Il Precipizio degli Asteroidi

Introduzione a Il Precipizio degli Asteroidi (GPM 059)
di Gian Piero Motti
(pubblicato su Rivista della Montagna, marzo 1978)

Lettura: spessore-weight(3), impegno-effort(2), disimpegno-entertainment(2)

Generalmente lo scrittore si sforza di trasferire nello scritto le sensazioni e le immagini di un vissuto. I risultati sono più o meno apprezzabili, soprattutto perché il lavoro di stesura non è contemporaneo all’esperienza del vissuto, ma è sempre successivo. Ne risulta un lavoro di rielaborazione delle emozioni, una inevitabile riduzione negli schemi del linguaggio di immagini inafferrabili ed irriducibili, a volte una trasformazione deformante delle sensazioni stesse. La stessa sorte ha subito anche la letteratura alpinistica. Ma in questi ultimi anni, soprattutto negli ambienti inglesi e nordamericani, si va facendo strada una nuova tendenza, che invece cerca di far combaciare lo scritto alla sensazione, senza alcun canone di ordine, di logica e di critica a posteriori. E’ un tentativo di ritrovare la libertà e la spontaneità perdute nella morsa durissima della logica e della critica razionale fatta a posteriori e soprattutto sotto lo stimolo imperioso di «far qualcosa», di stendere un lavoro che sia ordinato, pulito, che abbia un senso compiuto. In sostanza si vuole abbattere il divario esistente in termini temporali e razionali (e quindi spaziali) tra l’azione e il pensiero e viceversa.

Gli scritti che ne risultano sono a volte assai difficili da seguire, in quanto la nostra mente è stata educata ed abituata a schemi assolutamente logici ed impostati su rapporti di causa-effetto. Nella ricerca dell’espressione liberata e spontanea «saltano» evidentemente gli schemi convenzionali: inutile quindi andare alla ricerca di una forma sintattica esatta, di un ordine cronologico nella successione degli eventi, di un corretto uso delle modalità verbali. La condizione ideale di lettura non è quella critica e aggressiva, ma piuttosto quella passiva: lasciarsi penetrare dallo scritto e lasciare che le immagini attraverso le parole penetrino nel cervello e ricostruiscano il vissuto che l’autore ha voluto rappresentare. In Italia, mi pare, almeno nella letteratura alpinistica, non è stato ancora fatto un tentativo del genere. A parte qualche ottima e rara eccezione, siamo fermi al «temino» da scuola media prima della riforma. Ivan Guerini ci ha voluto provare presentando ai lettori della Rivista della Montagna questo scritto. Il suo è un tentativo e deve essere accettato come tale. E come tale viene sottoposto al giudizio di ognuno. Alcuni potranno pensare che lo scritto di Guerini è artificioso, che è stato creato apposta per stupire, per impressionare, che la sua forma un po’ strana non è spontanea, ma appositamente ricercata. Altri vi troveranno una certa somiglianza con scritti già pubblicati su riviste come Ascent o come Mountain. Ma non importa, io credo che Ivan abbia scritto in buona fede e credo nella genuinità del suo tentativo, anche perché lo conosco assai bene. Ivan non è un alpinista nel senso tradizionale della parola e nemmeno ci tiene ad essere definito come tale. E’ un arrampicatore puro che va alla ricerca di esperienze in un particolare tipo d’arrampicata. E’ un ricercatore vero e proprio, non è un imitatore di esempi californiani, anche se per certi versi ne condivide l’impostazione e la filosofia.

Valle di Mello, Precipizio degli Asteroidi

Il racconto di Guerini non parla di un’impresa extraeuropea, non parla di una grande salita alpina. Ci porta le immagini di un «viaggio conoscitivo» compiuto su di una parete di chiaro granito che si alza sui fianchi erbosi di una selvaggia valle del Masino. Guerini vuole anche pubblicare una relazione tecnica della via e, per la prima volta in Italia, credo, classifica delle difficoltà di settimo grado. Ivan non vuole fare scandalo: il suo giudizio personale sarà sottoposto all’esame degli eventuali ripetitori, i quali, beninteso però, dovranno impiegare gli stessi (e ristrettissimi) mezzi artificiali dei primi salitori. Non vogliamo essere definiti «codini» o conservatori. Non abbiamo paura del nuovo. Ed è per questo che presentiamo Ivan e le sue sensazioni ai nostri lettori.

