Il Pilastro Micheluzzi della Marmolada

Metadiario – 123 – Il Pilastro Micheluzzi della Marmolada (AG 1984-005)

Nell’ambito dell’annosa esplorazione della Catena della Mesolcina e dello Spluga allo scopo di realizzare la guida della Collana dei Monti d’Italia di quella zona, Angelo Recalcati ed io ci trovammo a salire slegati per la parete nord-est del Pizzo Tambò 3279 m, una parete triangolare di 750 metri fiancheggiata da due canali, quello di sinistra salito da Oscar Scheffer e Franco Fumagalli (2 agosto 1982), quello di destra superato dallo stesso Scheffer con Salvatore Passerini (21 agosto 1983): le vie escono rispettivamente sulla cresta est e su quella nord, quindi evitano il problema principale, quello di una salita diretta alla vetta. Difficoltà e reperimento via sono variabili, perché non ci sono passaggi davvero obbligati su questa salita che per la maggior parte dello svolgimento, dall’imbuto nevoso iniziale, non presenta pendii ripidissimi. Con Angelo ci legammo solo in un tratto di pendio a 55° e sul successivo risalto di rocce, con passi di III e, volendo, anche di IV-. Una giornata di grande relax: circa a mezzogiorno del 20 luglio 1984 ci trovavamo sulla bella vetta del Pizzo Tambò, per me era la prima volta. La battezzammo la via del Dubbio: l’avventura di qualche giorno prima al Liss dal Pesgunfi con Giuseppe Miotti mi aveva appunto instillato un dubbio, e su questo continuavo ad arrovellarmi.

Valle Spluga, Pizzo Tambò, parete nord-est
Valle Spluga, salendo sulla parete nord-est del Pizzo Tambò, 1a ascensione, 20 luglio 1984
Angelo Recalcati, Pizzo Tambò, prima ascensione della parete nord-est
Valle Spluga, arrivo in vetta al Pizzo Tambò dopo la 1a ascensione della parete nord-est
Alessandro Gogna in vetta al Pizzo Tambò dopo la prima ascensione della parete nord-est, 20 luglio 1984.

A fine giornata eravamo a Milano, perché con Anne-Lise Rochat eravamo d’accordo che sarei andato a prenderla alla stazione. Ma la sera del 21 luglio eravamo di nuovo in zona, questa volta in Svizzera, oltre il passo del San Bernardino.

Tante volte con Angelo avevamo osservato la grande parete nord-ovest dell’Einshorn 2943 m, di circa 550 metri: sapevamo della sua friabilità, ma il nostro compito era di esplorare a fondo le montagne che stavamo trattando, anche quelle che ci apparivano ostiche e pericolose.

Partimmo da Nufenen al buio pesto, approfittando di precedenti ricognizioni fatte da Angelo. Oltrepassato il Reno su un ponticello, salimmo in un ambiente stupendo e solitario sottolineato da quei piccoli rumori che caratterizzano le ore antelucane in montagna. Passammo prima per Tritt 1952 m, poi per l’ampio bacino dell’Alpe Cadriola; per grandi costoni erbosi, ormai bene in vista della parete sovrastante, arrivammo alla base del nostro pilastro, una poderosa conformazione che divide la parete ovest da quella nord-ovest. Sulla selletta erbosa alla base costruimmo un ometto.

Anne-Lise Rochat e Alessandro Gogna osservano il pilastro dell’Einshorn, 22 luglio 1984.
Einshorn, la prima lunghezza sul diedro ricoperto di lichene bianco.

L’aspetto di ciò che ci attendeva era letteralmente ostile. La bella giornata che si preannunciava non riusciva minimamente a scalfire l’ombrosa minacciosità di quella parete nord-occidentale che sembrava un castello di carte appoggiate l’una sull’altra. Dopo aver seguito una cengia a sinistra, salii un diedro di roccia gialla coperta da licheni bianchi: mi meravigliai della qualità della roccia, pensavo peggio. Ma non sbagliavo affatto, perché subito dopo cominciò il festival della “cristalleria”. Ci vollero otto lunghezze per arrivare alla sommità dell’avancorpo che caratterizza lo sperone. Difficoltà mal classificabili, mai superiori al V, ma su una roccia calcarea che forse non avevo mai trovato così friabile, neppure sul mitico Scarason. Una grossa difficoltà era quella di fare in modo che la corda non scalzasse frammenti di roccia dai loro alveoli: specie nei tratti in cui si procedeva diritti e non in obliquo, il pericolo che i miei compagni si beccassero dei sassi era forte. Ma non successe, perché mettevo poche protezioni, sempre molto allungate, e piantavo chiodi solo alle soste. Dalla sommità dell’avancorpo la via non era finita, la friabilità, se possibile, aumentava ancora, ma le difficoltà mollavano: altre otto lunghezze, mai superiori al IV, ci portarono sulla bella vetta dell’Einshorn. Avevamo fatto la prima ascensione per il pilastro nord-ovest, battezzato via La Terra trema (22 luglio 1984).

