Konrad Renzler

Konrad Renzler ha praticato un alpinismo concreto e spesso severo, in un crescendo di scalate che oggi sono parte della storia delle Dolomiti, dei colossi delle Alpi e del mondo dell’aria sottile.

Konrad Renzler
di Marco Berti
(pubblicato su Lo Zaino n. 20)
Foto: Archivio Konrad Renzler

Sono un alpinista, ma vorrei essere ricordato come un grande innamorato della montagna (Konrad Renzler)”.

Occhi e sorriso da bambino vivace e simpaticamente birbante, ma quando inizi a porgli domande, cresce lo sguardo di un uomo umile che nonostante il suo intenso vissuto, non ha la minima intenzione di fermarsi e godersi un meritato riposo.

Credo che questa parola, riposo, non faccia parte del vocabolario di Konrad Renzler, classe 1937, ottantasei anni, una vita a scalare montagne, ma anche imprenditore, amministratore pubblico e instancabile viaggiatore.

Konrad Renzler sulla via Soldà alla parete sud-ovest della Marmolada.
Konrad sulla Nord del Collalto nel 1974.

Ci frequentiamo da alcuni anni, grazie a mia moglie Caroline, che una quindicina di anni fa lo ha incontrato durante una sua salita solitaria sul Monviso e ne è diventata amica. Lui era con suo fratello Sepp, una cordata che già all’epoca contava settanta anni di scalate condivise. Con Caroline raggiungo Konrad nella sua accogliente casa a Rasun, nella valle di Anterselva, dove è nato e vive con sua moglie Martha.

Luogo da dove è sempre partito e sempre tornato praticando un alpinismo concreto e spesso severo, in un crescendo di scalate che oggi sono parte della storia delle Dolomiti, dei colossi delle Alpi e del mondo dell’aria sottile.

Un percorso di vita che si può rivivere godendo del suo album fotografico iniziando con un affascinante e poetico bianco e nero, continuando nell’oggi con i vivaci colori dell’era digitale.

Nel cominciare la nostra chiacchierata per Lo Zaino, Martha ci porta tre fumanti tazze di tè e due torte fatte in casa, mentre Konrad ci racconta che il giorno prima è salito in bicicletta da Rasun a Passo Stalle 2050 m scendendo verso la valle di Defereggen per poi seguire la strada delle malghe austriache, lì dove sembra di essere in Nepal, per poi salire al Passo di Gola a 2295 metri e percorrere in discesa la Valle Aurina passando per Campo Tures fino a Brunico e far ritorno a Rasun. Più di 90 km e quasi duemila metri di dislivello positivo. Se è così attivo a 86 anni, non oso immaginare quando ne aveva venti.

Konrad, iniziamo da qui, dalla bellissima valle di Anterselva. Che significato ha avuto il nascere nella serenità degli alpeggi, ai piedi delle Alpi Aurine e a due passi dalle Dolomiti?
Sono nato in un periodo non semplicissimo anche per le nostre valli. All’epoca, molti sudtirolesi di lingua tedesca guardavano con interesse al nazismo, anche spinti dalle misure repressive del regime fascista, nella speranza che Hitler annettesse alla Germania, subito dopo l’Austria, anche la provincia di Bolzano. Era il 1939, avevo meno di due anni, quando il governo tedesco e quello italiano siglarono un accordo che presentava due opzioni alla popolazione locale.

Fu proposto di optare per la cittadinanza tedesca, con susseguente obbligo di trasferirsi nel territorio della Germania nazista. Chi avesse rifiutato, decidendo di rimanere in Italia, avrebbe dovuto implicitamente accettarne l’italianizzazione, che non prevedeva alcuna forma di tutela linguistico-culturale.

1970 – sulla via Navasa alla Rocchetta Alta di Bosconero.
1998 – Christoph Hainz fotografato da Konrad durante la ripetizione della Via dei Sassoni sulla parete nord della Cima Grande di Lavaredo.

