Innevamento artificiale: economia salva con la fine delle emozioni?
di Giampaolo Visetti e Giorgio Daidola
Il 9 dicembre 2016 in prima pagina di La Repubblica usciva un articolo sull’innevamento artificiale. Accattivante e politically correct , usava la metafora del cannone pacifista contrapposto al cannone bellico della Grande Guerra. Proprio per questo è un articolo estremamente pericoloso, perché veicola un utilizzo a senso unico – esclusivamente commerciale – della montagna (di cui il giornalista Giampaolo Visetti sembra avere un barlume di coscienza solo nella chiusura dell’articolo).
“Non fa altro che confermare – senza rendersene conto e questo è grave – il volto aggressivo dell’imperialismo economico, appena addolcito dalla sua facciata di gioioso – vacuo in realtà – divertimento” commenta Vittorio Lega.
Su suggerimento di quest’ultimo, abbiamo ritenuto giusto pubblicare questo articolo, ma opportunamente controbilanciato da un illuminato pezzo di Giorgio Daidola, docente di economia aziendale e di gestione delle imprese turistiche presso l’Università di Trento. Che, per l’occasione, così pessimisticamente commenta: “Purtroppo si tratta di un dialogo con dei sordi che fanno finta di sentire. Io ho presentato relazioni a innumerevoli convegni, fatto progetti con tanto di business plan di sostenibilità economica, scritto articoli su giornali e riviste. Ho ricevuto consensi che sembravano generalizzati, tutti d’accordo, politici e grandi esperti di turismo, sulla necessità di cambiamento. Fanno finta di niente, verdi venduti compresi. Il sistema esploderà prima o poi, purtroppo non si può più far nulla, è troppo compromesso”.
Per un approfondimento (di fonte CIPRA) vedi Innevamento artificiale nelle Alpi.
Il signore della neve
Max, il fabbricatore di fiocchi che ci fa sciare a dispetto del meteo. Fino a 20 anni fa questo mestiere non esisteva. Oggi il suo è un ruolo cruciale che tiene in piedi l’industria più grande e redditizia delle Alpi.
di Giampaolo Visetti
(La Repubblica, 9 dicembre 2016)
La notte è serena e la luna illumina il Piz da Peres. Otto gradi sotto. Umidità zero, non ci sono nuvole all’orizzonte. Sulle Dolomiti è il momento perfetto per fabbricare la neve. Max Willeit comincia appena prima di mezzanotte. Sale in motoslitta e fino a quando il sole è alto, vaga da solo lungo le piste e tra le montagne. Controlla i cannoni che sparano i cristalli ghiacciati, uno per uno. Ha 34 anni: in estate fa la guida alpina, ma in inverno è innevatore.
Fino a vent’anni fa, questo mestiere non esisteva. Oggi è il ruolo cruciale che tiene in piedi l’industria più grande e con la redditività più alta dell’arco alpino. Suo padre faceva il contadino a Pieve di Marebbe, in Sudtirolo. Secoli e generazioni di agricoltura d’alta quota. Invece se oggi non ci fossero quelli come Max, che fabbricano fiocchi, paesi e valli alpine sarebbero un deserto.
Nel Novecento, lungo i fronti di guerra tra Francia, Svizzera, Austria, Italia e Jugoslavia, c’erano i soldati. Scavavano trincee e i cannoni sparavano bombe. L’affare erano le ideologie.
La gente scappava o moriva. Oggi si combatte un’altra guerra, però tutti insieme. Il nemico è il clima, che abbiamo contribuito a cambiare. Non conta conquistare territori, ma mercati. Il business è il turismo bianco.
Si scava per creare laghi, posare tubi, interrare stazioni di pompaggio, alzare torri di raffreddamento e posizionare cannoni. Al posto delle bombe, sui prati e tra i boschi vengono sparati fiocchi di neve. È una guerra di pace: chi era abituato alla fame e ad andare via adesso è sazio e resta qui. Ma è pur sempre una guerra, contro il caldo e contro inverni sempre più secchi e in ritardo.
«Temo un solo nemico – dice Max Willeit – un’era segnata da aridità estiva e rari giorni di gelo invernale. Ci restano quattro gradi di margine. Poi, se avremo acqua, metteremo gli sci dai duemila metri in su».
