonisti di quel periodo e per i giovani che stanno emergendo. L’attività alpinistica per alcuni di quei protagonisti non diminuisce, anzi si intensifica; ognuno però segue la propria strada lungo filoni che non hanno più un denominatore comune così definito come negli anni a cavallo del 1970.
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Bello, interessante e grande esempio di libertà oggi purtroppo dimenticata e mascherata da colori alla moda. Grazie Manera per avercelo ricordato.
Ho riletto con un po’ di nostalgia di quegli anni lontani che per me sono stati “favolosi”. Quanti personaggi e amici che non ci sono più! Se potessi tornare indietro vorrei riviverli tale e quale, con gli stessi personaggi e le medesime avventure.