La società altoatesina si divise tra gli Optanti, coloro che scelsero di passare sotto il Reich, e i Nazionalisti, coloro che rimasero nella loro terra a costo di rinunciare alla cultura. Questi ultimi furono additati dai partenti come traditori, e successivamente dovettero far fronte a discriminazioni e persecuzioni. La stragrande maggioranza degli altoatesini di lingua tedesca (circa l’85% della popolazione) optò per il Terzo Reich, con l’obbligo di vendere ogni proprietà. Scelta anche giustificabile dopo che la stupidità fascista aveva iniziato il noto processo che portò all’italianizzazione di ogni parola tedesca presente sul territorio, con lo scioglimento di quelle associazioni alpine che non erano sotto il controllo del CAI, oltre all’italianizzazione dei toponimi tedeschi e divieto dell’uso di questi ultimi. Anche i cognomi germanici vennero italianizzati e molto di più.

La mia famiglia, nazionalista, rimase a Rasun vedendo partire verso la Germania amici e parenti, illusi dalla prospettiva di una vita migliore e più in linea con i propri valori e le proprie tradizioni. Ma così non fu.

Per l’oggi, posso dire che la mia valle è rimasta abbastanza intatta anche se il turismo ha chiesto un cambio di stile di vita, conseguenza di un crescente e sempre più diffuso benessere, ma ritengo sia arrivato il momento di fermarsi e riflettere perché non ci può essere un continuo rincorrere un turismo che è sì un flusso di denaro (che è prosperità), ma è sempre più evidente una crescente mancanza di rispetto per il territorio. Io spero in un cambio generazionale e voglio avere, ho fiducia, nei giovani per un concreto risveglio verso la tutela di questi luoghi. Sono terrorizzato dall’idea che un giorno, tutte queste bellissime tonalità di verde vengano sommerse dal grigio del cemento e dell’asfalto.

Sei nato il 5 dicembre del 1937, pochi mesi dopo la ripetizione in solitaria di Emilio Comici sulla Cima Grande di Lavaredo e dell’epica salita di Cassin e compagni sulla Nord-est del Badile. Come ti sei avvicinato all’alpinismo?
Sono il più piccolo di una numerosa famiglia e il mondo della montagna mi stava attorno. Così mi è sembrato naturale voler salire le montagne seguendo i miei fratelli più vecchi. La prima salita un po’ impegnativa l’ho affrontata a dodici anni per raggiungere la cima del Collalto.

Cosa significava andare ad arrampicare negli anni ’50 e ’60 del secolo scorso? Attrezzatura e mezzi per spostarsi, era tutto un po’ più complicato…
Si partiva da Rasun con la bicicletta e si raggiungeva il Passo Gardena (60 km circa, NdR) lungo l’attuale strada, ma che all’epoca era sterrata. Ovviamente, sulle spalle avevamo lo zaino con tutta l’attrezzatura. Quando salivamo il Cir o il Ciampac, vedevamo passare i ciclisti del Giro d’Italia. Erano gli anni di Coppi, Koblet e Bobet, e ci meravigliavamo di come potessero salire con tutte quelle macchine davanti e dietro che in alcuni tratti alzavano tanta di quella polvere da avvolgerli e farli sparire alla nostra vista. I chiodi li faceva un mio amico fabbro, mentre un amico falegname mi preparava i cunei di legno. L’abbigliamento, non sempre tecnico, lo ereditavo dai miei fratelli che a loro volta lo avevano ricevuto da qualche parente.

In sintesi, guardando a quei tempi con gli occhi di oggi, l’attrezzatura era scomoda e pesante, i cunei di legno si rompevano continuamente, l’abbigliamento era poco impermeabile e le corde diventavano rigide al primo freddo. In compenso tutto era molto più selvaggio, da scoprire. Tante pareti vergini e tanto silenzio.

C’è qualcuno che riconosci come tuo maestro?
Era il 1947 quando iniziai ad arrampicare con i miei due fratelli maggiori, Willy e Sepp che diventò guida alpina nel 1960, ma il mio primo maestro è stato Hans Frisch di Brunico, noto, tra le tante salite, anche per la via del Gran Muro sul Sass dla Crusc che ha aperto con Reinhold Messner.

1953. Salendo sul Collalto.
1959. Sulla via Buhl alla Roda di Vael.

Nel 1959, per metterci alla prova, ha portato me e Sepp sotto la via degli Scoiattoli sul Monte Popena. Era stata aperta da Albino Alverà e Romano Apollonio nel 1942. Solo novanta metri, ma con difficoltà di VI in una costante verticalità. I primi salitori usarono ventidue chiodi, ma ne avevano lasciati solo sei e noi non pensavano che ci volesse tanto materiale. Come ti ho già detto, Hans voleva vedere cosa eravamo in grado di fare. Era notte quando lui uscì in vetta, mentre io e mio fratello fummo costretti a bivaccare una decina di metri più sotto. Così scese a Misurina e con il telefono di un albergo chiamò mia mamma, sempre molto apprensiva, per dirle che stavamo bene e che saremmo tornati il giorno dopo.

