La felpa verde

La felpa verde
(qualcosa da raccontare)
di Marcello Cominetti

Si diventa Guide Alpine perché si è prima alpinisti drogati di cime e pareti. Si sceglie la strada del professionismo per vivere della propria più grande passione. Col trascorrere del tempo molte cose cambiano significato. La montagna non è più l’evasione dalla vita di tutti i giorni perché diventa lei la “vita di tutti i giorni”, l’ufficio o la fabbrica a cui ci si reca per sbarcare il lunario, come succede per la maggior parte delle persone. Si è costretti a mercificare un elemento naturale nobile come la montagna in cambio di soldi, perché purtroppo di quello si vive e vive la tua famiglia. La montagna, o più giustamente la natura, la devi però sempre amare, rispettare, volere attraversare e vivere.

Quando si lavora si deve mettere la passione da una parte e mettere davanti a tutto la responsabilità che si ha verso la cordata, il gruppo o la squadra per salire una cima difficile e pericolosa, tanto quanto per accompagnare una famiglia a spasso per prati. Si naviga profondamente nella relatività delle cose.  

Spesso si risulta freddi, antipatici e poco poetici, ma in verità non è vero che lo si è neppure quando si prende una decisione che può sembrare inopportuna e l’esperienza ti insegna a portare il più delle volte la pelle a casa, che è molto più importante di ogni gloria che si può raccogliere al ritorno da un’impresa o una gita felicemente riuscita. Questo concetto risulta spesso incomprensibile al dilettante, ma per un professionista è la regola numero uno.

Ho fatto e continuo a fare la guida quando posso anche su alcune delle montagne più difficili del mondo, nelle zone più complesse da raggiungere dove serve l’indipendenza totale. Preferisco la complessità alla notorietà, se posso scegliere. Sono convinto che l’alpinismo sia una forma di egoismo applicato a una delle massime espressioni di libertà. Ma non perché gli alpinisti siano liberi, ma perché oggi che viviamo perlopiù globalizzati e come i polli in batteria negli allevamenti, ogni forma di evasione rappresenta la libertà che a ogni essere vivente è indispensabile. Per questo andiamo anche in montagna.

Ho una felpa verde scolorita dal tempo e da tutto il sole che ha preso. A forza di lavarla si è un poco rimpicciolita ma la uso ugualmente anche se le maniche sono un po’ corte.
Non l’ho comprata ma trovata nel 1990 su un piccolo terrazzo di una parete rocciosa delle Dolomiti, lasciata lì da chissà chi in circostanze, immagino, drammatiche.
L’ho sempre usata molto e più la uso più si ammorbidisce standosene piacevolmente addosso. Nel 1998 a Kathmandu l’ho fatta tatuare, visto che a me i tatuaggi addosso non piacciono ho fatto tatuare lei, o meglio, le ho fatto ricamare sulla schiena un disegno molto psichedelico dove si mescola di tutto, che mi piace molto.
Quel giorno di agosto ero sulle Tre Cime di Lavaredo a guidare lungo la via Helversen due amici che sono miei clienti da anni. Lui ultrasessantenne ben messo fisicamente, lei un po’ cigolante, nonostante avesse qualche anno meno di lui. Entrambi bruciati dalla passione per l’alpinismo.
La via risale facili fessure sulla Cima Piccola nella prima metà esposta a sudest per poi raddrizzarsi nella seconda dove svolta sul versante nord, freddo e lugubre, ma con bella roccia e passaggi divertenti.