L’arsenale per mantenere vive le montagne, a costo di sconvolgerle, è imponente. Le Alpi sono solcate da oltre 50.000 chilometri di piste. Per aprirle agli sciatori servono 70.000 chilometri di tubi che portano 300 milioni di metri cubi d’acqua a più di 100.000 cannoni per la neve programmata, prelevandola da oltre 2.000 bacini artificiali. Per stendere i fiocchi sparati è spiegato un esercito di 100.000 gatti (sic, NdR). Da un metro cubo di acqua si ricavano due metri cubi di neve, al prezzo totale di 2,5 euro a metro cubo. Servono 2 milioni di euro al giorno. Un cannone costa 40.000 euro, un gatto 400.000. Nessuna industria italiana vale però quanto questa: il fatturato degli impianti di risalita nel 2016 ha superato 1,5 miliardi di euro, il turismo della neve ha distribuito 25 miliardi. Un metro cubo di acqua, trasformata in neve sciabile, produce 85 euro di valore: 82,5 di profitto netto per l’economia fondata sullo stress di massa. Più del petrolio e di ogni altra materia prima.
(Nota del Redattore: a noi questo dato sembra inverosimile. Come può un metro cubo di neve, con un costo di 2,5 euro, renderne 85?).
Questo prodigio, una macchina che muta una goccia di pioggia in un fiocco di neve e questo in una pepita d’oro che scongiura ogni possibile guerra tra popoli storicamente nemici, ha il suo cuore tra le Dolomiti. Nel 1979 il primo cannone è arrivato dagli Stati Uniti proprio a San Vigilio di Marebbe, ai piedi di Plan de Corones. Erich Kastlunger, uno dei pochi pazzi che nel dopoguerra aveva creduto negli sci, lo pagò 60.000 dollari.
Oggi è l’erede di quel cannone il motore della multinazionale delle discese. L’innevatore è il suo profeta, ma è il gatto battipista che prende un cumulo di cristalli e ne ricava una discesa. L’altro mago che con il freddo fabbrica i soldi per tutti, è il gattista. Da Chamonix a Cortina d’Ampezzo, innevatori e gattisti contano e rendono più di un centravanti. Nessuno li vede perché scendono in campo quando le cabinovie chiudono, la gente se ne va, sale la notte e dalle piste scivolano giù i cervi e le volpi. Quelli che hanno il tatto e il naso speciali, il talento per la neve perfetta, sono contesi come campioni. Max Willeit è il Pelé degli innevatori, ma Helmuth Maneschg è il Maradona dei gattisti.
Al passo Furcia crea piste da sci da oltre trent’anni, sul gatto è salito a quindici. «Se devo essere sincero – dice – a me le nevicate naturali stanno sulle scatole. Per mettere a posto quindici centimetri di neve caduta dal cielo occorre una settimana. In poche ore è ridotta a una lastra di ghiaccio. Con la roba che mi mettono lì i cannoni, in tre giorni apro le piste da novembre ad aprile. Mi basta il freddo, al resto penso io».
Fuoriclasse del fiocco si diventa con la tecnologia. La prima goccia per la pista Erta, ad esempio, parte da un ruscello e viene pompata in una centrale sotterranea 600 metri più in alto. Sale ancora e da 8 gradi viene portata a 2 nelle torri di raffreddamento. I tubi e la pressione la sparano infine nei microbulbi del cannone, che grazie al freddo e all’umidità la trasformano in un cristallo di neve. I computer di una centrale mostrano tutto ciò che succede. Ogni cannone sa dove, quanto e come deve sparare. Ogni gatto, con satellite e Gps, conosce al millimetro lo strato da stendere.
«Il cannone – dice Toni Vollmann, capo della preparazione delle piste a San Vigilio – è la nuova nuvola. Crea un microclima. Il segreto dell’innevatore è sapere quanta aria togliere dalla neve artificiale. Quello del gattista quanta aggiungerne a quella naturale. È questo equilibrio tra gelo e umidità che consente il capolavoro della qualità». Ci vogliono, come sempre con l’arte, passione e fiducia. Non solo per passare le notti e gli inverni della vita sui pendii sottozero. Occorrono per vedere che un prato può diventare una pista e credere che possa succedere anche se il cielo è sereno.
Fare neve sulle Alpi sta diventando come coltivare ananas nel Sahara. Difficile ma indispensabile. Lo sci non è più un sogno, è un’industria. Trenta milioni di persone sulle montagne di sei nazioni vivono di questo, danno lavoro alla gente del Sud e ai migranti dell’Est. Lo sci industriale vive di neve artificiale, la felicità di chi lo vende e di chi lo compra dipende dalla sua stabilità. Le armi sono i cannoni che sparano fiocchi e i gatti che li battono. Gli eroi contemporanei delle quote alte non più i contadini e gli alpinisti, sono gli innevatori e i gattisti.