Il Precipizio degli Asteroidi
Quando azione e percezione si confondono
di Ivan Guerini
(pubblicato su Rivista della Montagna, marzo 1978)

1974
Il Precipizio degli Asteroidi nella pioggia, mentre i fulmini spezzavano il buio della notte sulla sua sommità. E le stelle cadenti, manciate di sabbie incandescenti nel blu cobalto.

Le fantastiche, lisce e luminose bastionate della Val di Mello, fra queste la probabilmente più evidente e slanciata parete è il Precipizio degli Asteroidi, un picco di 500 metri, sorretto da un altare di altri 250 metri, che chiude la Val Masino, sul fondo, o almeno dà questa impressione dopo qualche chilometro dal suo imbocco. Una grande A di granito, che appare esplodendo la rifrazione del sole, e gli abeti in alto, minuscoli e lontanissimi, al di sopra delle placche terminali, rendono idea delle dimensioni. La via più naturale per risalire la parete, è una fessura, assai lineare e diretta, proprio al centro di essa, che si espande diramandosi in alto, con un enorme strapiombo; ed appariva come la delicata ed allucinante incisione di una gigantesca tromba che solca a metà la parete. Sul settore di sinistra di essa c’è una grande volta di strapiombi bianchi e arancioni, costituiti da aggettanti escrescenze, simili alla fusione sospesa di magma solidificato; la fessura giunge sulla destra ad uno stretto ed abbarbicato ripiano, con due abeti, sospeso su di un vuoto vertiginoso, è il Pulpito dell’Eremita e qui la parete si adagia aprendosi con immani placche inclinate, solcate da una rampa-diedro sinuosa che scivola fra di esse, conducendo alla fine materiale della via. Era assai evidente, il valore e il significato estetico del problema, io e Mario pensammo senza una ragione precisa che avremmo potuto riuscire in libera, limitando al massimo, gli ancoraggi ed i mezzi artificiali, senza precedenti attrezzature con corde fisse, senza jumar, senza chiodi a pressione, e compiendo la salita nell’arco di una giornata. Questa nostra convinzione (e la soluzione materiale delle ipotesi) era derivata da una nostra evoluzione interiore; da questi concetti avrebbe potuto scaturire la possibile etica di questa zona di montagne: compiere pareti che non sono ancora state salite, e talune di «concezione nuova» per questi luoghi arrampicando in cordata normale, con la massima naturalezza e semplicità, come spesso avviene sulle vie di media difficoltà.

Una sera stavamo davanti alle baite parlavo con Giovanni, un valligiano, del Martello del Qualido. Così infatti è chiamato il Precipizio degli Asteroidi, lo si capiva bene come esso rappresentasse «l’ostacolo naturale» per tutti e due, arrampicarlo con altrettanta naturalezza, avrebbe potuto comunicare qualcosa di immediato, e forse nemmeno le parole, sarebbero state così significative, ed i nostri mondi razionali, lontani l’uno dall’altro, lo interpretavano in modo diverso, e mentre io avrei desiderato vederlo con la sua mente, Giovanni, non avrebbe certo desiderato il contrario. Avrebbe provato una profonda e sincera felicità se io ci fossi riuscito, offrendomi un pezzo di formaggio, e un bicchiere di vino, ma mai per tutto l’oro del mondo, avrebbe voluto salirci al mio posto. Si parlava della Val Livincina, una stretta valle a sbocco sospeso che avremmo dovuto risalire per portarci alla base del Precipizio e in futuro per discendere da esso. Risalivamo lenti, e in cordata camini e canalini della valle con passaggi di IV+, resi scivolosi, dal muschio e dalla vegetazione; questo ci fece pensare alla capacità che la gente doveva avere, per salire a raccogliere il fieno, nella parte alta della valle, mentre il nostro bivacco notturno, veniva rallegrato dalla presenza di un gruppo di rumorosissimi topi-ragno. In una delle molte risalite della valle, in cui ritornammo bagnati sino al midollo, senza riuscire ad iniziare la salita per l’inclemenza del tempo.

L’attimo prima del passaggio chiave (VII) uscendo dall’angolo esasperante. Foto: Mario Villa

1 luglio 1977, sera
Giunti sulla cengia obliqua, alla base del Precipizio degli Asteroidi pensai veramente, alla similitudine con una tromba marina pietrificata, sulla quale ci saremmo inerpicati, il giorno seguente, mentre le colorazioni e le sue volte, esprimevano un plastico mondo capovolto, con le dimensioni di una scheggia di stella spenta, che si consuma.

