La felicità in montagna

Dal al 7 al 9 settembre 2018, alla Triennale di Milano, si è svolto Il Tempo delle Donne, organizzato dal Corriere della Sera: il tema era “la felicità, adesso”. La giornalista Cristina Marrone ha voluto che oltre a Tamara Lunger e Licia Troisi ci fossi anch’io a parlare della felicità in montagna.

La felicità in montagna
(relazione di Alessandro Gogna)

Cristina Marrone: Sentiamo sempre più spesso parlare della montagna come il luogo dell’impreparazione, dell’infradito sul ghiacciaio, della chiusura degli itinerari più mal frequentati come quello della via normale francese al Monte Bianco; ma anche come il luogo di ripetitivi su e giù da un impianto all’altro per consumare giornate senza storia. Questa montagna dà felicità?

A.G.: Bisognerebbe chiederlo a loro, a quelli che vedono la montagna a quel modo, come una merce di consumo. Temo però che la loro risposta non sarebbe orientata a quello che è la nostra domanda. Ci sono molte persone che “non sanno quello che fanno”…

Io ho cominciato ad andare in montagna da bambino, in Valsugana, Trentino. Ho cominciato da solo. Quelle poche volte che riuscivo a trascinare i miei con me, c’era sempre bisogno di allettarli, andare alla tal malga per poter comprare del buon burro e del formaggio. Ben muniti di sacchetti vari per poter depredare il bosco di tutto, dalle fragole ai lamponi, dai mirtilli ai funghi. Non che queste cose non mi piacessero, anzi. Semplicemente non erano l’argomento della mia ricerca. Ovviamente, con i miei otto o nove anni, non mi facevo questo tipo di domande. Domande che mi sono fatto invece tanto tempo dopo. Volendo fare un sunto di quella che è stata l’esperienza di una vita, la mia, direi che, se vogliamo parlare di felicità, occorre distinguere quella felicità vibrante, con basi filosofiche o spirituali, dalla “soddisfazione”. Due cose molto differenti, ma facili da distinguere. Per poter capire quale delle due sto vivendo credo basti che io mi domandi: “ho una meta o non ho una meta?”.

In genere si ha quasi sempre una meta, anche nelle giornate più semplice, senza alcuna intenzione di fare alcuna impresa. Alla conclusione, sarai soddisfatto se hai raggiunto la tua meta, poco o nulla soddisfatto se non l’hai raggiunta (in un secondo tempo questa valutazione può anche mutare). Con ulteriori riflessioni e rielaborando l’esperienza magari il giudizio può cambiare, ma sul momento, se non si raggiunge la meta, non solo non si è felici, ma neppure soddisfatti. La felicità invece non va ricercata tramite una meta: va ricercata per se stessa. E’ lei la meta.

Alessandro Sala: Tu sei fra i fondatori di Mountain Wilderness, un’associazione che si prefigge la difesa e la conservazione dell’ambiente montano, soprattutto cercando di diffondere la cultura del rispetto. Dopo questi più di trent’anni di attività, sei in grado di fare il punto della situazione?

A.G.: Mountain Wilderness continua la sua lotta a tutto campo. Lotta che vedo sempre più interna a noi. Non credo che risolveremo il problema culturale cercando di inculcare ai bambini principi che noi quotidianamente disattendiamo, oppure tentando di imporli tramite il proliferare di leggi. Mi trovo a credere sempre meno a un sociale taumaturgico e risolutorio. Credo invece che la via sia soprattutto interiore: e si comincia dai primi esempi, quelli dei genitori, poi quelli degli amici, al fine di dare TU stesso un esempio. L’associazionismo, anche quello di Mountain Wilderness, è un punto fermo di cui sono tuttora garante internazionale. Ma se negli anni Ottanta avevo fiducia cieca in questo strumento, oggi questa fiducia è sminuita di fronte al problema dell’interiorità. Pur senza porre le due cose in antagonismo, anzi, io credo molto di più nel cammino che deve fare l’individuo. Un cammino che nulla vieta sia fatto assieme ad altri, ma dando sempre importanza all’esempio che si dà con il proprio agire che dev’essere coerente con quanto si “predica”.

Cristina Marrone

Felicità è anche questo. Essere a contatto con la natura (se poi parliamo di montagna magari è anche più facile, per via dell’altezza), cercare questo contatto in alto, in basso, nel mare, in montagna, nelle grotte. Con molta esperienza si può trovare il contatto anche se si è in una bolgia di persone.

C.M.: Cosa accomuna il professionista al dilettante? Perché in effetti entrambi pare ricerchino la felicità quando dicono che “gli piace”. E così fa anche un bambino, o un anziano per quello che può fare.

A.G.: Bambini e anziani sono i più facilitati, secondo me. Forse perché loro cercano la felicità e basta, non necessariamente la felicità nella natura. E qui ritorno alle mete: la nostra società spinge l’adulto a una continua serie di mete, che invece bambini e anziani non si pongono.

