Presentazione
di Costantino Piazzo
(pubblicato su Scandere 1979)
A vent’anni decide di darsi alle discese estreme e va a misurarsi con il Couloir des Italiens alla Grande Casse. Solo. Fedele all’etica che si è imposto risale la parete prima di intraprenderne la discesa portandosi gli sci sul sacco. Dall’alto al basso la prospettiva è scoraggiante e ci vuole tanto, tanto coraggio a lanciarsi sul pendio… una scivolata e vai: è fatta.
Inizia così la carriera di Stefano De Benedetti come sciatore estremo, tutto da autodidatta. Subito dopo al Couloir Gervasutti per prendere le misure con l’alta montagna. «Stringi di più le gambe» gli gridava Anselme Baud dall’alto del canale, ma lui non poteva sentire tutto preso nei suoi problemi sull’imbuto di ghiaccio. Dopo sono venuti i successi di questa estate (vedi sua attività qui sotto). Alto, longilineo, di taglia atletica, severo con se stesso nell’imporsi la disciplina degli allenamenti, si cimenta sulle discese “per pochi” per puro spirito sportivo. Non ha mai usufruito di mezzi artificiali di risalita, arricchendo le sue imprese di una purezza di stile esemplare. Eppure non è una macchina: nei due pezzi che ha voluto scrivere per Scandere ci dà la dimensione della sua sensibilità e della sua formazione culturale; ed anche della serietà di una impostazione che riteniamo una delle più fresche e gradevoli sorprese del nostro panorama alpinistico.
Lettura: spessore-weight(2), impegno-effort(1), disimpegno-entertainment(2)
La Est del Rosa
di Stefano De Benedetti
(pubblicato su Scandere 1979)
Sci estremo
Mi ha sempre meravigliato la vitalità di una disciplina la cui fine è stata spesso preconizzata dopo qualche grande impresa. L’alpinismo, inteso più come sport che come attività esplorativa, si è sempre saputo rinnovare, agendo di volta in volta su qualcuno dei numerosi parametri che ne compongono il limite. Proprio perché considerato come gioco è sufficiente cambiarne alcune regole per poterlo reinventare tutto. Penso che al pari di me, il desiderio di molti alpinisti sia di trovare nelle Alpi, montagne di casa, un terreno vergine dove potersi esprimere creativamente. Oggi ciò è possibile più di qualche anno fa in quanto è più diffusa la coscienza che questo limite, a differenza di altri sport, è ancora lontano. Anche per questo si assiste a un rifiorire delle due tipiche specialità alpine: arrampicata e ghiaccio. Ed è in questo contesto che si inserisce lo sci estremo e la condizione favorevole in cui si trova. Solo dieci anni fa quasi tutti i canali e le pareti ghiacciate delle Alpi non conoscevano gli sci. Anche oggi, malgrado l’intensa attività, molto resta da fare, anche se i problemi sono talvolta meno evidenti. Lo sci estremo ha subito in Italia come all’estero notevoli distorsioni: queste sono dovute da una parte a una eccessiva amplificazione pubblicitaria, dall’altra alla disinformazione e alla ricerca del sensazionale di alcuni organi di stampa. Se a questo si aggiunge la necessità dell’industria di creare dei campioni si capirà perché molte imprese, anche tra gli alpinisti, sconfinano nel mito. È quindi necessario un recupero della giusta dimensione, anche umana, di questo sport. Esso si inquadra nella precisa evoluzione storica dello scialpinismo dal quale deriva anche un’importante componente dell’etica della maggior parte dei praticanti: la volontà di fruire solo dei propri mezzi. Risalire a piedi, portare la propria attrezzatura, ridurre al minimo l’appoggio esterno è quasi sempre considerato imperativo. Da questo la necessità di una buona preparazione alpinistica. In comune con l’alpinismo e in particolare quello solitario, sono anche le motivazioni. Da un punto di vista umano, esiste, più che la prestazione eccezionale di un individuo dotato, un’importante relazione di causa ed effetto tra l’allenamento, la spinta psicologica e i risultati.
L’apertura di articolo su Scandere 1979: Roberto Bianco in discesa dal Grand Lui
Sono certo che allo stadio attuale, che è di esplorazione delle possibilità dello sci su pendenze elevate, discese molto ripide siano accessibili a chiunque lo voglia con determinazione. In Francia infatti esistono un buon numero di praticanti a livello medio (45° – 50°) benché, a causa del rischio, dell’impegno necessario e di alcuni incidenti (valanghe) ai vertici rimangono pochissimi.
La diffusione ha provocato una notevole accelerazione nell’evoluzione cosicché in pochi anni si è passati da discese svolte su piani omogenei, come la Ciamarella o lo sperone della Brenva, a discese più complesse come itinerario e variazioni della neve e con lunghi tratti ripidi (55°-60°). La parete nord dell’Aiguille du Midi e la via Major sono esempi di questa tendenza.
La tecnica è in funzione della neve, per questo è normalmente preferito l’inizio stagione in cui è più facile trovare le pareti in condizione: 10/20 cm di neve fresca ben saldata agli strati sottostanti.