2 luglio 1977, mattina
Ma… la luna gelida, evanescente, poggiava sulla sommità di una montagna, come un inafferrabile cerchio spettrale, di immacolata luce al neon.

Una scaglia affilata, e parzialmente staccata dalla parete, formava un camino di pochi metri, e questo ci indicò l’inizio della via! Ma la lunga fessura non iniziava a terra ma una cinquantina di metri più in alto, costituiti da una placca ripida e liscia, ed il modo più semplice per entrarvi, sarebbe stato, passare attraverso il Gioco delle Pendenze cioè proprio dove la parete si impenna fra l’inclinato e il verticale, e ci trovammo davanti al «primo impedimento» placca. La luce ne rivelava le ondulazioni sfuggenti, e contrastate, all’inizio non si vedevano le pedule, a causa di un piccolo sbalzo, e questo costituì un breve momento emotivo, con le palme delle mani aperte, e raccolte, ci spingevamo su nell’equilibrio, uscendo a «gocce» e a buchi più profondi nella roccia, fatti dalla pioggia che balzava da margini altissimi di zone strapiombanti, direttamente in quel punto. Un breve salto slanciato ci aprì definitivamente alla nascita della tromba. La prima lunghezza in essa era mista, cioè libera e artificiale, ora eravamo nel mistero della placca, che abbiamo sfiorato per entrare qui! E cosa ci fosse più sopra, non era possibile saperlo, a causa dell’andamento della fessura, vacuità! Nel tempo di mettere 3 morbidi chiodi, in punti scanditi, «che non ce ne sia da aggiungerne altri».

Mentre pensavo questo avevo visto Mario abbandonare l’ultima staffa per salire con movimenti continui, solo più tardi; ne capivo la ragione: fuori dalla fessura la roccia era cosparsa da asperità e peduncoli, che consentivano gesti ritmici fino alla sosta, costituita da un grosso ciuffo d’erba sospeso, sotto il quale la roccia rientra. Questa fermata aerea e raccolta ci piacque molto. Sopra, si vedeva il grande vertice a imbuto della tromba, sembrava vicino, mentre quando più in alto ci trovammo ormai vicini ad esso, ci apparve lontanissimo. Con una splendida lunghezza ad incastro, entrammo all’origine del conflitto delle due fessure, che sbocciano verso l’alto nel fiore strapiombante ocra e arancione. Le zone attorno a noi erano lisce, a volte nascita e morte di profili regolari turbavano la continuità, interrotta anche dalle regolari «ombre uscenti», cioè tetti ed evidenti strapiombi. La nostra mente era immersa in questa via, prezioso solco che l’acqua ha compiuto in molti millenni. Un’altra impegnativa lunghezza con «incastro a croce» nelle due fessure parallele, che si allontanano progressivamente, con un tondo vertice «spasmodico» che accresce fra di esse, e spinge il tuo petto nel vuoto.

E cominciavano a sbucciarsi le nocche delle dita, lasciando minuscole chiazze rosse sulla roccia grigia, ma tutto questo non era doloroso, era molto naturale. La gente che si muoveva giù nella Valle di Mello, appariva come microscopici punti, che anziché muoversi, assumevano posizioni statiche diverse, e non si capiva bene, dalle grida indistinte, che ogni tanto giungevano sino a noi, se chiamavano noi oppure il bestiame; Mario, intanto, sgusciava fuori da un angolo chiuso in alto da uno strapiombo ad U simile a un diapason ne uscì oscillando a destra con un movimento agile e slanciato, mentre la sua pedula staccava un po’ di muschio, che mi cadeva addosso. La luce del sole impazziva sulla superficie strapiombante della tromba, dandole dinamiche increspature impalpabili e soffuse, simili ad onde dorate.