Non voglio qui sostenere che le mete non siano buona cosa, anzi. Sostengo però che servirebbe ogni tanto staccarsi dalle esigenze che comportano le mete. Se queste diventano soverchianti si cade in un meccanismo che allontana la felicità. Si rischia di non accorgersi che quando si arriva su una vetta, raggiunta magari con sofferenza e fatiche improbe, si è soddisfatti ma non felici. Se il “nirvana” del fine sofferenza dura solo un minuto, è certo che non è felicità, che invece dovrebbe essere una modalità non voglio dire costante ma certo abbastanza frequente e duratura. Per me, perso in quel meccanismo, era così. Sarò stato un caso clinico? Ma la riprova era che già il giorno dopo io stavo programmando qualcosa d’altro. Non sto criticando questa che vedo come normalità nella nostra cultura, la sto solo constatando.

C.M.: Ci sono visioni diverse tra la cultura occidentale e quella orientale?

A.G.: Oggi meno di un tempo. Se viaggiamo in Oriente, Cina, India, Cambogia, Thailandia o altro ci rendiamo conto che la gente si arrabatta esattamente come noi, in qualche caso anche peggio. Certo ci sono maggiori eccezioni, persone che si distaccano dalla confusione. Noi abbiamo il mito del santone tibetano che contempla la montagna, immobile nella sua posizione del loto. Lui è la montagna, si è fuso con lei. Si è fuso con la meta, è la meta. Da noi, pur nell’esigenza di riunione con la natura, l’esempio del santone tibetano è irraggiungibile, quasi inconcepibile. C’è il rischio, per chi ne è tentato, di ritrovarsi completamente isolato dal resto della società.

A.S.: In montagna ci si saluta, è spontaneo e naturale. In città no. E’ perché siamo più felici?

A.G.: Vero, la montagna ti offre moltissimi spunti che non vai neppure a ricercare. Quando vivi questi spunti, scopri che è lì che potresti trovare la felicità. Sono piccoli episodi, in genere. Non sono eventi di cui possa occuparsi giornale o la televisione. Vi racconto una storia senza pretese: mio padre aveva una grande passione per la raccolta dei funghi, spesso andavo con lui nei boschi vicino a Bieno, in Valsugana. Sapevo che a lui faceva piacere e io mi adeguavo: di certo c’era grossa soddisfazione a trovare qualche bel porcino. Però sapevo che passare le mie giornate alla ricerca dei funghi non era il mio avvenire, qualche volta mi sapeva un po’ di costrizione andare con lui. Molti anni dopo, mi trovavo in un bosco della Valle di San Nicolò, feci un esperimento che mi dette grande gioia, anche se subito era sofferenza. Alla vista di un porcino stupendo, di quelli grossi e sani, decisi di non raccoglierlo… Mi sembrava di essere uno stupido. Non si trattava di “rispetto della natura” o di altre giustificazioni: l’avrebbe di certo raccolto qualcun altro, per quello io soffrivo, per il “bottino” mancato. Non era ecologia, era voglia di sperimentarmi, farlo a mie spese. La sofferenza immediata è stata grossa. Però poi ho capito quanto siamo condizionati dal raggiungimento di un obiettivo. Perché in effetti cogliere funghi per riempire i nostri canestri è un obiettivo. E anche molto bello!

Tamara Lunger

C.M.: Un’ultima cosa: oggi cosa possiamo fare per aiutarci a rispettare di più la montagna?

A.G.: Rispondo alla tua domanda riallacciandomi a quanto dicevi all’inizio sulla chiusura della via normale francese di salita al Monte Bianco, che in effetti è un disastro perché presa d’assalto da centinaia e centinaia al giorno. Accade anche che in questi ultimi anni la via normale italiana sia diventata più difficile per via del ritiro dei ghiacciai, dunque sul versante francese si riversano proprio tutti. Vengono dal Giappone, dalla Cina, da dove volete. Si pongono la meta e la raggiungono. La moltitudine crea però grandi problemi. Io non sono favorevole a divieti di questo tipo, per ordinanza comunale: credo che dovrebbe essere impostata un’operazione culturale a questo proposito, anche a Chamonix, non solo nelle città. Si tratta di sostenere che in fin dei conti il Monte Bianco è la meta più scontata, che il turista merita qualcosa d’altro, deviare l’attenzione insomma. A favore di altre montagne nelle vicinanze, di altre esperienze. Naturalmente questa è una mia proposta, che non voglio certo imporre. Resta che la salita al Monte Bianco per quella via è priva totalmente di fantasia: è una meta che ci hanno suggerito gli altri, una moda. E’ lo stesso fenomeno dell’Everest, che è la montagna più alta del mondo, dunque tutti pongono su di lui le proprie ambizioni, i propri sogni. Le montagne appena più basse non contano, anche se più difficili, e non sei “nessuno” se ne sali una. Messner oggi ha detto a più riprese che salire l’Everest oggi è più alpinismo, è “turismo d’alta quota”. Magari è un po’ esagerato, ma coglie nel segno. Alla fine io credo che si debba rivalutare la fantasia: se cerchi la felicità con le mete derivate dagli altri e non dalla tua fantasia hai già perso in partenza. Al massimo potrai ricavare soddisfazione.

