Lettura: spessore-weight****, impegno-effort**, disimpegno-entertainment**
La Parete di Balma Fiorant (GPM 040)
Una palestra californiana in Valle dell’Orco
di Gian Piero Motti
(pubblicato su Scandere, 1974)
“Non contente de faire de la gymnastique sur les murs de la cattedrale… ils en saccagent les sculptures (Georges Livanos in Au de là de la verticale)”.
La palestra di roccia nacque nell’ambito dell’alpinismo cittadino per soddisfare a un’esigenza di preparazione e di allenamento costante, in vista delle salite da effettuare durante la stagione estiva in alta montagna. Questo concetto di palestra intesa come mezzo per raggiungere e mantenere un buon stato di forma, ha subìto una profonda evoluzione che ha portato la palestra ad essere sovente il fine e non più il mezzo. I motivi di questa radicale trasformazione sono facilmente comprensibili.
Sulla catena alpina i grandi problemi da risolvere sono in via di esaurimento, ma la fantasia e il desiderio di scoperta dell’alpinista, secondo alcuni, non possono trovare completa soddisfazione nella ripetizione di itinerari già aperti da altri. Qualcuno propone la schiodatura totale di tutte le grandi vie classiche, permettendo in tal modo al ripetitore di incontrare la parete nelle stesse condizioni in cui la trovarono i primi salitori.
È la severa regola dell’alpinismo californiano, che Gary Hemming sintetizzò nella famosa frase: “Non lasciate nessuna traccia di voi in parete, né chiodi, né cunei, né cordini. Non asportate nulla della parete, ritornate portando con voi i vostri ricordi e le vostre fotografie. A chi vorrà seguirvi non dite nulla di preciso: soltanto il punto di attacco, quello di uscita, e un cenno per le difficoltà generali”.
In Francia si è fatta sentire anche la voce autorevole di Lucien Devies il quale si batte tenacemente per la conservazione dell’ambiente naturale alpino nella sua asprezza e nella sua natura selvaggia. Egli propone la distruzione dei bivacchi e dei rifugi posti sulle grandi creste delle Alpi occidentali e sulla vetta delle montagne. Devies scrive: “Un giorno avevamo sulle Alpi il Caucaso e l’Himalaya, rappresentati dalle lunghe creste e pareti delle Alpi Occidentali prive di rifugi e bivacchi e che, in queste condizioni, potevano offrire la grande avventura. Oggi gli alpinisti più fortunati e più ricchi possono raggiungere i monti delle terre lontane e là trovare l’avventura. Ma i giovani che non possono permettersi questo lusso devono trovare ancora sulle Alpi il Caucaso e l’Himalaya”.
Dunque la più grande soddisfazione dell’alpinista, per i più, è quella di scoprire nella parete di una montagna un tracciato possibile, di studiarlo, analizzarlo, immaginarne le difficoltà, temerle e infine misurarsi con esse e dare forma concreta a quello che era nato come immaginazione.
Oggi questo non sempre è possibile sulle grandi pareti alpine. Gli scalatori francesi hanno dato l’esempio iniziando nelle loro Prealpi Calcaree un’opera di esplorazione sistematica, alla ricerca di grandi pareti ancora vergini. Il lavoro ha dato i suoi frutti, le vie aperte sono di grande difficoltà, di livello pari a quello delle più famose vie dolomitiche. È vero, ai piedi della parete si estende la foresta, sopra, usciti dal verticale delle rocce, ti accoglie il verde e pianeggiante altipiano. Ma quando sei impegnato in parete, vivi lo stesso “istante” che potresti vivere sul Petit Dru o sulla Civetta.
È lo spirito dell’alpinismo californiano. Lo scopo non è raggiungere la vetta, e nemmeno affermare se stessi. L’arrampicata è un mezzo per vivere sensazioni più fini e profonde.
Risalendo la valle dell’Orco poco dopo Noasca, quando la strada comincia a inerpicarsi nella cupa e selvaggia gola che poi, come per incanto, si apre e lascia spazio alla splendida conca di Ceresole Reale, sovente il mio sguardo si era posato, poco prima della galleria, su una gigantesca lastra di granito grigio e giallastro che si alzava per più di duecento metri da un caos di blocchi ammonticchiati. Lo sguardo indagatore andava alla ricerca di qualche possibile via di salita tra quei lastroni panciuti e levigati che ricordavano le grandi muraglie granitiche della Yosemite Valley in California.