Oggi provo una grande emozione, ricordando il suo settantesimo compleanno. Era il 2000. In quell’occasione abbiamo scalato insieme la parete est del Watzmann e la parete sud del Dachstein.

Superato il periodo che potremmo definire formativo, nel tuo curriculum leggo di compagni di cordata come Dieter Hasse, Reinhold e Günther Messner, Luis Vonmetz, Christoph Hainz, Friedl Mutschlechner, Hans Kammerlander, Sepp Schrott, Othmar Zingerle e altri nomi forse meno conosciuti, ma non meno importanti…
Negli anni ’60 arrampicavo con Siegfried Hilber ed Ernst Steger. Eravamo una squadra molto affiatata.

Nell’inverno del 1962 ho effettuato con Siegfried Baumgartner la prima invernale della via Schranzhofer che sale lungo l’imponente spigolo nord della cima principale della Croda de Toni.

In quell’occasione, mia mamma, non vedendomi tornare, continuava a chiedere a mio fratello di andare a vedere. In quella salita abbiamo effettuato tre bivacchi in parete. Ad un certo punto, nell’apprensione di mia mamma, mio fratello fu costretto a chiamare il Soccorso Alpino che abbiamo incontrato quando ormai eravamo alla fine della discesa lungo la via normale. Io e il mio compagno di cordata non riuscivamo a capire la presenza degli uomini del Soccorso. Poi ci spiegarono.

Nell’inverno 1964 sono stato sulla parete nord della Cima Una delle Dolomiti di Sesto con Hilber e Steger e abbiamo effettuato la prima invernale della Weg der Jugend (Via della Giovinezza).

Inoltre, considera che ho iniziato molto presto anche a praticare lo scialpinismo. Era anche molto utile per l’avvicinamento per le scalate invernali. E ancora oggi è un’attività alla quale non rinuncio.

Sono riuscito a spaziare dal Monte Bianco all’Austria e anche all’estero ho fatto lunghe e bellissime traversate, oltre a salite per raggiungere la cima di bellissime montagne.

Il 1968 fu un anno particolarmente prolifico e d’inverno sono salito sull’Hochgall con Friedl Mutschlechner (1949-1991, forte alpinista altoatesino, considerato il maestro di Hans Kammerlander, NdR), lungo la cresta sud-ovest.

E poi, sempre in un giorno di quel fantastico 1968, Messner, come lui stesso ha raccontato nel suo libro Ritorno ai Monti, ti telefona e ti dice «Konrad, io saprei di una via nuova sulla Marmolada. Non posso più attendere … Puoi essere qui tra due ore?».
E ovviamente gli ho risposto che sarei arrivato subito.

Fino all’attacco sono venuti con noi anche i suoi fratelli minori, Helmut, oggi un noto pedagogo, e Hubert che è stato un apprezzato primario del reparto di terapia intensiva neonatale dell’ospedale di Bolzano.

1969. Durante il tentativo invernale sulla via Simon-Rossi sulla parete nord del Pelmo.
1997. Con Christoph Hainz tra le cime del Wadi Rum in Giordania.
1992. Sulla via dei Fachiri alla Cima Scotoni.

Quella volta siamo saliti velocemente fino alla cengia mediana, poi quando siamo arrivati ad un impressionante diedro-camino abbiamo rallentato, ma dopo un solo bivacco siamo arrivati in vetta.
Così è nata la Via dei Sudtirolesi sulla parete sud della Punta Rocca in Marmolada.

Poi, sempre con Reinhold, ho effettuato la prima ripetizione della Via Italo-Polacca sul Burel. L’abbiamo salita in due giorni, ma non abbiamo bivaccato in parete. Arrivati alla grande cengia siamo andati a dormire al rifugio VII Alpini. La mattina successiva, ripercorsa la cengia, abbiamo superato la parte alta della via.