Einshorn, Alessandro Gogna e Annelise Rochat impegnati nella prima ascensione del pilastro nord-ovest, 22 luglio 1984.

Dopo la via nuova alla parete nord dell’Einshorn, con Anne-Lise decidemmo di fare qualche bella salita nelle Dolomiti.

L’incidente alla mia tempia sul Pesgunfi e le tensioni durante il festival di roccia marcia dell’Einshorn mi facevano sospettare che il mio equilibrio non fosse in condizione ottimale, anzi. Con l’incidente, sia pur non grave, ma comunque dovuto a un sasso smosso dalla corda, e con le impressioni così recenti di quell’ambiente di roccia così instabile che innalzava la sensazione di pericolo a un livello quasi insopportabile, non potevo non fermarmi a riflettere su quanto in realtà mi stava profondamente turbando. Ne conclusi che forse era proprio il rapporto sentimentale con Anne-Lise, contorto e tribolato, ad agitarmi. Presto avrei dovuto trarne le conclusioni, con amarezza.

Ma a dispetto di queste sensazioni non volli comunque rinunciare a quanto da tempo avevamo programmato.

La sera del 24 luglio 1984 posteggiammo il furgone in qualche angolo appartato di Alba di Canazei, nei pressi dell’inizio della strada per il rifugio Contrin: già allora le autorità comunali facevano rogne per il campeggio “selvaggio” e i controlli erano abbastanza serrati. Quella notte però non fummo disturbati, anche perché abbandonammo ben presto il mezzo. Alle 4.30 del 25 luglio eravamo infatti già in marcia per il rifugio Contrin, dove non ci fermammo neppure per un caffè, continuando subito per il passo Ombretta 2704 m. Entrambi eravamo sempre stati ben predisposti alle levatacce: il fatto che ci trovassimo in Dolomiti non significava che dovessimo cambiare atteggiamento… Anne-Lise mi seguiva veloce come sempre, in un luogo dove non era mai stata. Con le prime luci la parete sud-ovest della Marmolada, tetra e destinata a rimanere in ombra per tutta la mattinata, si ergeva su di noi e ci metteva soggezione. L’anno prima avevamo salito assieme la Vinatzer-Castiglioni partendo dal rifugio Falier, ma non era più la stessa cosa: anche il tempo non era sicuro come invece era l’anno precedente. Comunque, di mano in mano che salivamo sull’ormai ghiaioso sentiero per il passo Ombretta, la giornata sembrava proprio bella e la preoccupazione di avere l’ambizioso programma di salire il mitico Pilastro Micheluzzi cedeva gradualmente alla sensazione che sarebbe andato tutto bene.

Anne-Lise Rochat sulle prime lunghezze della via Micheluzzi alla parete sud della Marmolada, 25 luglio 1984.

Ci aiutava l’idea che questa via è di “soli” 550 metri di dislivello, molto meno quindi della Vinatzer-Castiglioni: ma io, che sapevo bene quanto le condizioni della parte alta potessero alterare una salita altrimenti non così difficile, non ero per nulla ottimista. Trovato facilmente l’attacco, iniziammo a scalare le prime lunghezze, logiche e su buona roccia, con difficoltà assai variabili dal IV al V+, con qualche passo di VI. Era mia intenzione salire il più possibile in arrampicata libera, anche se sapevo bene che la parte superiore dell’itinerario aveva caratteristiche ben diverse e poteva ben presto rivelarsi una lotta senza quartiere per uscirne e basta. Riuscii nei miei propositi infatti fino al raggiungimento della seconda grande cengia, a 300 metri dalla base. Anne-Lise, veloce come sempre, mi seguiva con uno sguardo che di lunghezza in lunghezza diventava sempre più luminoso, anche se la mattina non era più bellissima come prima.