Ma ogni desiderio di salire pareva impossibile. Sovente l’alpinista dà alla difficoltà un valore troppo oggettivo, ossia vede la difficoltà solo nella montagna e solo nella parete. Egli non si rende conto invece che la difficoltà è un valore anche soggettivo ed è insito in se stesso. Lo scalatore deve superare la difficoltà rappresentata dalla conformazione rocciosa, ma deve pure vincere la difficoltà che è in lui, rappresentata dalla paura e dal timore di infrangere il tabù del limite. Così è stato in tutte le attività umane. Quando Jean-Antoine Carrel salì il Cervino, era il limite per quei tempi, ma già esistevano le pareti di sesto grado, solo che l’occhio dello scalatore non poteva vederle e desiderare di scalarle perché la difficoltà da infrangere era troppa in lui. Oggi forse intorno a noi ci sono pareti di settimo e di ottavo grado, ma noi non le vediamo. Forse verrà uno più pazzo o più intelligente o più disinibito di tutti noi e oserà infrangere il limite, l’“ipse dixit” aristotelico: il nostro impossibile si sgonfierà come un pallone bucato.
Mentre i primi salitori della parete nord del Dru si affacciano verso l’inviolata parete ovest, osservano le immense placche levigate e dicono che non sarà mai salita. Lo sarà invece, e lo saranno anche le pareti che oggi noi riteniamo impossibili. Nell’eterno divenire e nella continua evoluzione universale è assurdo che un piccolo e insignificante fenomeno come l’alpinismo possa infrangere questa legge e arrestarsi su posizioni acquisite.
È un discorso duro che spiace ai cavalieri del sesto grado, che negli anni ’30 e ’40 si illusero di aver bloccato il limite in libera arrampicata. Il loro limite oggi è superato e lo sarà il nostro tra non molti anni. Jesse Owens correva i 100 metri in 10 e 2, oggi si corre in 9 e 9, domani in 9 e 5.
Sulle pareti granitiche di Balma Fiorant noi crediamo di aver aperto per l’alpinismo piemontese e torinese un discorso nuovo. Evoluzione vi è stata, ma domani la via dove noi abbiamo dovuto ricorrere a tutto il nostro bagaglio tecnico e adrenalinico, sarà considerata una “classica” dai giovani scalatori del futuro.
Mentre Georges Livanos compie la prima salita del formidabile diedro della Cima Su Alto (Civetta) che ora porta il suo nome, osserva lo spigolo che delimita a sinistra il diedro e pensa che forse in un domani quello sarà pane per i denti dei futuri sestogradisti. Con ironia pensa al suo diedro, allora le dernier grand problème des Dolomites, ridotto a scalata di iniziazione per alpinisti del futuro i quali commenteranno: “Eh, devi pensare ai limitati mezzi dell’epoca, oggi ci pare molto facile, ma allora…”.
Lo spigolo a sinistra del diedro è stato salito e il diedro, seppure molto difficile, è percorso ogni anno da qualche cordata. La profezia di Livanos non era proprio sbagliata.
Quando siamo saliti per attaccare le placche di Balma Fiorant eravamo forti di una preparazione tecnica e psicologica che ci permetteva di guardare la parete con un intento ben diverso. Eravamo sicuri di salire, mentre invece solo pochi anni prima ci pareva impossibile. La parete indubbiamente era sempre la stessa, presentava le stesse difficoltà da migliaia o milioni di anni, ma noi eravamo cambiati, noi avevamo infranto quel tabù che non ci permetteva di oltrepassare quel limite che ci eravamo imposti.
Danilo Galante, assicurato da Roberto Bonelli, attacca il tratto più impegnativo della Fessura della Disperazione, 1a ascensione, 19 maggio 1974. Sulla sinistra si vedono Gian Piero Motti e Piero Pessa impegnati sulla via Cannabis. Foto: Giuse Locana
Nella Yosemite Valley c’è El Capitan, parete immensa, guscio di granito dalle proporzioni disumane. Balma Fiorant presenta al centro una parete che è un microcosmo del Capitan, noi l’abbiamo chiamato Il Caporal.
Il Caporal è il settore centrale di Balma Fiorant ed anche il più bello e grandioso. A destra spicca una parete giallastra assolutamente liscia e verticale, solcata al centro da un’unica fessurina, che va e viene tra quelle lastronate convesse che noi abbiamo chiamato “Lo Scudo”. Al centro un grande e marcato diedro-camino divide la parete in due settori: è il punto debole, la via logica, seguita appunto durante la prima salita. Più a sinistra, al di là di placche enormi e levigate, si alza un diedro regolare, perfetto, di incredibile bellezza.