Vi è infatti molta differenza tra un appoggio basato sull’intera soletta dello sci e una semplice tenuta di lamine (neve dura o ghiaccio). Il movimento è basato sulla necessità di assorbire e quindi controllare l’energia cinetica sviluppata durante gli istanti in cui il corpo ruota per aria. Durante la curva sarebbe infatti controproducente mantenere gli sci a contatto col pendio su pendenze superiori a 50°.
Monte Bianco. Stefano De Benedetti nel Grand Couloìr della via Major, 7 settembre 1979
Il maggior lavoro spetta alla gamba a valle, anche se il baricentro è spostato a monte, per evitare di rovesciarsi nel caso di incontro con un ostacolo improvviso. Al termine della curva entra in gioco l’elasticità degli arti inferiori, ottenibile solo con allenamenti specifici su terreno sconnesso. Al di là del fatto tecnico ritengo però che siano importanti le implicazioni umane e sociali di questi exploit. Mi sembra che lo sci di massa, come è impostato nelle nostre stazioni sciistiche non faccia che riprodurre, su scala diversa, certe situazioni cittadine da cui si vuole evadere. Le lunghe code agli ski-lift, i litigi, la ripetitività delle discese storpiano il significato di evasione e la carica di libertà di questo sport. Una discesa su terreno vergine, la bellezza della ricerca di un proprio itinerario, possono indicare, a chi ancora non sa, nel fuoripista e nello sci alpinismo, una maniera diversa di viverlo.
Certo lo sci estremo, che da questo prende le mosse, è una disciplina che, come l’alpinismo, se vissuta in maniera esteriore ed esibizionistica, cade nell’impasse tipica di ogni attività legata al singolo: un individualismo esasperato e la strumentalizzazione a fini del tutto personali. La meditazione dei lunghi momenti in solitudine, il confronto con il pericolo, la violenza delle sensazioni, tanto più forti in quanto concentrate in un tempo breve, tutto ciò fa sì che esista un’altra strada, più costruttiva. Anche questo aspetto rientra in un quadro di rivalutazione dell’uomo fine e non mezzo, ormai necessaria ovunque.
Un amico
Fu durante una notte d’inverno, spigolando su come inventare l’estate che nacque il sogno. Bastò una fotografia e una storia. Nacque in un soffio e prese forma piano, perché sembrava irraggiungibile. Sarei stato sulla Est del Rosa, la più alta parete delle Alpi. Avevo così un obiettivo, qualcosa per muovermi e tutto sarebbe stato per arrivare a quello. Mi preparai a lungo, correvo sempre, quasi non vedevo più nessuno e a chi chiedeva della mia scomparsa non rispondevo. Avevo un segreto. Per mesi macerai il mio sogno finché incontrai Gianni Comino.
Forte di quella nuova amicizia sapevo che sarei riuscito. Insieme avevamo un segreto. Sciavo giorni interi nei boschi, esasperando la sensibilità al terreno, cercando di vedere sotto la neve. Gli ultimi tempi, quando ormai grandi chiazze d’erba mi costringevano a larghi giri, molti dei miei piccoli amici, scoiattoli, camosci e anche una piccola volpe, non si spaventavano più. Alla fine andai in tenda a Cogne con Andrea. Salii e scesi, più che altro come allenamento la Nord-ovest della Grivola alta 1400 metri, in compagnia di Gianni e di tanti amici. Dopo di ciò avvertii da chiari segni che ero pronto. Tutto fu annullato. Mi disposi in una condizione mentale di serenità, perché potessi attingere finalmente a quanto messo da parte.
Avvertivo però di non essere ancora ben acclimatato. Troppo lungo era stato l’inverno passato in riva al mare. Ma sapevo che sarei salito, perché se non altro volevo dare veramente molto, senza riserve. Dopo un giorno di riposo partimmo da Cogne al mattino, passando da Torino a prendere Gianni; viaggio scomodo ma ricco di speranze. Nel pomeriggio eravamo a casa di Luciano Bettineschi, grande guida del Monte Rosa, accolti fraternamente. Considerati un po’ pazzi da tutti, la qualcosa mi impressionò non poco, prendemmo subito la seggiovia e da qui, a piedi, sulla morena. Ciò che segue lo rivedo come fosse ora. Alla Zamboni abbandoniamo Andrea, triste, che ci guarda e saluta. So bene i rischi cui andiamo incontro ed è per questo che sento ora più forte di volergli bene. Mentre l’avventura comincia mi pesano le cose non dette. Sarà solo dopo, quando le ombre cominciano ad allungarsi e il freddo a spargersi sui crepacci che avverto con pena la nostra situazione di solitudine. Naufraghi, Gianni mi conduce alla ricerca di un passaggio, lo guardo in alto e, nella meccanicità dei gesti, penso.
A mezzanotte siamo sul terrazzino a metà parete, l’inizio delle grandi difficoltà. Su queste pietre sentiamo come tutto sia irreale e lontano, come sospeso in un mondo senza tempo. È sceso un buio impenetrabile mentre in lontananza, più bassi, lampi lunghissimi illuminano le città addormentate. Tristi bagliori per noi.