Passaggio ad incastro lungo la tromba. Foto: Ivan Guerini

E Mario nella nicchia sostava vicino ad una lama alta e affilata, al di sopra di noi, la Lunghezza Finale il vertice della tromba, il passaggio più difficile, una porta alla liberazione dalle difficoltà; e visto da sotto poteva anche non sembrarlo affatto. Dopo essermi innalzato abbracciando due lame convergenti, sovrastate da un angolo-camino con la fine acuta, aggettante, arrotondata, che mi impegnò con una serie di movimenti brutali ed esasperanti e mentre prima dì uscire il mio corpo scivolava lento nel camino con il profondo della roccia in una situazione che non avrei potuto contenere per molto tempo, mi ritrovai solo un po’ più tardi, in piedi su di un appoggio, con la testa e con le mani toccavo finalmente il grande tetto, nato una seconda volta; senza tremare, pensavo all’abitudine specifica del cervello di assimilare «energia» dalla fatica e le situazioni che si succedevano fluendo lente ed affascinanti, come nettare psichedelico, che scivola su di una superficie, noi ci affondavamo ebbri, per farci trasportare da questa esperienza, oceano irrazionale delle sensazioni, attraverso la via di salita. Dopo uno spacco spiovente, sotto al tetto assai difficile, approdai ad un artificiale precario, su cunei di alluminio appena appoggiati e piccoli nut, su di un pannello mobile, occupatissimo da queste continue soluzioni, quasi senza accorgermene, entravo con roccia tagliente e bagnata, in un antro umido, con un grosso blocco che essendo incastrato solo in due punti, faceva l’altalena sotto le mie pedule.

La caduta di una fettuccia nel vuoto che si era fermata in un punto inaccessibile, rendendomi cosciente dell’espansione incontenibile della roccia e della luce, che in quel momento erano una cosa sola, senza profondità o riferimento! Sentivo di aver compreso, interpretando la prima parte della parete che difficoltà e impedimenti erano solo il mezzo per giungere nella parte alta della parete, attraverso un progressivo delirio conseguito nel superare i passaggi; questo ci aveva disinibiti aprendoci ad un più elevato stato di comprensione delle realtà. Mario si indaffarava con uno strano e corto artificiale, madido di viscida solubilità! Per raggiungere il Pulpito dell’Eremita l’abete, che isolato sul ciglio del baratro ci sembrava anch’esso lontano e quasi irraggiungibile, ci accolse in una stretta oasi sospesa, con un morbido tappeto di aghi di pino, sapore di fragole e lamponi, un rododendro dai petali densi, e le montagne, con la neve che si ritira dai pascoli, un cielo terso, ma impenetrabile. Sopra di noi le placche finali immense, brillavano di luce piatta.

E la moltitudine di cristalli incandescenti che crepitavano sulla roccia tiepida, come il sole sulla calma superficie del mare, o sopra dossi nevosi a quattromila metri, e sulle dune sabbiose di un deserto, percepivo la similitudine fra di essi, mentre accarezzavo un lento ritmo di salita la roccia era molto calda, e la gomma delle pedule scottava appiccicandosi. Provai una sensazione già vissuta, percepivo la «relazione», l’unione con la materia, la roccia pulsava sotto le mie mani, di una vita chimica diversa, e lontanissima dalla mia! Ma tutto era limpido e presente in quel momento. Immersi nella Parete, di cui non si vedono i confini, si intuisce però il nostro scorrere sulla sua superficie che si abbassa e si riduce, limitandone la dimensione. Una larga e profonda fessura mi conduceva all’ultima sosta. E venni destato dal soffice, enorme spostamento di un’aquila reale; volò altera, per posarsi fra i dirupi dell’Arcanzo, certamente disturbata dalla nostra presenza.

Dove il Precipizio degli Asteroidi si dissolve, trasformandosi, in una distesa ondulata di prati e cupole rocciose, apparvero i resti di due giganteschi alberi uccisi dalla siccità, simili a totem eretti di contorte entità. Ci ritrovammo a «camminare in cordata» su zone desolate e riarse, senza accorgerci, che «il precipizio» era scomparso sotto di noi, che la via era finita! Ce ne rendemmo conto solo in seguito, quando capimmo che questa struttura non aveva vetta, non aveva conclusione! Questo contribuì ad accrescere in modo incontenibile la gioia, perché la via non era terminata, anzi! Probabilmente la vera ascensione iniziava ora! Il rombo del torrente, e aspettando Mario nella discesa, le grida del compagno che chiama, ma non capisco cosa, un insetto si posa sulla mia pelle, l’attimo di uscita dal passaggio tremendo, le visioni da una sosta, situazioni inesprimibili! Il giorno seguente Mario ed io, non avevamo bisogno di scambiarci nulla, più di quello che avevamo vissuto, profondo vuoto di pensiero, in cui non nascono colori o emozioni, per 60 ore di pace sensoriale.