Per chi ama la natura intatta e quella ben coltivata, o l’armonia delle discese originarie, inutile negarlo, è un problema. Un profondo, decisivo problema collettivo. La bellezza comincia dove la pista finisce. «Mio nonno però – dice Max Willeit – dalla guerra vera a casa non è ritornato». Sono le quattro, l’alba è lontana. Prende un martello e accende la motoslitta. In cima al Piz de Plaies un cannone non spara più, sugli ugelli intasati si accumula ghiaccio. Sulle Alpi le nuvole d’acciaio non si possono più fermare, nemmeno un momento.
Turismo: la qualità emozionale non ha bisogno di forzature e di mistificazioni
Di fronte agli evidenti misfatti di un sistema sempre più insostenibile, ecco che gli esperti di turismo si affannano nel cercare di recuperare la qualità emozionale. Questi si inventano iniziative artificiali a effetto atte ad aiutare la sopravvivenza del sistema.
di Giorgio Daidola
(da Corriere del Trentino, 29 dicembre 2015)
La parola emozioni è sempre più utilizzata quando si parla di turismo, per indicarne le motivazioni più profonde. In tal senso si può parlare di qualità «emozionale», in contrapposto alla qualità «aziendale», ossia a quella dei servizi turistici tesi alla soddisfazione del cliente. È a quest’ultima che di norma fanno riferimento gli operatori, i politici, gli esperti e anche le normative, comprese quelle comunitarie per la certificazione della qualità. Anche le ricerche sulla qualità «percepita» dai turisti riguardano, salvo eccezioni, la qualità aziendale. Una qualità che risulta «costruita» dal sistema turistico, in contrapposto alla qualità emozionale che è data dalla autenticità e dalla qualificazione del rapporto con l’ambiente, con la storia e con le culture locali.
Nessuno mette in dubbio l’importanza della qualità emozionale, fondamentale per dare un senso profondo al turismo e al viaggiare. Anche se pochi sembrano rendersi conto che i due modi di intendere la qualità sono sempre più conflittuali, nel senso che la qualità aziendale fa venir meno quella emozionale. E piuttosto evidente che lo sviluppo abnorme della prima ha affossato in gran parte la seconda, rendendo quanto mai significativa l’affermazione che «il turismo mangia se stesso». Si è infatti dimenticato il principio fondamentale secondo il quale è il turismo, nelle sue diverse forme (quella sportiva in particolare) a doversi adattare all’ambiente e non viceversa. Le grandi stazioni di sci con le loro ragnatele di impianti e connesse autostrade della neve, le coste cementificate tipiche di un certo turismo balneare vuoto di contenuti, ne sono degli esempi. Si tratta di parchi giochi che hanno richiesto folli investimenti e che, per la loro discutibile attrattiva, per gli alti prezzi dei servizi resi, per il ridotto numero di giorni all’anno in cui vengono utilizzati, non possono garantire una redditività, e neppure un valore aggiunto, soddisfacenti.
Ci si può chiedere allora perché sono stati realizzati, perché sono stati commessi tanti errori e soprattutto perché si persevera nel commetterne. A prescindere dalle motivazioni speculative (si pensi alla baldoria immobiliare e a quella delle infrastrutture connesse, ben visibile nelle grandi stazioni turistiche) e dalle diverse situazioni del passato, la risposta è semplice: il finanziamento facile. Non solo i contributi pubblici (che in Trentino hanno interessato e interessano soprattutto gli impianti di risalita) ma anche i finanziamenti delle piccole banche locali che hanno privilegiato operazioni obiettivamente deboli. Purtroppo eliminare con una bacchetta magica le conseguenze di tanti errori, fermare le mega giostre, è ora impossibile: i costi sarebbero elevatissimi, i risultati difficilmente soddisfacenti e i molti responsabili dovrebbero essere allontanati dalle stanze del potere: politico, economico e finanziario. Un’intera classe dirigente dovrebbe insomma rendere conto del disastro di un sistema che si regge unicamente grazie a pericolose stampelle.