Dopo un paio di lunghezze di corda ricordo di avere sostato sul terrazzo dove ho visto la felpa. Imbevuta dell’acqua caduta nella notte precedente, sembrava uno straccio. Sul terrazzo brandelli di nylon, resti di confezioni di medicinali e sangue. Pozze ricolme di sangue e acqua e qua e là grumi di materia dall’aspetto organico.
Scoprirò dopo che c’era stato un grave incidente dove una persona aveva perso la vita cadendo dalla parete e fermandosi proprio su quel terrazzino.
I miei due compagni di cordata stavano salendo allegri lungo le rocce scaldate dal sole del mattino, mentre io mi affrettavo a rendere il terrazzino libero dai segnali fin troppo evidenti di quello che era successo a quel povero disgraziato.
Dal mio zaino avevo tirato fuori un sacchetto di plastica dove avevo buttato dentro tutto quello che c’era, dopo essermi infilato dei guanti di lattice, di quelli da chirurgo, che ho sempre in una piccola borsetta assieme a poco materiale di primo soccorso. Lo straccio bagnato, che poi scoprii essere una felpa di cotone, lo usai per assorbire tutto il liquido rosso che colmava le rientranze a mo’ di vaschette, spremendolo più volte dentro una fessura come quando si asciuga per terra a casa dopo che qualcosa ha allagato il pavimento.
Buttai alla fine la felpa straccio nel sacchetto e richiusi tutto nello zaino che rimisi in spalla.
Giancarlo  e Cecilia arrivarono pimpanti e io ripartii svelto per il resto della scalata, da lì, ancora lunga.
Una cosa simile l’avevo vissuta anni prima sul Petit Dru nella valle di Chamonix, quando con Giorgio, amico di mille e una avventure, ci eravamo imbattuti nei segni di un alpinista precipitato da parecchi metri che aveva lasciato dei macabri resti proprio sugli appigli che avevo dovuto pulire al mio passaggio, tra cui un bulbo oculare, che sembrava guardarmi e che mai ho dimenticato.
Il tempo e le esperienze aiutano a metabolizzare un po’ tutto, ma quando ci ripenso qualcosa dentro mi pulsa veloce.
Quel giorno d’agosto sulle mie Dolomiti, infatti vivo proprio lì, riuscii a distrarmi pensando a quello che avrei dovuto fare nei giorni seguenti e, anzi, quello stesso pomeriggio un’altra persona mi aspettava al rifugio Lavaredo per fare un’altra scalata lunga e più difficile: la via Comici sulla Nord della Cima Grande, che finimmo al tramonto scendendo lungo la via normale di notte.
Per fortuna, al ritorno guidò la macchina il mio cliente mentre io dormivo e lui comprò due gelati da Rubens a Cortina per poi proseguire fino a Corvara e mollarmi davanti a cas,a come quando i corrieri buttano all’alba il pacco dei quotidiani dal finestrino davanti alle edicole ancora chiuse.
Una doccia lunga e poi qualcosa da mangiare prima di infilarmi a letto mentre tutti, la mia fidanzata e mio figlio Tommaso di quasi un anno, dormivano della grossa.

Sveglia poche ore dopo, colazione con tazza e biscotti tra le gambe mentre guido il mio pullmino Volkswagen verso la Val di Zoldo per arrivare ancora al buio, dopo una buona mezz’ora di cammino, al rifugio Coldai ai piedi del Civetta. Ho sempre detestato dormire nei rifugi preferendo poche ore di sonno ben dormite all’intera notte a rischio di canti di ubriachi et similia. Il mio cliente è già sveglio e facciamo colazione insieme, per me è la seconda, chiacchierando su progetti futuri e sulla via che di lì a poco avremmo salito. La via Aste-Susatti sulla parete nord-ovest.