Monte Bianco. Stefano De Benedetti nella parte alta della via Major, 7 settembre 1979
Dobbiamo fare in fretta: in velocità per diminuire il pericolo. È vitale non scendere tardi al mattino; anche se dovessi incontrare neve più dura sarebbe senz’altro meglio di una parete in movimento. È ancora notte quando Gianni si spinge tra i seracchi e sbuchiamo sul “lenzuolo”. Io mi spavento: si intravvede un pendio ripidissimo che si perde contro un seracco al centro parete. Come sempre salendo, quelle linee verticali si dispiegano e vediamo il passaggio ma, soprattutto, l’abitudine all’inclinazione la rende più accettabile. Risento dell’altezza solo più in alto andando sul lungo traverso in diagonale. A 4500 metri mi gira la testa, sento la fatica e temo di non poter scendere. Grazie a Gianni, che mi è vicino, dopo qualcosa di caldo posso iniziare le prime curve. Sono cosi stordito che devo limitarmi a delle piccole serie di tre. Prendere fiato e cercare di tirare la concentrazione che se ne va, incoraggiandomi ad alta voce. Il lunghissimo traverso si svolge tutto sulle lamine e immette nel canale accanto al seracco che è il più ripido. All’improvviso, però, la cappa si solleva e ritrovo un po’ di forza. Durante le soste mi sono utilissimi i becchi di martello con cui sono costruite le mie racchette. Non per questo sono meno faticose perché a una tensione costante si aggiunge sempre la contrazione dolorosa dei muscoli. Già da qualche tempo minuti cristalli di ghiaccio mi cadono accanto, segno che Gianni sta scendendo. Appare dopo poco, piccolo contro il cielo. Sto appunto scavando una piazzuola per gli sci quando dalla parete sopra di lui, per effetto del caldo, si stacca una lunghissima stalattite. Una mano mi dà una spinta e scivolo in diagonale incidendo il pendio, in alto Gianni si muove velocissimo ma non basta. Schiantandosi sulla china la colonna si frantuma in pezzi che rotolano in tutte le direzioni. Muovendosi sulla punta dei ramponi, la piccozza in alto, egli scansa i massi da una parte e dall’altra ma uno degli ultimi, proprio mentre si sta ristabilendo, punta dritto su di lui. Mentre io lo do già per spacciato e impietrito non riesco a scuotermi, torce il busto e con tutta la forza colpisce il masso di ghiaccio con la piccozza. Rumore di metallo, schegge dappertutto, ma è ancora in piedi. Il resto è senza storia. In un canalino di misto, giro aggrappandomi alle rocce. Poche ore ancora e ci ricongiungiamo. Vedo da lontano dei volti sorridenti, ancora pochi metri e siamo tutti insieme. Gianni e io ci stringiamo a lungo ed è in un abbraccio, in una amicizia meravigliosa il senso di tutto questo.
Per ulteriori informazioni, https://gognablog.sherpa-gate.com/stefano-de-benedetti/.
Attività di Stefano De Benedetti
1977
12-8 – Grande Casse, parete nord, Couloir des Italiens, 1a ripetizione.
16-8 – Punta Ramière, parete nord, con E. Bollero, 1a assoluta.
24-8 – Uia di Ciamarella, parete nord.
2-9 – Punta del Gelas di Lourousa, Canalone di Lourousa.
9-9 – Ciarforon, parete nord.
23-9 – Tour Ronde, Canale Gervasutti.
26-9 – Mont Blanc du Tacul, Canalone Gervasutti.
12-10 – Monte Argentera, Canalone della Forcella, 1a ripetizione.
1978
primavera – Roche Blanche, parete ovest, 1a assoluta.
primavera – Brec di Chambeiron, canale nord, 1a assoluta.
24-4 – Pizzo di Cassandra, parete ovest-nord-ovest, 1a assoluta.
3-8 – ore 8, Becca di Monciair, parete nord; ore 11, Ciarforon, parete nord.
10-8 – Gran Paradiso salita per via normale, discesa in sci dalla parete est; risalita la parete, discesa in sci per la parete nord-ovest, via Bertolone.
20-8 – Monte Bianco, Sperone della Brenva.
1979
15-4 – Aiguille Verte, Couloir Couturier.
3-6 – Monviso, Couloir Coolidge, 2a ripetizione.
30-6 – Grivola, parete nord-ovest, 1a assoluta.
1-7 – Monte Rosa, parete est, via dei Francesi, 1a assoluta.
15-7 – Aiguille de Trélatête, via nuova in salita e discesa, 1a assoluta.
17-7 – Petit Mont Blanc, canale nord, 1a assoluta.
25-7 – Roccia Viva, parete nord, 1a assoluta.
7-9 – M. Bianco, via Major, 1a assoluta.
Un chiaro esempio di etica pulita e di forte innovazione con grande rispetto della storia dell’alpinismo.
Grande Stefano! Se sono diventato guida alpina è stato per “colpa” sua.