Ciò non sarebbe successo se fossero state fatte a suo tempo corrette analisi economico finanziarie, ben diverse da quelle pilotate dalla politica o suggerite da economisti che hanno troppa fiducia negli algoritmi matematici, poi applicati dalle banche attraverso sterili modelli computerizzati. Se a questo si aggiungono logiche clientelari, in particolare favoritismi a imprenditori e a politici improvvisati, ben si capisce come tali comportamenti abbiano potuto dare vita a un’economia turistica nel complesso malata. Non mi riferisco solo agli impianti di risalita di cui sono ben note le fisiologiche perdite, ma anche al settore alberghiero: si vedano in proposito, con riferimento al Trentino, le analisi di bilancio della «Scouting» e dello studio «Giuseppe Toccoli». Cash flows insufficienti o negativi sono la causa prima delle masse abnormi di crediti in sofferenza delle banche.
Anche gli snowpark sono un’iniziativa artificiale
Di fronte agli evidenti misfatti di un sistema sempre più insostenibile, ecco che gli esperti di turismo, chiamati al capezzale del moribondo, si affannano nel cercare di recuperare la qualità emozionale. Essendo quella vera irrimediabilmente compromessa, essi si inventano surrogati della stessa, attraverso iniziative artificiali a effetto, atte ad aiutare la sopravvivenza del sistema. Come ad esempio i mega concerti di musica pop in quota, coinvolgendo artisti di fama internazionale. Si tratta di iniziative pregevoli ma che nulla hanno di autentico con riferimento all’ambiente montano, alla cultura e alla storia dei luoghi. Analogamente si può dire per la realizzazione di snowpark sempre più impattanti e adrenalinici, per le cene in ristoranti tipici in quota con ritorno a valle utilizzando mezzi meccanici. Anche la ripetitiva, martellante proiezione nei luoghi di incontro di video clip in cui si vedono nuvole bellissime che corrono a velocità impossibili nel cielo, sciatori che saltano pericolose falesie di roccia o che sciano in un esplosione di neve polverosa non sono che tentativi per far sognare ciò che non esiste o che viene categoricamente proibito in nome della sicurezza. Ormai dal cappello dei prestigiatori è difficile far uscire delle nuove idee. Allora ecco nascere le forzature, le mistificazioni, i facili trionfalismi, le evidenti superficialità tendenti a sviluppare un marketing delle emozioni provocate davvero sconcertante e preoccupante. Talvolta addirittura con l’avallo di qualificati ambientalisti e di bravi giornalisti, per confondere sempre di più le idee. Si cerca disperatamente di far vivere la qualità emozionale alla luce artificiale dei musei, vengono lanciate costose riviste patinate di lusso da aeroporto in cui si tenta di mettere insieme qualità aziendale e qualità emozionale, secondo le regole di una nuova retorica inconsistente tipica di un sistema senza futuro, che mescola inni (remunerati) alla vera sostenibilità a vuote e costose operazioni puramente commerciali. E dire che la qualità emozionale non costa nulla: basta avere la sensibilità necessaria per capirla e rispettarla, per insegnare a chi non la conosce come andare a cercarla. L’impressione (positiva) è che molti turisti abbiano già imparato a farlo da soli.
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Grazie Marcello. Bell’esempio di quel che succede ai luoghi interpretati come depositi di risorse. Prima o poi si esauriscono.
Ad un certo punto dovremo iniziare a mantenerli pensando alle loro differenze, anzichè vederli manomessi, tutti uguali e inesauribili.
Se avete voglia guardatevi questo breve e significativo video pubblicato dal Corriere delle Alpi di Belluno.
http://video.gelocal.it/corrierealpi/locale/sciare-senza-neve-naturale-ecco-quanto-ci-costa/65129/65516
Sig. Comi, quello che scrive è sacrosanto ma credo siano pochissimi i montanari che possano comprendere le sue parole (meglio pochi che niente, però), perché scritte in un italiano forbito e perché enunciano concetti sconosciuti ai giostrai dell’alpe autoprivati della loro identità.
Sig. Cominetti, occhio che se mi da ragione qualche montanaro troglodita e avido se la potrebbe prendere molto. I miei rispetti.
Michele hai ragione da vendere.
L’identità montanara va recuperata.