Ero sudato dalla corsa fatta su per il sentiero ma non ero stanco. In quegli anni tra età e passione  mi sentivo indistruttibile. Più gli sforzi si sommavano più energia avevo, il contrario di quello che mi succede ora, e accumulare prestazioni alpinistiche era uno stimolo che mi dava un gran piacere. Svegliarsi al suono della sveglia era a volte uno shock, ma appena iniziavo a muovermi tutto funzionava a meraviglia e bastava una doccia a rimettermi in sesto. Che bello che era.
Partiamo che è ancora buio pesto e l’alba ci sorprende già alti sul lungo e facile zoccolo roccioso di circa 300 m che fa da base alla Punta Civetta, una torre alta 800 m sul cui bordo destro sale la nostra via. Basta poco per accorgermi che siamo sulla torre sbagliata, il Pan di Zucchero, ma continuiamo a salire velocissimi perché oggi vorrei tornare a casa non troppo tardi, poi vi dico perché.
Finito il tratto facile inizia la torre verticale, la roccia è solidissima e una fessura diagonale, inesistente sulla via Aste, ci porta verso sinistra in piena parete. Poi delle lunghezze con chiodi a pressione, sempre su roccia bella, ci fanno arrivare in un camino che sbuca sulla cresta di vetta. Sono le undici del mattino e alle due siamo al rifugio. Scopriamo che abbiamo fatto una delle poche ripetizioni della via dei Polacchi, che è molto più dura di quella che dovevamo fare e quindi il mio cliente è ben felice di ciò. Invece delle 12 ore che indica la guida di Oscar Kelemina, ci abbiamo messo la metà e io ho salito tutta la via in libera e sono contento della mia prestazione.
Dopo un radler grande corro a casa dove finalmente riesco a cenare all’ora giusta. L’indomani mattina mi aspetta Nando per la Cima Scotoni. La via degli Scoiattoli è una delle classiche dolomitiche più ambite perché è difficile e famosa per la sua bellezza e sostenutezza nell’arrampicata, l’ho salita qualche volta, la prima a 18 anni con gli scarponi rigidi e pesanti il giorno del mio compleanno. Nel 1987 con Marco Gesubambino Fanchini l’abbiamo salita in un’ora e tre quarti in cordata, credo sia ancor oggi il record su quella via, ma poco importa, oggi, il 23 agosto 1990, è il primo compleanno di mio figlio Tommaso e voglio arrivare a casa in tempo per la festa per cui sono arrivati anche i miei genitori dalla Sardegna.
Il primo tiro di corda è il più difficile. Negli anni ’80 era una sfida salirlo in libera e in pochissimi ci riuscirono a causa della difficoltà e dei chiodi malsicuri. Ottavo grado (7a) senza spit!
Parto entusiasta perché oggi è un giorno significativo, vista la ricorrenza, salendo il tiro in libera con in spalla uno zaino leggero, ma pur sempre un impedimento notevole per superare quelle difficoltà.
Il mio compagno non crede ai suoi occhi, io invece ci credo, mi sembra normale che mi riesca di avere tutta quell’energia. Mi dice che non ha mai visto nulla di simile e che non credeva possibile fare una cosa così… Perché, gli dico? Non mi è sembrata neppure troppo dura, mentre riparto veloce per il tiro successivo dove raccolgo tre stelle alpine da un buco che porterò a Tommaso come regalo, e che ancora oggi ha in camera sua in un quadretto che stranamente mi inorgoglisce ogni volta che lo vedo.
Nel primo pomeriggio siamo in paese e arrivo in anticipo per la festa aiutando per i preparativi.
Tra torte e giochi mi metto d’accordo al telefono per la salita del giorno successivo. Ora non ricordo quale fosse, ma se vado a vedere in un quaderno su cui mi scrivevo tutte queste cose, lo scopro facilmente.

Dopo avere raccolto la felpa insanguinata tre giorni prima e averla messa nel sacchetto con tutte le schifezze che c’erano su quel terrazzo di roccia, l’avevo tirata fuori dallo zaino a casa e invece di buttare tutto nella spazzatura, avevo messo la felpa in lavatrice dopo averla strizzata per bene.
Ne venne fuori pulita e l’aria vissuta che aveva me la fece piacere subito, tanto da usarla un sacco di volte e tenerla come una specie di amuleto.
Tutta la vita che le ho fatto fare le sarà piaciuta, mi sono sempre detto. Se apparteneva a uno scalatore le ho fatto fare un mucchio di belle vie, portandola in un sacco di posti dall’Himalaya alle Ande, dai deserti dell’Africa all’Artico. Tutti bei posti. Sarà contenta, come lo sarebbe il suo padrone. Oggi non la indosso più perché me l’ha fregata mia figlia. E’ un po’ rattoppata ma ancora in forma.