Qual è stata la salita che ancora vivi come la più appagante di quei primi anni che in ampia parte sono stati esplorativi?
La Cassin alla Nord-est del Badile con mio fratello Sepp e gli Steger nel 1962. Montagna granitica che al solo vederla, regala grandi emozioni. Lì, l’arrampicata è veramente elegante tra diedri, fessure e placche. Era settembre ed è stata una scalata veramente speciale, di quelle che ti restano nel cuore e nella mente, ma purtroppo il ricordo si associa anche a un momento triste della mia vita. Ritornato a valle venni a sapere che il mio grandissimo amico, Sigfried Baumgartner, mio compagno durante l’invernale alla Croda de Toni, era morto a causa di un incidente con la motocicletta.

Mi hai regalato una storica copia della lettera che nel 1970 Reinhold e Günther Messner ti hanno inviato dal campo III del Nanga Parbat. Leggerla è emozionante, anche conoscendo tutte le vicende legate a quella spedizione.
Nel Natale del 1969, con Reinhold, Günther e un altro giovane del quale, mi dispiace, non ricordo il nome, ma ricordo bene che faceva l’operaio alla Fiat, ho tentato la prima ripetizione invernale della Simon-Rossi sulla parete Nord del Pelmo, ma dopo due bivacchi ci siamo dovuti ritirare.

In quell’occasione Reinhold mi propose di andare al Nanga Parbat. Ci pensai, ma dovevo anche lavorare, così declinai l’invito.

Poi sei partito anche tu…
La prima volta è stato nel 1974, quando sono andato in Argentina con l’intenzione di scalare l’Aconcagua, sempre con Reinhold Messner. Ci tengo a precisare che all’epoca, quando si partiva per una scalata extraeuropea, non era fondamentale arrivare in cima, ma lavorare tutti insieme perché la spedizione avesse successo.

Nel 1977 sono andato ad aiutare Reinhold nel posizionare il campo base del Dhaulagiri in occasione del suo tentativo alla parete sud con Peter Habeler.

Nel 1978, sempre con Reinhold, ho aperto una nuova via sul Kilimanjaro. Eravamo lì per accompagnare una coppia tedesca. Avevamo sentito del tentativo fallito degli statunitensi sul Breach Wall. Ci abbiamo provato e ci siamo riusciti.

L’anno successivo, sempre con Reinhold, sono stato in Algeria per arrampicare sull’Hoggar. Poi non mi sono più fermato. I vulcani del Messico e dell’Ecuador, il Monte Cook in Nuova Zelanda.

Nel 1984 sono tornato in Nepal per tentare il Dhaulagiri, sempre con una spedizione di Reinhold. Nessuno è arrivato in vetta perché a causa del maltempo ci siamo dovuti fermare a 7450 metri.

Poi nel 1985 sono stato sul Monte Kenya e in Perù con Mutschlechner, dove sono tornato nel 1989 per salire l’Alpamayo ed effettuare la traversata del Quintarajo e del Huascarán. Nel 1991 sono partito per il Cho Oyu dove sono arrivato in vetta e l’anno dopo allo Shisha Pangma, ma mi sono dovuto ritirare. Nel 1995 sono stato con Kammerlander sull’Ama Dablam.

Poi ho fatto molte altre esperienze, ma quelle che ti ho elencato sono sicuramente le più significative fino al 1997, quando sono andato in Giordania, nel Wadi Rum, con Christoph Hainz per scalare sulle pareti di vari Jebel (montagna in lingua araba, NdR).

1984. Al Dhaulagiri. Sullo sfondo l’Annapurna 1.

Hai scalato in Nepal, Bolivia, Tibet, Perù, Algeria, Nuova Zelanda, Argentina, Giordania, Ecuador, Patagonia, Messico, Venezuela, Etiopia, Kenya e Tanzania. Qual è la montagna, la scalata, ma soprattutto i luoghi e le persone che più ti sono rimaste nel cuore?
Nepal e Nuova Zelanda.
Nepal quando non c’era il turismo di oggi. Era tutto antico, la gente, i villaggi, e in particolare ho un bellissimo ricordo dei bambini.

La Nuova Zelanda perché si rimane senza fiato per le bellezze naturali. Valli alpine, foreste tropicali, spiagge, montagne glaciali, laghi ribollenti, fiordi, vulcani attivi e geyser. Ho salito alcune montagne, incluso il Monte Cook, che le popolazioni locali riconoscono come Aoraki, che in lingua maori significa “che trapassa le nubi”.