Michele, l’identità montanara, almeno dalle mie parti, è scomparsa da decenni in chi ha a che fare col turismo. Ciao
Curiose le reazioni stizzite di noi montanari ormai devoti alla giostra dell’alpe. Da un lato rivendichiamo un legittimo pedigree alpestre, accusando i decadenti metropolitani di perbenismo ambientale, poi appoggiamo quanto di più distante possa esistere dal concetto di identità, rassegnandoci all’omologazione, all’economia che distrugge il terreno su cui sta, accettando che l’anomalia diventi regola, trasformandosi in modello unico da perseguire…
Consiglio a chi non lo ha letto, in particolare a Fabio Ganz, la lettura del libro “La nuova vita delle Alpi” di Enrico Camanni. Può servire per fare chiarezza e per non trasformare il dibattito in un schiamazzo da osteria. Nessuno è contro il turismo di montagna che può permettere ai montanari una vita dignitosa e anche migliore di quella degli abitanti delle metropoli di pianura. Ma ci sono delle valide alternative che ritengo più gratificanti di quelli alienanti proprie del sistema turistico attuale. Per quanto riguarda le stampelle, ossia i lauti contributi pubblici al sistema turistico, non é difficile provare che in casi come questo servono solo per mantenere in vita economie cronicamente malate, economie che non stanno in piedi da sole, che non possono “guarire” grazie ad esse. Senza le stampelle pubbliche “stramazzerebbero” al suolo, per sempre. Quindi, se si vuole un economia di montagna sana, capace di autofinanziarsi per dodici mesi all’anno, non sono da utilizzare. Come non sarebbero state da utilizzare per l’IRI, per chi ha memoria, che ha prosciugato le casse dello Stato per tanti anni, prima di venire chiusa. Degli sprechi di denaro pubblico per finanziare un modo di concepire il turismo perdente ne parla anche Cottarelli nella sua spending review. Visto che diceva cose scomode é stato licenziato.
Sergio: buona idea.
Stefano: premesso che uno qui scrive ciò che vuole, sei uscito fuori tema. A parte le tue considerazioni da “cavaliere” l’articolo parla di emozioni che la neve artificiale non da più. Oppure dà a chi se la sente di riceverle. Nel titolo si parla anche di economia alpina salva, non sei contento?
L’articolo pone un problema morale prima che pratico e non mette solamente a confronto il mondo cittadino o di pianura (dove esistono anche paesini, mica solo città) con quello valligiano, ma più realtà che agiscono in maniera diversa verso l’ambiente e i sentimenti delle persone.
Personalmente rientro in quella categoria di montanari, forse trogloditi ma non avidi, che vivono anche di neve di cannone (e per questo ben informati sul tema) ma che sono pronti a cambiare anche guadagnando meno. Intanto lo sci sulle piste sotto i 2000m. è destinato a sparire a breve, se non si è ciechi, tanto vale prepararsi, no?
Premesso che ognuno dice quel che vuole mi permetto di ricordarvi che ognuno di Voi che scrive o vive di rendita o ha un lavoro. in entrambe i casi i denari con cui vive hanno prodotto inquinamento, come la macchina che usate… Quindi o mi dimostrate che andate tutti in bici, o la smettiamo di fare quelli che difendono l’indifendibile e cerchiamo di affrontare il problema in modo “asettico” cercando di capire se sporca di più un euro che proviene dal turismo Alpino o uno che viene dall’estrazione del petrolio, dalla deformazione di una billetta o dalla coltivazione di grano OGM… Per non andare O.T. da operatore economico che vive di Turismo, perchè servo da 3 generazioni praticamente tutte le aziende (dal verduraio alla società degli impianti) di alto Piemonte e Valle d’Aosta posso ben riportare i conti di un inverno senza neve, e da amante della montagna anche dirvi che definire “danno ambientale” lo stendere tubi sotto mucchi si sassi e mettere qualche cannone dove non cresce un filo d’erba che sia uno …è da idealisti irresponsabili. Ho sciato molto, quindi conosco molti dei comprensori alpini e Cito Cervinia e les Dues Alpes come due luoghi in quota dove non può più crescere un solo albero e che sono quindi assolutamente “desolati” e dove definire scempio naturalistico la creazione di piste e la posa di tubi e cannoni è quantomai ridicolo. Ma non solo gli ignoranti ipocriti criticoni dovrebbero innanzitutto studiare e cimentarsi con un semplice esercizio matematico, non solo finanziario, ma anche climatico (o micro-climatico): chiedendosi, e facendo i conti, di quanto inquina un euro prodotto con il turismo delle piste e quanto le pietre al sole scaldino l’atmosfera contribuendo all’innalzamanto della temperatura globale, rispetto alla stessa superfice coperta di neve… Senza contare il fatto che quando sarà ben chiaro che sarà meglio cominciare da subito a sparare per tenere ben coperti i ghiacciai se vogliamo ancora avere dell’acqua che tenga umide valli e pianure e che quindi crei acqua da bere per bestie, uomini, e pure per gli ignoranti criticoni… Certo ci vuole un po’ di buonsenso in tutto e non si devono tirare giù boschi per fare nuove piste… ma se per esempio si baratte la costruzione di un nuovo impianto con l’eliminazione di una discarica a cielo aperto (come si potrebbe fare in Vallée…) e se si utilizzano le dighe d’estate per produrre energia pulita… Cari cirticoni (che mi piacerebbe sapere come sbarcate il lunario) sarà bene anche cominciare a capire che senza “economia Alpina” del turimo non sopravvivono nemmeno quelle realtà che tengono un po’ in “ordine” il territorio, cioè strade, sentieri, rifugi, bivacchi, punti ed organizzazioni di soccorso, ma nemmno sopravvivono più gli alpeggi e le mandrie in quota… Insomma: informatevi bene, pensate alla prima volta che avete messo gli sci nei piedi se avete imparato a sciare su una pista o se avevate sotto le pelli di foca… (per la cronaca i miei bocia li ho iniziati a 3 anni..). Basta polemiche sterili, parliamo di come sopravviere facendo meno danni possibile, ma per favore con i conti economici e il bilancio energetico-climatico in mano, non con le chicchiere (che pure quì stiamo inquinando…).