Questa vita mi piaceva e tutt’ora mi piace. Con gli anni ho rallentato fisiologicamente e mentalmente perché le soddisfazioni che ho provato sono state sufficienti a non farmene cercare altre. Per farla ho dovuto essere pragmatico, idealista e fermamente convinto di farcela pensando che non ce l’avrei fatta solo se non l’avessi vissuta così. Questo mi ha portato ad avere  una visione dell’esistenza spesso estrema, che mi ha creato non pochi problemi di relazione con molte persone.

Vivendo così non si può pensare ai fronzoli, non ci sono né tempo né bisogno e tutto quello che è utile è davvero poco. Tutta la mia vita è stata influenzata da questa visione delle cose per cui ai miei figli cerco di spiegare che la vita è così. Che non bisogna scalare per vivere ma badare all’indispensabile e nulla più, sì. Non capiscono facilmente perché loro non vivono come vivevo io vent’anni fa e a volte non capiscono perché io non abbia bisogno di una bella macchina, di vestiti alla moda, di vacanze patinate o di anche attrezzatura ultimo grido per andare in montagna.
Per salire le montagne si va contro la forza di gravità e più leggeri si è, meglio è. Si va più veloci, sicuri e agili, e lasciare giù tutto quello che non serve è il minimo, se non si vuole rischiare di fare notte sotto le stelle ogni volta. Alcuni lo fanno, ma non si divertono di solito.
Insomma bisogna togliere anziché aggiungere e inevitabilmente si fa lo stesso anche nella vita di tutti i giorni, privando chi ti sta vicino di tante cose che per me sono inutili ma magari per l’altro no. Come fare?

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La felpa verde ultima modifica: 2024-01-11T05:05:00+01:00 da GognaBlog

40 pensieri su “La felpa verde”

  1. Bel racconto grazie Marcello!! mi è ritornato in mente il berretto di lana trovato un alba di tante albe fa’ incastonato tra la neve gelata fuori un rifugio, ricamato con motivi invernali con la scritta Campra, bellissimo … ormai un amuleto riattoppato infinite volte…

  2. Bello! Grazie, ma bello soprattutto che sua figlia le abbia rubato la felpa! Penso di non sbagliare dicendo che lei sia un uomo fortunato e non  (solo) per quanto ha fatto in montagna.
    Lunga e serena vita.

  3. Sì, certo, Marcello, hai ragione!
     
    Mi riferivo solo al confine inesistente tra vita privata e professione, se quest’ultima è portata avanti con talenti personali. Questi pensieri mi riportano inevitabilmente al delirio “pandemico”, quando qualcuno stabilì che si doveva uscire solo se necessario. E anche a un interessante corso di dizione seguito molti anni fa, in cui il maestro alla prima lezione ci disse che potevamo uscire dall’aula solo se il fatto di restare avesse avuto conseguenze letali!!
     
    Insomma, ciò che è indispensabile e necessario per il nostro benessere lo sappiamo solo noi e nessun altro.
    Pensieri.

  4. Infatti.
    Ho sempre visto dell’altruismo la più grande forma di egoismo.
     
    Riguardo le professioni che richiedono dedizione totale, facendo degli esempi a spanne, la guida alpina se sbaglia muore (facilmente) anche su terreno facile. Il medico può uccidere il paziente se si distrae. Il commercialista e l’idraulico, in caso di errore provocano casini inenarrabili ma senza conseguenze estreme.
     

  5. Grazie, Marcello, per l’approfondimento!
    In questo caso, a mio parere, non si può parlare di egoismo, visto che le attività in montagna sono, almeno per il momento, una fioritura della tua essenza.
    Per il resto, sempre a mio avviso, i mestieri di maestro e di dottore sono vere e proprie missioni che non è possibile staccare da quella che viene definita “vita privata”, ma è così per tutto ciò che facciamo con passione.
     
    Per quanto riguarda il significato di egoismo, invece, io penso si faccia tutto sempre per il proprio benessere, anche quando sembra che facciamo qualcosa per qualcun altro.