Marmolada, parete sud, via Micheluzzi

Proseguimmo per una serie di camini per quattro lunghezze, dal IV al V+, fino ad arrivare al temuto passo chiave della salita, il famoso grottone, sempre bagnato, determinato da un enorme blocco che ostruisce la serie di camini e dal quale bisogna uscire a destra. Mentre lo osservavamo eravamo ormai del tutto immersi nella nebbia, la temperatura era calata di colpo come pure le velleitarie mie ambizioni di “libera”. Ad ogni modo eravamo a un punto dal quale conveniva proseguire verso l’alto per gli ultimi 130-140 metri piuttosto che scenderne in doppia più di 400. In fin dei conti, forse a causa della scarsa visibilità, non sembrava ancora che si avvicinasse un temporale.

Anne-Lise Rochat sulla parete sud della Marmolada, via Micheluzzi

Attaccai con decisione la grotta sgocciolante. Il respiro mi si disegnava davanti, in un’umidità pesante e fredda. Attaccandomi a dei cordini, non solo in apparenza del tutto marci, riuscii a guadagnare l’orlo destro della grotta. Qui Micheluzzi, che aveva avuto l’astuzia di attaccare la parete in settembre dopo un lungo periodo di bel tempo, si era giovato di un buco tra il blocco e il corpo della parete: sapevo che la maggior parte dei ripetitori aveva trovato il buco ostruito dal ghiaccio. E naturalmente fu anche il caso mio.

Anzi, una volta affacciatomi oltre il bordo della grotta, là dove il blocco crea con la parete una fessura, trovai ad attendermi una lama di ghiaccio di due o tre metri di altezza che occupava la fessura stessa. Pieno di terrore capii che non avevo scampo: dovevo afferrarmi in Dülfer alla lama, senza guanti, e cercare di salire velocemente al di sopra.

Arrampicata sulla via Micheluzzi, parete sud della Marmolada, in una foto di Friedl Mutschlechner.

– Anne-Lise… qui c’è una lama di ghiaccio…
– Ma, non puoi mettere niente?
– No, impossibile. Devo attaccarmi e basta. Sta attenta…

Con decisione iniziai la Dülfer più pazzesca della mia vita che, per fortuna, si concluse dopo pochi secondi angosciosi, nel ripido e stretto pendio di neve che occupava il caminone al di sopra del blocco. Nella nebbia salii ancora, allo scopo di reperire una qualche sosta da qualche parte. Giunto a due chiodi mi fermai e urlai ad Anne-Lise di partire. Non potevo tirare troppo, visto che stava salendo in traverso. Fu lei stessa ad avvisarmi, con il terrore nella voce, di essere alla lama di ghiaccio. A quel punto tirai con tutte le mie forze, ringraziando che la mia compagna era un “peso piuma”. Mi raggiunse ansimante, spaventata.

Anne-Lise Rochat sulla prima lunghezza dopo la seconda cengia della via Micheluzzi alla parete sud della Marmolada, 25 luglio 1984.

Non ero ancora ripartito che cominciò a grandinare. Sapevamo che ci dividevano dalla vetta poco più di cento metri, ma la storia stava avviandosi a diventare una delle tante uscite disgraziate dai camini finali della Marmolada. Per due lunghezze, normalmente sul IV grado, riuscii a salire arrampicando, agganciando qualche chiodo e mettendo nut e friend. Un po’ di sollievo lo ebbi quando smise di grandinare. Però nevicava, e la roccia si stava inesorabilmente coprendo. Osservavo il penultimo tiro: mentre Micheluzzi e compagni erano stati sul fondo del camino, ora questo era del tutto intasato di ghiaccio. I ripetitori, probabilmente fronteggiando le stesse mie condizioni, si erano arrangiati chiodando la parete di destra. E infatti vedevo parecchia ferraglia spuntare dalla neve e dalla grandine che si stava rapprendendo sulla roccia. Mentre Anne-Lise mi raggiungeva alla sosta, pensavo che quello era l’ultimo ostacolo, poco più di una trentina di metri, e che dopo c’era qualcosa di molto più facile per uscire.

Avevamo i guanti del tutto ghiacciati, per non parlare delle scarpette d’arrampicata, fradice. Le mie non ghiacciavano perché, non so come, avevo ancora i piedi tiepidi, ma le sue erano rigide. Dovevo far presto.

Anne-Lise Rochat in vetta alla Marmolada all’uscita della via Micheluzzi, 25 luglio 1984.

Però il tiro era di quelli che non fanno sconti a nessuno. Già difficile di suo, sul VI grado, con roccia scoperta, ora era terrificante. E nevicava di brutto, con il vento che mi incrostava di neve gli occhi. Per fortuna però non ero il primo in quella situazione e riuscivo a salire da chiodo a chiodo sfruttando l’ultimo gradino della staffa: qualche interruzione la risolvevo con un micronut o altri trucchetti da vecchio invernalista. Lento, ma costante, riuscii a salire fino a che la pendenza diminuì nettamente. Lì c’era una sosta, sembrava a prova di bomba, forse per via dei soccorsi da lì effettuati, pensai.