Mario Villa e Ivan Guerini dopo l’impresa

Precipizio degli Asteroidi 1918 m, parete sud-est, via Oceano irrazionale. Prima ascensione: Ivan Guerini e Mario Villa, il 2 luglio 1977 in 10 ore. Altezza della parete (e della via): 500 metri. Difficoltà: V+ e e VI+ con un passaggio di VII e un tratto di A3 e A4. La prima ripetizione è stata compiuta nello stesso giorno da Antonio Boscacci e Jacopo Merizzi di Sondrio, che hanno raggiunto il Precipizio per altra via, scalando la parete sottostante. Per le soste: 6 chiodi, 1 bong e 4 nut; per l’assicurazione: 1 nut e 3 fettucce; per la progressione: 5 chiodi, 3 bong e 4 nut.

Per raggiungere la parete
Una volta giunti a San Martino in Val Masino 923 m, prendere, alla seconda curva sopra il paese, la strada carrozzabile della Val di Mello. Seguirla fin dove termina (all’Osteria del Gatto Rosso); proprio sopra e in alto si vede il Precipizio degli Asteroidi, alla cui sinistra scende un torrente incassato, la valle in cui scorre è la Val di Livincina, che noi dovremo risalire in parte per raggiungere la cengia sottostante la parete e più tardi ridiscendere dall’alto quasi completamente per tornare giù. Prendere appena prima dell’osteria la sponda destra del torrentello, che nei periodi di siccità è pressoché asciutto, seguirla con qualche variazione e, al di sopra di due grandi massi, portarsi sulla sua sponda sinistra, salire per terreno ripido, fino al di sotto dello sbarramento di roccia, a sinistra di un grande albero visibile dal basso.

Risalire il camino soprastante, proseguire in un canale di vegetazione, superare una placca con fittone di ferro, poi costeggiare a sinistra rocce strapiombanti seguendo una cengia di vegetazione sino ad un evidente albero sovrastato da un canalino; risalirlo tutto, poi nel bosco piegare a sinistra, superare un risalto, poi piegare a destra nel bosco che diminuisce di pendenza; in questo tratto si incontrano passaggi fino al IV+, resi scivolosi dal muschio e dall’erba; raggiungere così sempre obliquando a destra il torrente, portarsi alla destra di esso, abbassarsi per una quarantina di metri lungo un ripido e stretto pendio di vegetazione che accede alla Cengia obliqua sottostante la parete del Precipizio degli Asteroidi, seguirla e, quasi all’inizio della via, buon posto di bivacco in una grotta. Ore 1.30 dalla Val di Mello.

Relazione (originale)
La via inizia sulla cengia di alberi obliqua verso destra e sottostante la parete sud del precipizio, sulla destra e in basso della direttiva di calata della fessura, sulla cengia dove c’è una scaglia staccata e affilata che forma un camino con la parete.

1 Tiro: Risalire il camino (V-) poi portarsi a destra sulla lama, che lo costituisce, risalire un diedrino obliquo (V), poi traversare a sinistra, dove c’è una cengetta. Sosta. 30 metri (2 ch F).

2 Tiro: Risalire il muretto verticale che sovrasta la sosta (V), ad uno spuntoncino, abbassarsi nuovamente in sosta e traversare la liscia placca a sinistra (VI+ e V) poi portarsi verso sinistra sotto un muretto, salirlo (VI-), traversare con un cengia obliqua alla base della fessura dove si sosta. 25 metri (2 ch F).

3 Tiro: Salire per la fessura (V+, poi V; 3 ch + 1 nut) A1 e A2 sempre lungo la fessura (V+ e V) con un breve traverso a destra (IV+) alla sosta, sopra un ciuffo posto alla base di una seconda fessura, che sale parallela alla prima. 27 metri (2 ch F).

4 Tiro: Salire per incastro la regolare fessura (V-, VI- e VI+) raggiungendo uno spuntoncino (fettuccia), poi (VI-), un passaggio di VI e V- raggiungendo una nicchia, dove avviene la biforcazione della fessura e qui sostare. 35 metri (1 bong F).

5 Tiro: Abbracciare le fessure che si allontanano sempre più l’una dall’altra (V-, VI- e VI+) portarsi nella fessura di sinistra, salire qualche metro (V-, 1 nut) traversare a destra doppiando lo spigolo (VI) e salire nella fessura di destra (V+ e V-) alla sosta. 27 metri (1 nut + sasso incastrato di F).

6 Tiro: Salire nel camino-diedro soprastante (V) fin sotto lo strapiombino ad U soprastante, uscire a destra (V+) poi lama (V), salire su di un ripiano con fessura, salirla (1 ch A, VI e VI+), uscire su rocce gialle alla sosta in una nicchia (37 metri, 1 nut + lama F).