  6. Se una famiglia è destinata allo sfasciamento questo avviene sia che uno giochi a calcetto (anzi forse di più) sia che vada sull’Annapurna…
    Meglio comunque una felpa verde anarcoegoista che cento nere patriafamiglia…

  7. Marcello e Attilio
    Ma infatti, in questo caso trattandosi di lavoro, capisco benissimo la situazione, ed è equiparabile come dice Attilio a qualunque altro lavoro che ti porta a stare fuori casa per parecchio tempo… Cosi’ come quando qualcuno come lavoro fa il tecnico e fa trasferte all’estero per settimane. 
    E’ una scelta? Si. E’ opinabile? Assolutamente no: ognuno fa la propria scelta nella vita, con i pro e i contro del caso. Ripeto, nessuna volontà di giudicare, era solo una considerazione 🙂

  8. Il mio precedente medico di famiglia esercitava con grande passione, a volte sono entrato in ambulatorio alle 8 di sera. Chi aveva conosciuto suo padre, anche lui medico di famiglia, raccontava che a volte era entrato in ambulatorio alle 11 di sera.
    Medici, avvocati, notai ma anche artigiani e commercianti, tutti lavoratori autonomi che quando esercitano con passione con hanno orari. A volte le loro vite private vanno bene, altre volte sono un inferno ma questo vale anche per il dipendente che lavora 4/8 ore e non un minuto di più. Ognuno di noi ha la sua storia che in parte si crea e in parte subisce. L’equilibrio non è sempre possibile, ciò che conta è arrivare a fine giornata senza rimpianti, con la consapevolezza di aver fatto quello che si riteneva giusto fare.

  9. Andrea, il tempo da dedicare ai figli lo includo nell’egoismo. Tranquillo 

  10. Lungi da me volere fare la morale a chiunque… “Egoista” non deve per forza avere una valenza negativa. E’ un modo di essere, e – secondo me giustamente – è necessario coltivare le proprie passioni, il proprio modo di essere e in questo caso anche portare a casa la pagnotta con il proprio lavoro.
     
    Però mi permetto di dire che mentre la compagna te la puoi scegliere, e scaricare se non condivide le tue passioni, quando hai figli, magari loro non hanno la stessa apertura di vedute della moglie e vorrebbero poter avere a disposizione il proprio papà e/o la propria mamma per più tempo.
    Tutto qui

  11. Molto bello; bravo Marcello. Concordo anche sulla teoria “egoismo”. La mente serena è tutto per andare in montagna per cui se non viene accettato il tuo punto di vista risulta difficile anche l’azione in montagna e aggiungo che non solo dovresti avere chi non ti ostacola ma chi ti ti appoggia.
    Per me diverso è più difficilmente superabile (sempre per me ovviamente) e’ l’aspetto della mercificazione dell’andare in montagna ma è un altro argomento 
    Bravo ancora e grazie per questo racconto 

  12. Quanto all’egoismo, io di problemi con la mia passione non ne ho mai avuti.
    Sarò stato fortunato.

  13. Poi sul fatto che qualcuno si scandalizzi della guida che porta dei cannibali a farsi i selfie su un tiro di corda in scarpe da ginnastica, dico che ogni tanto va benissimo. Compensa le volte in cui ti sudi duramente quello che ti pagano e comunque da professionista tocca fare certe cose che un dilettante manco immagina. Tutto normale.

    Non sono mica nato ieri, quindi non mi scandalizzo affato. Ne ho viste di peggio andando a giro per i monti e non solo.
    Anzi con il mio amico ci siamo messi a ridere. Del resto il pane a casa in qualche modo va portato.