Urlai con quanto fiato in corpo che ero fermo, quindi recuperai le corde e cominciai a tenerle in tensione, per cercare di accelerare la salita di Anne-Lise. La quale in tutto ciò non si era gran che scomposta, forse perché si fidava ciecamente di me. Venne su veloce, l’abbracciai prima di partire per l’ultima lunghezza, qualcosa che anche con quella bufera non poteva comunque più fermarci.

Alessandro Gogna in vetta alla Marmolada all’uscita della via Micheluzzi.

Il mio arrivo in vetta alle 16.30 coincise con una schiarita improvvisa. Il vento, che qui in cresta doveva aver tirato in modo pazzesco, aveva impedito a neve e grandine di fermarsi. Contrariamente al canale terminale, del tutto intasato, qui non c’era alcuna incrostazione bianca. Dopo due foto ritratto, in una strana calma di vento ci rifugiammo nella capanna di Punta Penia, sperando ci fosse ancora il custode. Ma se ne era già andato e, come al solito, sarebbe risalito il mattino dopo. Il rifugio era tutto per noi e ne approfittammo per cucinarci non so più cosa, prima di sdraiarci in cuccetta e addormentarci come sassi.

La parete nord del Latemàr: subito a destra del gigantesco intaglio di Forcella Grande si erge la Torre Orientale del Latemàr.

Il mattino dopo, 26 luglio, prima ancora che il custode arrivasse scendemmo per la via ferrata che ci portò a Forcella Marmolada. Da lì al rifugio Contrin e ad Alba di Canazei.

Dopo un giorno e mezzo di riposo, la sera del 27 luglio eravamo a dormire al Passo di Costalunga, con un programma quasi altrettanto ambizioso: la ripetizione della via Dibona alla Torre Orientale del Latemàr (Torre Christomannos). Anche qui sfruttando la mia conoscenza del luogo (anche se erano tanti anni che non ci mettevo piede), traversammo alle primissime luci le foreste del Latemàr, per poi risalire, in un’atmosfera pesante di incognite e di misteri, il mondo fatato dei ghiaioni, quella concreta rovina di regni dolomitici una volta leggendari. Non potevo non pensare a quando, diciottenne, avevo vissuto su questa montagna una delle mie avventure più coinvolgenti, la solitaria di una probabile via nuova alla ricerca di una fantomatica via Tanesini. Anne-Lise non era in forma: più volte sul ghiaione dovetti aspettarla. Ma lei si guardava bene dal dirmi che avrebbe voluto tornare indietro: rispettava il fatto che io fossi invasato e volessi a tutti i costi ripercorrere le orme del grande Dibona, su una via della quale era nota solo una ripetizione, quella di Dante Colli con le sue guide Aldo Gross ed Enrico Pederiva (12 settembre 1977). Trovato l’attacco, attaccammo la via: ma dopo due tiri, tutto sommato su buona roccia grigia, Anne-Lise dovette arrendersi e dichiarare che non se la sentiva di continuare. Naturalmente scendemmo subito. Mi bruciava dover rinunciare, ma non le davo alcuna colpa. Sono assolutamente cose che capitano. Anne-Lise non si era mai opposta a nessuna mia idea, anche matta. Se lo faceva aveva i suoi buoni motivi: e di certo quell’ambiente, davvero oppressivo, non l’aveva aiutata.

Sass d’Ortiga, il versante sud-ovest visto dalla Cima di Sédole.
Anne-Lise Rochat sulla via Scalet-Bettega al Sass d’Ortiga, 29 luglio 1984.

La sera stessa ci eravamo trasferiti in Val Canali, nelle Pale di San Martino. Il giorno dopo, 29 luglio 1984, casualmente il mio compleanno, attaccammo la parete sud-ovest del Sass d’Ortiga per la via Scalet-Bettega. Non ho particolari ricordi di quella salita, se non quello di un’arrampicata su una roccia meravigliosa per centinaia di metri. Ci ritrovammo in cima nel pieno splendore di un sole fulgido, quello proprio del “glorious day” dei primi esploratori inglesi delle Alpi. Ormai nelle vicinanze del rifugio Treviso, incontrammo l’amica Renata Rossi che era lì con un compagno. Ma non ci fu quella gioia che mi sarei aspettato da quell’incontro.