Oltre la galleria, a sinistra del Caporal, un altro settore, caratterizzato da ruvidi lastroni incisi da esili fessure, ha attratto l’attenzione degli scalatori torinesi. Lo hanno chiamato Il Sergent. A destra del Caporal, vi è una parete formata da due immensi gradoni lisci e panciuti, divisi da un terrazzo di placche inclinate. È la Parete dei Falchi.
Vorrei dare qualche cenno di storia alpinistica.
Nell’autunno 1972 cominciamo a interessarci alla parete. Ugo Manera, Guido Morello e il sottoscritto attaccano il diedro centrale, che pare la via più logica di salita e giungono fino a pochi metri dall’uscita. Sorpresi dal buio e mancanti di materiale adatto, escono dalla parete con l’aiuto di una corda calata dall’alto da Ilio Pivano. Pochi giorni dopo torniamo, Manera ed io con Vareno Boreatti e Flavio Leone, e completiamo la via, una splendida arrampicata in un ambiente granitico di insolita grandiosità (la chiameranno Via dei Tempi Moderni, NdR).
Nella primavera 1973 Manera con Piero Pessa sale lo spigolo che delimita a destra Lo Scudo. Le mie attenzioni sono rivolte ora allo Scudo dove mi pare che si possa aprire la via più elegante e grandiosa della parete. A Torino trovo Mike Kosterlitz, eccezionale arrampicatore inglese, che si dimostra entusiasta del progetto. In una calda domenica di aprile attacchiamo senza convinzione lo Scudo, ma siamo svogliati e non abbiamo grinta. Inoltre sarebbero necessari i chiodi a espansione che non abbiamo portato.
Mentre ce ne stiamo sdraiati su un pietrone a goderci il sole e a guardare Alberto Re e Sonino che compiono la prima ripetizione della via del diedro, inventiamo una via sulle enormi placche a sinistra, dove ci attira una traversata di 50 metri su un lastrone quasi privo di fessure.
Qualche giorno dopo, con Gian Carlo Grassi, attacchiamo la via. Riusciamo a salire fino all’inizio della traversata, dopo che Mike ha superato uno strapiombo e una placca di difficoltà allucinanti. Lasciamo una corda fissa che ci permetterà di risalire senza difficoltà la prossima volta. Torniamo in settimana e completiamo la via che si rivela di una bellezza e di una difficoltà eccezionali. Ancora una volta Kosterlitz ci dà una dimostrazione della sua bravura e del suo coraggio, attraversando una placca assolutamente priva di appoggi e fidandosi esclusivamente dell’aderenza delle pedule. La chiamiamo la Via del Sole Nascente.
Frattanto il Caporal comincia ad essere conosciuto anche al di fuori della cerchia torinese. Alessandro Gogna e il compianto Leo Cerruti aprono una via in una fessura-camino, molto difficile e faticosa che si apre a sinistra della Via del Sole Nascente (via dei Tempi duri, NdR).
Nell’autunno 1973, con Manera, in due riprese superiamo le placche dello Scudo con un’arrampicata artificiale di rara eleganza ed esposizione. È la Via della Rivoluzione.
Frattanto Grassi, Danilo Galante e Sergio Sacco hanno scoperto una possibilità nei lastroni del Sergent, e aprono la Via Cannabis, piccolo capolavoro di arrampicata libera e artificiale.
È ora la splendida lastronata del Sergent che interessa gli arrampicatori. Nella primavera del ’74 è ancora Galante che apre due nuove vie di puro stile granitico, di cui una dal titolo molto significativo, Fessura della disperazione, è forse una delle arrampicate più rudi e tecnicamente difficili del settore. Si tratta di una lunghissima fessura diagonale in cui tutte le possibili tecniche di incastro devono venire in aiuto dell’arrampicatore, con scarse possibilità di assicurazione.
Manera, con alcuni compagni, trova una bella via, non estrema e su roccia ideale, sulla bastionata superiore della Parete dei Falchi, che può ancora offrire enormi possibilità.