Non solo tanto alpinismo e di qualità, ma c’era anche il lavoro…
Avevo un negozio di alimentari, un negozio di articoli sportivi e un negozio di bevande. Quando è nato Tobias avevo cinquantacinque anni, finanziariamente ero tranquillo, così ho messo in affitto le attività per dedicarmi a lui. Quel periodo mi è proprio piaciuto! Quando Tobias raggiunse l’età di cinque anni lo guidai lungo la via normale della Cima Grande di Lavaredo.

Dal 1969 al 1980 sono stato sindaco del comune di Rasun-Anterselva e per 28 anni ho fatto parte dell’amministrazione comunale. E con orgoglio posso dire che durante il mio mandato come sindaco, su iniziativa di Paul Zingerle, abbiamo lanciato il biathlon ad Anterselva.

E negli anni ’80 ti sei dedicato al volo con il parapendio…
Sì, ma troppe sono state le fratture, così nel giugno del 1990 ho deciso di smettere per evitare di trovarmi con danni talmente gravi da impedirmi di arrampicare. Non avevo una sufficiente conoscenza della tecnica di volo, ma nonostante questo, ho fatto numerosi voli dal Grossglockner, dal Collalto e molto altro.

Sono certo di avere avuto un bravo angelo custode che volava accanto a me fino a quando ho chiesto troppo. Quattro incidenti in due anni. Frattura della parte posteriore della caviglia, ma continuavo a volare con il gesso, rottura della mascella e due fratture dell’omero. Finché ho detto basta.

1959. Hans Frish sulla via Franceschi alle Cinque Torri.

Oggi il tuo principale compagno di cordata è Tobias, tuo figlio. Che significato ha il legarsi in cordata con lui affrontando molte salite classiche, anche estreme, della tua gioventù?
Il 2017 lo considero il culmine della mia carriera alpinistica. Quell’anno ho salito con Tobias la Comici-Dimai sulla parete nord della Cima Grande di Lavaredo per festeggiare il mio ottantesimo compleanno. La prima volta ci ero stato nel 1960, erano passati cinquantasette anni. Quando ho raggiunto la vetta avevo gli occhi completamente bagnati dalla felicità. II vecchio padre con il figlio di venticinque anni. Ho dovuto farmi forza per iniziare la discesa. È stato un momento estremamente emozionante.

Uno sguardo sull’alpinismo del futuro?
Quando ho iniziato scalavo con scarponi e corda di canapa annodata attorno alla vita. Molte volte ho fatto risuolare gli scarponi perché prima di comprarne un paio di nuovi dovevano essere quasi distrutti.

Ho avuto la fortuna di sperimentare l’intero sviluppo dell’arrampicata, in particolare quello degli anni ’80, quando l’arrampicata in aderenza divenne possibile grazie alle nuove scarpette con la suola liscia che per la prima volta ho usato sulla Lacedelli (via degli Scoiattoli) alla Cima Scotoni. Fu Friedl Mutschlechner a farmele provare, ma mi erano troppo piccole e provai un grande dolore nel calzarle, però questa nuova sensazione di aderenza mi portò in una nuova dimensione. Poi è arrivata l’arrampicata libera che è cresciuta con una visione sempre più sportiva che non fa parte del mio vivere una scalata. Le prestazioni di oggi sono indubbiamente sorprendenti e ammiro le scalate dei nuovi campioni, ma nello stesso tempo vedo un eccessivo crescere di itinerari esageratamente chiodati, fino a diventare troppi.

1962. Durante l’invernale sulla parete nord-ovest della Croda dei Toni.
2017. Con Tobias dopo la ripetizione della Comici-Dimai sulla parete nord della Cima Grande di Lavaredo per festeggiare l’ottantesimo compleanno.