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Il Pilastro Micheluzzi della Marmolada ultima modifica: 2021-01-29T05:38:00+01:00 da GognaBlog

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11 pensieri su “Il Pilastro Micheluzzi della Marmolada”

  1. “La sera del 24 luglio 1984 posteggiammo il furgone in qualche angolo appartato di Alba di Canazei, nei pressi dell’inizio della strada per il rifugio Contrin: già allora le autorità comunali facevano rogne per il campeggio “selvaggio” e i controlli erano abbastanza serrati”
    Scampato pericolo , il primo tra i successivi , ma almeno sulla Micheluzzi non salivano i  vigili Urbani.( altrimenti multa anche  per un bivacco?)
    Ad altri di mia conoscenza: contestazione a notte fonda  per tenda a Pian  Schiavaneis tra i mughi  e 250 mila lire di sanzione .Il  Sindaco che  firmo’per primo  ordinanza e  divieto, non ebbe vita lunga per cause naturali , ma a volte  le imprecazioni ci colgono.

  2. La via Micheluzzi al pilastro sud della Marmolada è una via molto importante per le difficoltà superate e lo stile. Fu aperta nel 1929 da L. Micheluzzi guida di Canazei con R. Perathoner e D. Christomannos con un bivacco e con 6 chiodi. 
    All’impresa non fu dato il giusto rilievo per le difficoltà superate. Forse lo stesso Micheluzzi non aveva ben chiara l’importanza di questa apertura.
    Il tedesco Walter Stosser,  che aveva fatto un precedente tentativo,  ne fece la prima ripetizione, ma non trovando i pochissimi chiodi che evidentemente gli apritori avevano tolto, dichiarò che fosse sua la prima. La cosa poi fu chiarita e Stosser riconobbe la prima di Micheluzzi che ndl 1929 aveva realizzato il primo VI+ italiano.
    Piu o meno così è raccontata la storia di questa via sul libro “LE GRANDI PARETI” di Doug Scott.

  3. Caro Lorenzo (commento 7), ma anche cari tutti quanti i lettori di Una vita d’alpinismo: la serie è già programmata per i prossimi anni, e per un motivo che adesso sarebbe lungo da spiegare ieri è uscito il 123. Ma in passato erano già usciti 131, 122, 83, 74, 64.

    In effetti il prossimo a uscire sarà il 65, seguito dal 66, 67, ecc. in genere alla cadenza di due al mese. In totale, le puntate a oggi uscite sono 69.

    A proposito, se siete davvero interessati, vi do un consiglio per la ricerca dei vari numeri già usciti. Nella casella “cerca” digitare “- spazio numero”, cioè se per esempio si cerca il 37, digitare”- 37″. Ovviamente è essenziale digitare il “-” seguito dallo spazio. Un altro sistema è quello di digitare, sempre in “cerca”, la sigla “AG spazio anno”: vale a dire, se si cerca per esempio tutti i post di Una vita d’alpinismo relativi all’anno 1972, basta digitare “AG 1972” e usciranno tutti e 11 i post relativi al 1972.

  4. Una curiosità per la redazione del GognaBlog: come mai Una vita d’alpinismo passa dal precedente numero 63 (1975) al 123 (1984)?

  5. mitico Tambò
    forse una delle mie prime scialpinistiche un pò impegnative perchè per raggiungere la vetta in inverno dovevi togliere gli sci e salire con ramponi e picozza
    avevo forse 15 anni nel lontano 1978/79
    gran bei ricordi
    grazie

  6. “Quant’e’bella e struggente la vita quando tutto fila per il verso giusto e niente e nessuno ti rompe le giovani p**e!” Scrittore Luigi Meneghello.Vale per tutte le scalate raccontate, specie per il Sass d’Ortiga( tranne le ultime righe che rientrano nella privacy)ma un tocco di amaro c’e’sempre.

  7. io invece in Marmolada ne ho preso uno con tanto di grandine sull’ultimo tiro del pilastro Don Chisciotte. Era il 1984.
    Poi un’altro bello forte sulla Comici alla Cima Grande. Li fu brutta davvero.

  8. Non ho mai preso un temporale ne’ in Marmolada e ne’ in Civetta. Per questo mi ritengo uno scalatore o alpinista ancora senza la completa esperienza che solo queste avventure possono dare. 

  9. il Pilastro Micheluzzi alla Marmolada è una di quelle vie che ho in testa da tempo. Grazie Alessandro per aver riacceso la lampadina.

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