  14. Premetto che non ho mai visto nell’egoismo una connotazione negativa, ma visto che se ne parla, mi sento di fornire una spiegazione sommaria.
    In alpinismo, se si vogliono raggiungere risultati importanti ci si deve confrontare con rischi e difficoltà che richiedono dedizione totale. Anche facendo la guida si deve poter andare al lavoro con la mente serena. Già ci sono le normali preoccupazioni sociali, familiari e professionali a impegnare parte della mente, figuriamoci se uno/a dovesse anche sentirsi dare dell’egoista perché va in montagna. Intendo con questo anche tutte le gite, arrampicate, scialpinistiche, sedute in palestra, ecc cui un professionista deve obbligatoriamente sottoporsi per essere in forma. Questo richiede molto tempo tanto da lasciarne proprio poco ad altre cose.
    Se il compagno/a di un/una alpinista non condivide, o ancora peggio non comprende, questa esigenza di sopravvivenza è meglio abbandonarlo/a perché non essendoci affinità sarebbe tempo perso perseverare in un rapporto difettoso. 
    Lo sostengo alla luce del fatto che anche per un alpinista e/o guida alpina esistono già i normali problemi della vita, per cui se ce ne aggiungiamo altri (inutili) che invece possono essere tranquillamente evitati, tutto diventa un disastro. Conosco molte coppie in cui uno dei due non condivide l’andare in montagna o ad arrampicare dell’altro/a. Costoro se la vivono malissimo entrambi e farebbero meglio a lasciarsi. Non dico che bisogna fare entrambi le stesse cose, avere la stessa passione, ecc. ma servono affinità che se assenti trasformando la convivenza in un inferno. Ci di può lasciare e cercare qualcun altro/a finché non si staventrambi bene e in equilibrio mentale e sentimentale. Almeno io ho sempre fatto così. 
     
    Poi sul fatto che qualcuno si scandalizzi della guida che porta dei cannibali a farsi i selfie su un tiro di corda in scarpe da ginnastica, dico che ogni tanto va benissimo. Compensa le volte in cui ti sudi duramente quello che ti pagano e comunque da professionista tocca fare certe cose che un dilettante manco immagina. Tutto normale.
     
    Grazie (anche al Capo che lo ha pubblicato) per i complimenti sul raccontino che ho scritto circa 18 anni fa ma mi sembra ancora attuale.

  15. Credo che l’egoismo associato all’alpinismo sia da considerare soprattutto nei rapporti con gli affetti familiari: è una attività che ruba parecchio tempo, e per forza di cose devi trascurare il tempo libero da dedicare alla famiglia per dedicarti seriamente all’alpinismo

  16. Visto che più d’uno ha sottolineato il concetto, confesso che mi sfugge la ragione per cui l’alpinisme è accostato all’egoismo.

    infatti, io non mi sento per nulla egoista. O per lo meno non mi sento più egoista di tanti altri che praticano altre attività , anche lavorative.
    Lavorare c’è da lavorare.  Ma tanti non vedono altro, dei veri fanatici

  17. Visto che più d’uno ha sottolineato il concetto, confesso che mi sfugge la ragione per cui l’alpinisme è accostato all’egoismo.
     
     

  18. E’ sempre un piacere e un monito leggere Cominetti.
    Grazie per i tuoi racconti.

  19. Bravo Marcello. Bel racconto di storie di alpinismo emozionanti ed anche drammatiche. Vi è poi una edificante e convincente esposizione del “mestiere” di guida che mi ricorda altri personaggi che ho incontrato nella mia lunga vita di alpinista: uno per tutti Gianni Comino.
    Ricordi poi un fatto di cui sono convinto anch’io: per fare una grande attività alpinistica occorre anche una buona dose di egoismo.

  20. …questo “metadiario” del Cominetti è dannatamente interessante e avvincente…siamo ai livelli di quello del Gogna…

  21. Ti si legge sempre con passione e curiosità. Sai tenere il lettore attaccato alla storia ed è qualità rara, almeno per come la vedo io. Poi aggiungi anche poche righe di un’ autenticità disarmante “Sono convinto che l’alpinismo sia una forma di egoismo applicato a una delle massime espressioni di libertà. Ma non perché gli alpinisti siano liberi, ma perché oggi che viviamo perlopiù globalizzati e come i polli in batteria negli allevamenti, ogni forma di evasione rappresenta la libertà che a ogni essere vivente è indispensabile. Per questo andiamo anche in montagna.” Grazie. Lettura davvero affascinante 

  22. Grazie, Marcello, per questo scorcio di vita semplice e preziosa che sa farsi strada tra le nubi che si addensano, sempre più spesse, all’orizzonte.