7 Tiro: Salire abbracciando le fessure parallele (V+ e V-) superare un angolo-camino svasato e strapiombante (VI+ e VII), infilarsi (VI-) nella fessura sotto il tetto e seguirla (VI+), poi (2 bong + 2 chiodi + 2 nut abbinati) superare un tratto di A3, un passaggio di A4, A2+, una fettuccia su spuntone, uscire in libera (VI) in una grande nicchia, sostando (35 metri, 2 ch F).

8 Tiro: Spostarsi a destra con una lama rovescia (V e V+) e doppiare lo spigolo della nicchia entrando in un diedrino che va risalito (2 nut + 1 bong), tratto di A1 e A2+ e salire facilmente al secondo grande abete dove si sosta, 30 metri. Qui, al Pulpito dell’Eremita terminano le forti difficoltà.

9 Tiro: Spostarsi a sinistra per una cengia e lama, un passaggio di IV+, raggiungere il gruppo di alberi sulla sinistra, proseguire su una placca di IV, sino alla base del diedro-rampa che sale obliquamente da sinistra a destra le placche della parte superiore della parete. Mantenendosi sulla faccia o sullo spigolo di destra, (IV+, IV e III) sostare ad un ripiano. 50 metri.

10 Tiro: Salire sempre per la placconata (II e IV, III) fin dove si esaurisce, alla base di una regolare fessura, che sale diritta verso l’alto, qui sosta. 50 metri.

11 Tiro: Salire qualche metro, appena a sinistra della fessura con lame sottili (V- e V), poi entrarvi e seguirla (IV+ e V), salire su grossi ciuffi per qualche metro, ad un albero dove si sosta. 50 metri.

12 Tiro: Spostarsi a destra, un passo di IV, diritti per una rampa erbosa, traversare a sinistra una placca con cornice (IV) salire diritti qualche metro ad un albero e sostare. 50 metri.

13 Tiro: Salire nel caminetto soprastante un passo di V, uscire a destra su placca (V-), poi diritti (IV) e continuare fino ad un grande abete, per ripidi prati. Sostare. 60 metri. Qui la parete termina, spostarsi per placche e zone erbose, dapprima diritti, poi obliquamente a sinistra, fino ad entrare in Alta Val Livincina.

Discesa
Abbassarsi direttamente, per un tratto, poi portarsi verso destra, abbassarsi ancora poi traversare verso sinistra, fin sotto uno strapiombo, calarsi con una doppia da 20 metri, seguire il costone sottostante fino a quando compie un salto nel vuoto, calarsi per mezzo di un albero con una doppia da 40 metri e abbassarsi stando sempre sul lato sinistro della valle: si arriva all’imbocco della cengia obliqua, sottostante il Precipizio degli Asteroidi. Da qui si riprende in senso inverso la Val Livincina.

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Il Precipizio degli Asteroidi ultima modifica: 2019-03-07T05:31:06+01:00 da GognaBlog

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5 pensieri su “Il Precipizio degli Asteroidi”

  1. Certo Matteo !!!
    Han fatto scuola per un po’ anche in quello, ma dovevano stare bassi 🙂
    Erano ad alti livelli anche grazie a questo, erano sempre sorridenti e svagati ….
    E l’effetto si vede ancora 🙂
    Da quelle parti però ne son cresciuti almeno due proprio tosti.
    Che bei ricordi spensierati nel sole … purtroppo fumavo solo il toscano, caz.

  2. sarà che venivamo dalle Apuane e non eravamo abituati a queste cose, ma a noi non sembrò una salita plasir ma bensì un’arrampicata  impegnativa che ci regalò tanta soddisfazione.

  3. Ricordo che era il nostro mito dello scalare plaisir, in contrapposizione totale all’alpinismo che facevamo abitualmente nelle Alpi nei fine settimana.
    L’ho solo salita un giorno di pochi anni fa, insieme a piedi di piombo.
    Per me è stata una salita piacevolissima in serena libertà, ricca di ricordi spensierati di cari amici.

  4. bellissimo ricordo dei primi anni 80 quando con Frabrizio Convalle ripetemmo questa via.

    Ricordo ancora il traverso che porta al Pulpito dell’Eremita fatto a cavalcioni sulla lama, con una gamba dentro e una fuori , con la fastidiosa sensazione di scivolare fuori dalla fessura.

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