“Amara consapevolezza”, associabile a quello che c’è dentro l’uomo di oggi. La neve artificiale è solo una delle conseguenze.
Il titolo: Innevamento artificiale: economia salva ma fine delle emozioni? pone una domanda e la risposta, secondo me, è LE EMOZIONI SONO FINITE ma solo per chi vive più profondamente di chi invece si emoziona ancora con l’artificialità contrapposta a una vita piatta, insoddisfacente e priva di vere emozioni .
Ma non sta a me, né a voi, decretare chi ha ragione perché siamo tutti diversi.
Poi, i trogloditi esistono sui monti e in pianura, ma è anche vero che l’orografia delle valli non aiuta l’evolversi del pensiero libero.
Visetti ha fatto un buon articolo, a mio avviso. Può avere sbagliato il conto economico, ma il senso era quello di mostrare quello che succede costruendoci un minimo di epica intorno. Non leggo però giudizi legittimanti la situazione, anzi a mio avviso l’articolo espone una amara consapevolezza.
perché con chi definisce il montanaro medio “troglodita avido” invece si può ragionare?
a sto punto chiederei perché gli studi economici ottocenteschi si devono applicare solo all’economia montana e non a tutti gli EX ambienti naturali…voi in pianura siete liberi di distruggere tutto pur di far soldi ma i trogloditi di montagna devono vivere nelle baite per il vostro piacere…
BUONO A SAPERSI…
«Alessandro ha detto:
2 gennaio 2017 alle 10:13
Perché chi non è in grado di sciare deve per forza rompere i cojoni???»
….
Ditemi voi come si può ragionare con persone del genere.
Perché chi non è in grado di sciare deve per forza rompere i cojoni???
Anni fa avevo una professione ben molto ben pagata nel mondo della neve. Diedi le dimissioni perché consideravo lo sport seppellito, e da tempo. Ho avuto pochi rimpianti. Il problema è che in montagna fa freddo e non si vede una chiara e banale alternativa agli stecchi scivolanti. Forse i cannoni non sono la soluzione, ma si pone il problema di dove far arrivare tali miliardi alle economie montane.
Gli aiuti statali a qualsiasi fabbrica sull’orlo del fallimento sono un bene (Alitalia, Fiat, Monte dei Paschi…). Se le imprese si aiutano da sole con la neve artificiale vengono trattate a pesci in faccia… Ma mi faccia il piacere!
Da facebook, 2 gennaio 2017, ore 0.30
Ci risiamo… per 4 persone devono smettere di sciare tutti… Inoltre il professor Daidola fa presto a criticare, tanto è stipendiato dallo stato sia che ci sia bel tempo che no… Aggiungo pure che le stampelle si mettono all’infortunato per guarire non per stramazzare…
Da facebook 1 gennaio 2016
A complemento del tutto, pur non essendo economista, vorrei ricordare a Visetti il padre della bioeconomia, Nicholas Georgescu-Roegen. Diceva ancora nello scorso millennio che i conti della convenienza economica si fanno considerando i costi di ripristino al netto dell’impatto ambientale, perché l’ambiente è un bene comune. Quindi, tu imprenditore o riporti l’ambiente allo stato precedente allo sfruttamento – cioè spiani i bacini idrici, togli i chilometri di tubi, li smaltisci ecc. o – come diceva Thomas Paine già nel ‘700 – paghi il dividendo di ciò che hai guadagnato a noi cittadini, come legittimi proprietari danneggiati. E allora non so se i conti tornerebbero. Economisti, ditemi se ho sbagliato!