  23. Di Marcello apprezzo il modo di scrivere ,la genuinità del suo raccontare la vita come fosse un documentario ma soprattutto ammiro la coerenza ,la semplicità e l’eleganza purissima di essere Guida a tutto tondo.Guida nn solo in parete nei gesti ma anche nell’insegnare a interpretare le proprie “seghe mentali” riducendo a umili azioni quelle aspettative che ognuno di noi ha in montagna ma nn vorrebbe confessare. Marcello ti fa scendere “dal pero”ti sferza …e poi sta a te imparare o incazzarti. Ho arrampicato sotto la sua “direzione”alcune volte e dal suo modo di essere burbero ma sincero ne ho tratto insegnamento di vita che ancora oggi ne faccio tesoro malgrado l’età.Io ho imparato!Leggere Cominetti è piacevole se ovviamente se ne comprende l’ideologia non solo alpinistica ma ancor di più “di vita”!Mi ha fatto diventare ancora più integralista nei confronti del turismo in montagna e nn era semplice….Complimenti Marcello e scrivi di più, grazie!
     
     
     
     

  24. Mi sa’ che è vero ; sono gli oggetti a trovare noi e non il contrario , ci aspettano con pazienza e anche quando pensiamo di aver perso qualcosa a cui teniamo la doniamo (forse? chissa’?)a chi arriverà e la fonderà a se stesso come hai fatto tu con la felpa.
    Ottima lettura.

  25. Marcello, come hai fatto a farti portar via la felpa? Io ne ho una di cotone di Patagonia, comprata circa 35 anni fa. Un po’ segnata dalla vita e dalla montagna, anche se non come la tua. Però, negli anni, tutte e due le mie compagne (prima una poi l’altra) “ma perché non la butti? è vecchia, rovinata, non la metti mai”. No, care F e R, quella sta bene dove è, nella scatola insieme alle moffole di lana cotta e alle ghette tagliate dalle punte frontali dei ramponi… Se l’estate prossima torniamo nell’agordino, mi porto i dané e ti offro una birra alla Casa del Popolo… 😀

  26. A proposito di quanto scrive Michelazzi, di clienti mordi e fuggi e fotine varie, un giorno eravamo a scalare in una falesia. Era il pomeriggio tardi, quando arrivano due guide , che conosco, con una decina di clienti/turisti stranieri.  Gli mettono un paio di corde su due vie facili e a turno li fanno salire. Non avevano le scarpe d’arrampicata ma delle semplici scarpe chi da tennis, chi da corsa.  In pochi fanno tutto il tiro, la maggioranza sale pochi metri, ma tutti!!! esigono assolutamente la fotina. Insomma di arrampicare non gliene poteva fregà di meno, le due guide non insegnano nulla a questi “sacconi” che non erano li per imparare qualcosa sull’arrampicata, erano li per farsi fare la fotina da pubblicare in diretta sul social. Stanno li circa un paio di ore, giusto il tempo per farsi le fotine, pubblicarle, e poi se ne vanno via.
    Clienti contenti perchè si son fatti grandi sui social nel praticare un sport estremo, guide contente perchè  soldi immediati con poco lavoro e zero fatica e rischi.

  27. J’ai aimé ce récit et sa belle philosophie.
    La montagne, sur les parois, quand on peut…
    La montagne, dans ses rêves, TOUJOURS !

  28. Bel rricordo e  riflessioni che condivido sul bisogno di nulla per vivere le pareti.
    Bravo Marcello.Un solo rammarico: attualemente i clienti come quelli che descrivi sono sempre meno, sempre più quelli “mordi e fuggi” ai quali interessa la fotina, anzi molte fotine (e rompono pure le balle se non gliele scatti), l'”impresa” veloce da social.Un mondo che sta scomparendo?