Dal pubblico: Qualche decina di anni fa tu hai compiuto prime e prime invernali di alto livello, eri insomma all’altezza di quello che fanno oggi i campioni dell’alpinismo come Simone Moro o Tamara Lunger. Data la forte motivazione che ti spingeva, qual era a quel tempo il tuo rapporto con la felicità e con la soddisfazione?

A.G.: Il mio rapporto con la felicità era pienamente inserito nella logica del successo e del raggiungimento delle mete che mi ponevo, né più né meno. Le considerazioni che faccio oggi sono il risultato, buono o cattivo, di una vita di emozioni e delusioni. E non tornerei indietro affatto. E se avessi a che fare con qualche giovane che magari mi chiede un consiglio non cercherei di spingerlo verso la ricerca della felicità senza prima traversare l’oceano della meta e della soddisfazione/delusione.

In almeno due occasioni ho avuto soddisfazioni enormi, non tanto per l’importanza di ciò che avevo appena fatto, quanto piuttosto perché al raggiungimento di quella mia meta ero invaso dalla sensazione di “averne ancora”… la convinzione che poteva anche non finire lì l’avventura, perché comunque avevo ancora energie in serbo. Non avevo raggiunto il mio limite, se fosse successo ancora qualcosa di imprevisto avrei avuto ancora la forza di continuare. In altri casi questo non si è verificato perché sono arrivato “steso” alla fine. Ma in entrambi i casi io non posso parlare di felicità, che può rimanere a questo punto un’utopia, a meno che non prendiamo in considerazione le piccole cose, quelle che, ho detto prima, sono inaspettate e ti danno lo spunto alla felicità.

Licia Troisi

Dal pubblico: Riportando il discorso sul tema difesa della montagna, è possibile che nel 2018 non si riesca a fermare i progetti svizzeri di devastazione megalomane della zona del Plateau Rosa?

A.G.: Le peggiori atrocità succedono proprio quando “tutto è in regola”, certificazioni, valutazioni d’impatto, ecc. Gli svizzeri avranno di certo le carte in regola, non è un arrembaggio all’italiana. Ma il disastro è garantito comunque e i progettisti non potranno mai essere attaccati e neppure fermati perché non si avranno appigli legali. Loro stanno lavorando su un progetto la cui gravità supera di molto ciò che è stato fatto in anni passati a Cervinia. Naturalmente ti sventolano che a Zermatt le auto non possono circolare, neppure arrivare. Ma, a questo punto, non so se mi basta più… Manca la coerenza: per certi versi l’amministrazione comunale di Zermatt è avveniristica in positivo, ma per altri è quanto di peggio si poteva concepire ai danni del povero Klein Matterhorn con annessi Colle del Breithorn e Plateau Rosa.

Quanto al ciò che si può fare per fermarli (strumenti legali, movimentazione dell’opinione pubblica, ecc.) è solo questione di chi possiede altoparlanti più potenti. Non passa giorno che io sul mio modesto GognaBlog non denunci situazioni di questo tipo. Quando mi leggono 2-3.000 persone sono già contento, ma sono poche, e sono sempre le stesse.

In questo momento l’Alpe Devero è minacciatissima. Ne sentite parlare? Qualcuno ne ha accennato in televisione? No! Perché invece sui giornali e in televisione va a finire una maledetta ciclabile che vorrebbe unire Limone del Garda a Riva: la parte costruita finora e funzionante è ancora per fortuna ben lontana dal compimento, ma ciò che è stato costruito è un disastro a spese della scogliera naturale della Gardesana Occidentale, un’invasione forzata con pochi precedenti. Ma siccome è una “ciclabile” allora tutti giù ad osannarla, senza sapere, senza comprendere. Scavo nella roccia in alcuni tratti, in altri putrelle a sbalzo per un percorso sospeso su un danno irreversibile. Ne hanno parlato davvero in tanti, con nessuna voce critica. Il Sole 24 Ore ha lodato l’opera come se l’Italia stesse finalmente andando incontro a una nuova dimensione ambientale! Vi devo però dire che dieci giorni fa hanno chiuso tutto perché la ciclabile è stata intere da una frana. Ma attenzione, è facile adesso dire dire “beh, forse non andava fatta!”. A me non interessa chiuderla perché è pericolosa. Mi interessa che non venga costruita perché quel luogo deve salvaguardare l’integrità che gli resta.

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La felicità in montagna ultima modifica: 2019-03-25T05:09:03+01:00 da GognaBlog

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