Teniamo conto che il “montanaro medio” è un troglodita avido, quindi non meravigliamoci se dichiara di detestare la neve naturale. Costui è figlio dell’era attuale perché sicuramente suo nonno non la pensava così e girava a cavallo anziché in audi quattro. Certi personaggi delle valli dovrebbero tornare a mangiare solo patate, altro che reddito garantito dal turismo. Ma a S.Vigilio di Marebbe le scuole ci sono?
Difficile prendere posizioni. Da un lato il rispetto della natura porterebbe ad un lento ma inesorabile svuotamento dei luoghi per un più facile guadagno in fondo valle, dall’altro la tecnologia permette a chi è nato lì di poter continuare a vivere ed avere una nuova fonte di reddito.
Da facebook, 1 gennaio 2017, ore 19.40
Questo passaggio è agghiacciante:
«Se devo essere sincero – dice – a me le nevicate naturali stanno sulle scatole. Per mettere a posto quindici centimetri di neve caduta dal cielo occorre una settimana. In poche ore è ridotta a una lastra di ghiaccio. Con la roba che mi mettono lì i cannoni, in tre giorni apro le piste da novembre ad aprile. Mi basta il freddo, al resto penso io».
Da facebook, 1 gennaio 2017 ore 18.10
Come dice Mauro Corona ci sono posti dove nevica “firmato” e altri in cui non nevica affatto o nevica semplicemente “bianco”. Io vivo in uno dei primi ma vedo e frequento anche i secondi.
In Alta Badia, solo per fare un esempio a me noto, poche stagioni fa un albergatore illuminato più degli altri, aveva detto durante un’assemblea degli operatori turistici, che si doveva pensare a delle alternative invernali vista la costante penuria di neve. Fu quasi lapidato e il giorno dopo sulla via principale di Corvara venne posto un cannone sparaneve con un cartello che diceva (in ladino, bontà sua): Grazie!
Bisogna dire che un’economia che da contadina è divenuta in pochi anni turistica di successo, si è auto accecata a causa degli enormi guadagni che ha portato velocemente nelle tasche di chi la pratica. Il saper vedere a lungo o a breve termine non è proprio di nessuno dei coinvolti, mi sembra. Anche perché gli investimenti, gli stessi che giustamente Daidola (ciao Giorgio) cita come la causa della crisi bancaria, vanno avanti come se niente fosse e da anni ormai si è giunti nella situazione che “indietro non si torna”.
Certo è che dove nevica firmato l’indotto produce di più, perché se una camera in hotel costa 500€ a notte, contro i 50€ di dove nevica solo bianco (quando nevica), quell’utente acquisterà una giacca a vento da 1000€ in luogo di una da 40€, e avanti così per tutto il resto.
Sulla riminizzazione poi, mi sembra che si sia superato di gran lunga questo metro. Negli snowpark la droga gira come, se non di più, nei locali “in” di Milano. Molti sciatori sono ubriachi già dalla mattina (anche alcuni maestri di sci non scherzano) e negli après-ski si consumano alcolici e pornografia in ugual misura.
Io non ho mai guardato alla montagna come un’assurda ma popolarissima “valvola di sfogo” o a un luogo incantato e di purezza e bla, bla, ma come un posto in cui sto bene. Punto. Trattasi di premessa fatta a metà discorso; nessuno è perfetto.
Alla base, secondo me, sta un generale senso di malessere che si crede possa essere combattuto con l’evasione momentanea da una vita insoddisfacente. Quindi anche una pista bianca ricavata tra i prati marrone delle montagne dove il clima sta cambiando, può rivestire motivo di divertimento, perché dà anche l’opportunità di spendere molti dei soldi che si sono guadagnati (o rubati, o fattici prestare, chissà) e che mettono al sicuro, una volta spesi, dal confondersi con chi quei soldi non li spende perché non li ha e dal sentirsi al sicuro rispetto a chi cerca di spendere meno. Pensateci.
In verità il problema è socio-antropologico e andrebbe imputato al troppo recente e indelebile berlusconismo, alla mancanza di valori da ottenersi con la fatica, all’ignoranza della pazienza, al “pago quindi pretendo” e al non credere che emozione e esperienza richiedano dedizione, tempi e non necessariamente denaro.
Una “linea bianca” per sentirsi vincenti (cocaina o pista innevata artificialmente non fa differenza) è il credo momentaneo e simbolico dell’essere umano irregimentato, occidentale e insaccato nel budello che egli stesso produce e che si avvia da tempo verso la fine in una profonda tristezza interiore mascherata da una sottile scorza lucente! Buon anno.