  29. Bel testo, belle riflessioni, in tante mi ci rivedo in altre meno, come è giusto che sia, visto che non siamo fotocopie. Negli anni ruggenti, si vive in una vera bulemia di attività, non si sente stanchezza fisica ne mentale, la fame di vie e insaziabile. Tutto di corsa, una via tira l’altra come un canestro di ciliege. Si arriva in cima e già si pensa ad un altra via da fare. Su leggerezza e velocità, ognuno di noi ha la sua idea, stile e possibilità. Per una guida che si impegna con tutti questi clienti, uno dietro l’altro, non c’è altra possibilità che correre. Per un non professionista non ci sono obblighi, non c’è da correre per forza perchè non ci sono contratti da onorare.
    Sei proprio sicuro che ti sei sbagliato tra la via dei Polacchi al Pan di Zucchero e la Aste alla Punta Civetta?? Mmmm…non l’avrai mica fatto apposta…??

  30. A parte il talento alpinistico, che non è un merito (uno o ce l’ha o non ce l’ha), per fare una vita così bisogna sentilo dentro. io ho capito molto presto, anche prima dei vent’anni, che una vita totalmente dedicata alla montagna non era coerente con i miei desiderata. Per tale motivo non ho mai neppure preso in considerazione né la professione di guida alpina né una vita da professionista della montagna (di quelli che iniziavano a profilarsi negli anni ’80-90, grazie alle sponsorizzazioni dirette). La libertà che mi regala la montagna è quella della passione amatoriale e senza legami obbligati: posso stare anche sei mesi senza andarci, perché mi dedico agli altri miei molteplici interessi della vita, e la montagna non mi tradisce. E’ sempre là, come un’amante che mi aspetta, silenziosa ma disponibile quando torno a trovarla. racconto questo per segnalare che la “passione” per la montagna non è solo quella coinvolgente che ti prende e non ammette altro, ma anzi può essere addirittura opposta. L’intelligenza di ciascuno deve fargli capire il modello in cui si sente felice. Se io vivesse nel modo descritto in questo articolo sarei infelice come un prigioniero in un lager. Altrettanto al contrario. A ognuno il suo modello di vita e di montagna. Altrettanto ovvio che ciascuno sarà dispensatore del modus vivendi in cui si riconosce. Io “insegno” (a figli, amici, allievi) quello in cui mi riconosco e non l’opposto. La bellezza della montagna è che rende felici persone con mentalità diverse, anzi addirittura opposte.

  31. Bell’articolo, ottime riflessioni esistenziali, condivisibili in altri ambiti e in altre professioni.

  32. La vita è un po’ come quello che io chiamo il mistero degli zaini.
     
    Se hai uno zainetto da 15 l, comodo per arrampicare, non ti ci sta dentro tutto ciò che ti serve e devi appendere fuori scarpe, borraccia, corde.
    Dopo un po’ ti scocci di sembrare un albero di natale ambulante e ne compri uno da 20 l, magari un po’ più scomodo arrampicando, ma più grande.
    E presto scopri che non riesci a farci stare dentro tutto lo stesso.
    Allora, dopo molti dubbi e molte comparazioni, dopo aver osservato gli zaini di tutti quelli che incontri, ne prendi uno ultimo modello, anatomico, ventilato, il più leggero della categoria, da 25 l,  tecnologico con possibile estensione fino a 35 l di capienza.
    Solo per scoprire che non basta nemmeno lui a contenere tutto quello che vorresti mettere dentro.
     
    Bellissimo racconto Marcello, grazie!
     

  33. Armando Aste aveva un sentire diverso su leggerezza, velocità e permanenza notturna. Lo preferisco

  34. La vita è come il tuo zaino, con il tempo lo riempi delle tue esperienze e lo svuoti di tutto ciò che è superfluo. Più togli superfluo e più ti accorgi di quanto ne avevi messo inutilmente

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