Il 4 giugno 1974 Franco Locatelli (con Vittorio Duregon, NdR) apre una via in un magnifico diedro-camino posto al bordo destro della parete del Sergent. Per mancanza di materiale adatto rinuncia a proseguire nella parte alta, formata da una fessura rovesciata tra grandi strapiombi. Pochi giorni dopo Morello e Motti concludono la via, sicuramente una delle più originali e divertenti del gruppo.
Nell’agosto del ’74 Galante e Rossi ripetono la via dei Tempi duri, poi decidono di proseguire a sinistra lungo un’impressionante serie di diedri gialli e strapiombanti. Incontrano difficoltà di ordine decisamente estremo in artificiale, sono costretti a un penoso bivacco su staffe in magliettina e blue-jeans e devono ricorrere a tutte le astuzie della più moderna tecnica artificiale per superare quelli che loro han definito gli Strapiombi delle Visioni.
Nell’autunno del ’74 gli interessi si concentrano sul diedro nero, che caratterizza in maniera inconfondibile il settore sinistro del Caporal. Un primo tentativo permette di raggiungere una piccola nicchia sopra il grande tetto: la domenica successiva Galante, Pessa, Roberto Bonelli, Motti e Laura Trentaz completano la via, sotto una fitta e inattesa nevicata.
Il buio, la notevole quantità di neve caduta, la mancanza delle pile, obbligherà i cinque a una tragicomica discesa conclusasi solo verso la mezzanotte, dopo una serie di corde doppie su alberi, in un boschetto che in condizioni normali sarebbe ben adatto a cercatori di funghi.
Manera, sempre alla ricerca di nuovo terreno, con Dino Rabbi e Claudio Santunione, apre poco dopo una via piuttosto dura e delicata sulla grande parete grigia e rossastra compresa tra il Caporal e la Parete dei Falchi (poi denominata Parete delle Aquile, NdR). Qui le possibilità di aprire nuovi itinerari sono ancora più che notevoli.
Al termine dell’autunno, in quelle giornate irripetibili di fine ottobre e inizio novembre, rese ancor più irreali da un’atmosfera di cristallo che rende brutali le separazioni tra luce ed ombra, Grassi, Galante, Morello, Pessa, Andrea Gobetti e Motti trasformano in realtà un progetto di via “diagonale” che, attaccando nei pressi del camino iniziale dei Tempi moderni, sale con una linea elegantissima ad attraversare la placca del Sole Nascente, per poi seguire un formidabile diedro biancastro e strapiombante, cui fa seguito una serie di camini fino alla sommità. Di tutte le vie aperte a Balma Fiorant, quest’ultima, chiamata Il lungo cammino dei Comanches, è forse la più bella e completa, per la continuità e per la grande varietà di passaggi in arrampicata libera e artificiale che essa offre all’arrampicatore.
Resta ancora molto da fare? Sul Caporal i problemi più logici e “naturali” sono stati risolti. Chi avrà voglia di picchiare sodo sul punteruolo potrà ancora sbizzarrirsi a trovare qualche via particolarmente attraente. Al Sergent il più è fatto, resta qualche variante interessante. Invece ancora molto resta da fare alla Parete dei Falchi e a quella delle Aquile e penso che durante la prossima stagione queste bastionate granitiche potranno offrire grosse sorprese.
Chi vorrà ripetere le vie già aperte forse si stupirà parecchio di incontrare su una parete così breve un concentrato di difficoltà e di sostenutezza decisamente insoliti per una palestra. Ma soprattutto sarei molto felice se su queste pareti potesse evolversi sempre maggiormente quella nuova dimensione dell’alpinismo spogliata di eroismo e di gloriuzza da regime, impostata invece su una serena accettazione dei propri limiti, in un’atmosfera gioiosa, con l’intento di trarre, come in un gioco, il massimo piacere possibile da un’attività che finora pareva essere caratterizzata dalla negazione del piacere a vantaggio della sofferenza.
Se qualcuno poi dirà che questo non è più alpinismo, di certo non ci sentiremo offesi nel sentirci definiti semplici “arrampicatori” e non “ALPINISTI”. Cosa sia poi veramente l’alpinismo ancora non l’ho ben capito o almeno potrei aver capito certe motivazioni dell’alpinismo, ma mi sfugge il significato di una definizione che vorrebbe rifiutare ogni interpretazione più elastica ed evolutiva. Certo che gioco non vuol dire solo palestra, come qualcuno potrebbe facilmente credere. Fermo restando il fattore qualitativo, ognuno può trovare nel campo quantitativo la propria esatta dimensione.
Segue la monografia, qui riprodotta in pdf.
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