Probabilmente sarà lo stesso sistema economico a decretare la fine della finzione, non certo la lungimiranza dei principali operatori. Forse allora ci riapproprieremo della capacità di riconoscere l’unicità dei luoghi e cogliere la loro differenza rispetto a ciò che si trova al piano e di motivare il viaggio, senza ricorrere ad espedienti costosi, effimeri e fuori contesto. Augurandoci che rimanga ancora qualcosa, da vivere e raccontare…
C’è chi la neve la porta coi camion http://www.corriere.it/cronache/16_dicembre_28/uomo-che-crea-neve-consegna-domicilio-5d442a36-cd3e-11e6-a469-c81def57020b.shtml
Dunque, facciamo quattro calcoli: da Braies a Sesto sono 60 km di piste, quindi stando alle dichiarazioni del signore sono sulle 3000 camionate (con un carico si coprono fino a 20 m). La neve viene prodotta a 10 km in media di distanza, quindi tra andata e ritorno sono 60000 km percorsi da pesanti veicoli diesel. Alla faccia dello sci da fondo come sport ecologico e della mobilità dolce. Questo fenomeno meriterebbe una censura unanime e veloce, invece viene celebrato dal quotidiano italiano #1 come simbolo dell’innata versatilità dell’ingegno italiano (e veneto in particolare).
Da facebook, 31 dicembre 2016, ore 14.19
Mi permetto solo di aggiungere che si notano delle contraddizioni fra i dati di Visetti e la mia analisi. Oltre al fatto che andrebbero verificate le metodologie di calcolo dei dati di Visetti, che in questo articolo mi ricorda più che altro un bravo giocoliere, non si tiene conto che il sistema di cui si parla non da una redditività soddisfacente nemmeno nel breve termine, anche considerando l’alberghiero. Il sistema, salvo rare eccezioni, sta in piedi solo grazie al denaro pubblico e ad un sistema finanziario basato sul nulla, ovvero su algoritmi matematici, versione moderna del miracolo della moltiplicazione dei pani e dei pesci. Le gravissime crisi bancarie ne sono la prova. Non si tiene inoltre conto che il valore aggiunto creato, diretto-indiretto-indotto, è a breve termine e non giustifica gli enormi investimenti fissi fatti e che si continuano spavaldamente a fare. Il tutto senza mettere in conto i danni irreversibili all’ambiente, tanto ingenti quanto difficilmente quantificabili. Benché i risultati di queste scelte scellerate siano ormai sotto agli occhi di tutti, per rimediare a questi epocali misfatti non si fa che prendere decisioni che li amplificano. “Mettete dei fiori nei vostri cannoni”, sia in quelli della grande guerra sulle Alpi sia in quelli spara neve che li hanno sostituiti: é un suggerimento, più profondo e sicuramente più di buon gusto, per il prossimo articolo di Visetti.
Amo lo sci da discesa, che pratico da quando ero piccolo, ma sono d’accordo sul denunciare le aberrazioni del turismo di massa, delle seconde case e degli impianti di risalita; forse si poteva fare tutto un po’ meglio…
Le Alpi come la Riviera Adriatica, la Valle di Fassa come Rimini.
In passato qualcuno definí tutto questo come la “riminizzazione” del territorio.
Gli abitanti delle Dolomiti – generosamente sovvenzionati con denaro del contribuente – si ritroveranno ricchi sfondati, ma ridotti alla figura di giostrai nella loro terra abbruttita. È questo che vogliono?
A quando i “vu’ cumprà” sulla Marmolada? A quando gli spacciatori sulle piste da sci?
È meglio fuggire sulle montagne dimenticate, piuttosto che assistere allo scempio.
Un articolo che definirei ‘assoluto’. Lo condivido perché è da leggere.
I luna pacchi evitiamo di costruirli ovunque… che City Life o il futuro annunciato scempio sugli ex scali ferroviari a Milano corrispondono a un idea di città in cui ci si può forse riconoscere?
Io non mi riconosco in questa società che legittima tutto per il profitto.
Sono sicuro che pagheremo molto cara questa Arroganza verso l’Ambiente, solo per tenere in piedi un industria quella degli impianti di Risalita che se non ricevesse danari Pubblici per costruire le infrastrutture sarebbe sempre una gestione fallimentare.
I lunapark costruiamoli nelle Città e lasciamo la Montagna a chi la apprezza e la vive senza devastarla..