Nel 1968, Reinhold ha sfondato una porta parlando de L’assassinio dell’impossibile, affrontando l’argomento delle direttissime, le «vie a goccia cadente», criticando le forzature della linea retta che non rispettavano la conformazione della montagna. Quando, anche se una fessura continuava più a sinistra o più a destra, gli scalatori proseguivano diritti come un carpentiere, piantando una sequenza di chiodi a pressione. E dichiarava quello che ho detto prima «C’è sempre meno esplorazione, si sta perdendo il senso dell’avventura, tutto è finalizzato alla difficoltà, alla somma dei singoli passaggi». E stiamo parlando di 55 anni fa. Alla mia epoca, la mia idea fissa era quella di arrivare in vetta, cercando di raggiungerla sfruttando i punti deboli della parete. Non andavamo dritto per dritto. Così, dopo l’evidenziarsi di un positivo periodo, estremamente etico come quello degli anni ’80, dove l’utilizzo dei chiodi era minimo anche grazie ai nuovi strumenti che arrivavano dalla California, adesso è un continuo sforacchiare calandosi dall’alto e poi provando e riprovando dal basso.

L’aspetto agonistico dello scalare ha scalzato quello esplorativo. In certi casi si può ancora parlare di alpinismo? Mah!

A questo punto, in poche parole la tua definizione di montagna e di alpinismo…
Per me la montagna è un territorio di pace, dove puoi vedere, ma soprattutto ascoltare la natura, e sono convinto che per poter capire fino in fondo quello che vedi e ascolti, hai bisogno della fatica che ti porta fino a lì, e più pesante è questa fatica, più appagante è il vivere questi luoghi.

Il fascino dell’arrampicata è migliorare le tue abilità per padroneggiare itinerari difficili, ma oltre alla salita, mi affascinano i dettagli regalati durante il percorso, tante piccole meraviglie. La luce, il vento, il silenzio, l’imponenza di una parete, ma ci tengo a dire che se ho potuto vivere serenamente e senza sosta questa mia passione, lo devo a Martha, mia moglie, che ha sempre capito e sostenuto questo mio bisogno.

Martha dice che gli alpinisti sono degli egoisti. Io rispondo che un alpinista è la persona migliore tra gli uomini, ma poi rifletto e penso “forse ha un po’ di ragione”, e allora ti dico che un po’ mi vergogno perché ho goduto tanto alpinismo anche per il mio essere egoista.

Sono orgogliosamente un alpinista, ma preferisco essere riconosciuto come una persona che ama profondamente la montagna, soprattutto la natura con le sue diversità, godendo di tutto quello che si presenta nel variare delle stagioni.

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La chiacchierata si conclude con Martha che arriva con altre due squisite torte, ma la giornata è particolarmente bella, così, caricati gli zaini in spalla, saliamo sulle Vedrette di Ries con Konrad che continua a meravigliarsi e a godere del variegato colore dei massi, delle tonalità del verde, del rosso e giallo dei fiori, di montagne che si specchiano sui laghetti d’alta quota.

Abbiamo il Collalto alla nostra destra, una montagna che per Konrad è casa, e lui continua a fotografarlo. Con un po’ di ironia, gli chiedo quante volte in 76 anni di scalate ed escursioni ha raccolto immagini di quella montagna. «Migliaia e migliaia e sicuramente non ne ho bisogno, in tutti questi anni ne ho colto ogni attimo in ogni stagione e alcune sono identiche tra loro», mi risponde sorridendo, «ma più che altro lo faccio per una questione di rispetto, un ossequio alla sua presenza in questi luoghi e nella mia vita».

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Konrad Renzler ultima modifica: 2024-04-22T05:39:00+02:00 da GognaBlog

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6 pensieri su “Konrad Renzler”

  1. Je partage les mêmes sentiments que Giuseppe Penotti !
    Etre optimiste envers et contre tout !

  2. Konrad Renzler a parte una piccola vocale  è l’anagramma perfetto di K.Lorenz; padre dell’ etologia ,bello immaginarlo e con merito padre-maestro dell’ etica(Alpina) ,termine anche questo che assomiglia nel suono più che nel significato all’etologia. 
    Mi scusate la variante  vero!?
    A parte gli scherzi Super Chapeau alla lunga ascensione della sua vita e soprattutto al modo!

  3. Persone toste dalla pelle dura.
    Sarebbero degli ottimi “istruttori”…avrebbero tanto da trasmettere.
    Ma più come nella figura dell’istruttore, lo vedo come un “maestro” .

  4. Caro Giuseppe, io, se fossi in te, quasi quasi aspetterei di aver compiuto  ottantun anni.
    Cosí, giusto per battere il primato.
    😀

  5. Anche questo è un bellissimo articolo su una figura che non conoscevo.
    E poi…la Comici Dimai a ottanta anni, mi lascia qualche speranza….

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