L’alpinismo contemporaneo (molto tempo fa)
(E’ il primo capitolo della prima edizione di Un alpinismo di ricerca, eliminato nella seconda perché già nel 1983 non più attuale. Oggi lo si ripropone come documento datato 1974)
Lettura: spessore-weight(2), impegno-effort(2), disimpegno-entertainment(3)
Se con la conquista dello sperone Walker alle Grandes Jorasses e della parete sud della Marmolada di Rocca si ebbe la conclusione di un’epoca alla vigilia della seconda guerra mondiale, in realtà quel tipo di alpinismo estremo e comunque eroico non ebbe fine che nel 1957.
La tecnica dell’«artificiale» ebbe grandi sviluppi infatti in Dolomiti nel 1951, quando Georges Livanos e Robert Gabriel salirono il Gran Diedro della Cima Su Alto e sul Monte Bianco quando Walter Bonatti e Luciano Ghigo vinsero la Est del Grand Capucin.
E mentre si compie nel 1952 la grande vittoria degli Scoiattoli di Cortina Lino Lacedelli, Luigi Ghedina e Guido Lorenzi sulla Cima Scotoni, ecco che Guido Magnone e compagni vincono la Ovest del Petit Dru. E ancora Walter Philipp e Dieter Flamm nel 1957 raggiungono il massimo dell’ardimento sul Diedro del Monte Civetta e nello stesso anno il fantastico Bonatti vince con una salita epica il pilastro del Petit Dru.
Qui finisce veramente il concetto di alpinismo eroico. Nel 1958 infatti le pareti cominceranno a cadere per linee ancora più dirette, ma non più soltanto con chiodi normali. Il concetto di parete insuperabile è finito, perché finite sono le pareti da superare.
Nel 1958 i sassoni Dieter Hasse, Lothar Brandler, Siegfried Sigi Löw e Jörg Lehne vincono la Nord della Cima Grande di Lavaredo per un itinerario più diretto della Comici. Usano qualche chiodo a pressione per la realizzazione di una splendida idea. E cosa via a catena.
Nel Monte Bianco si va un po’ più lentamente: l’ultimo baluardo cade solo nel 1961, il Pilone Centrale (Chris Bonington, Don Whillans, Jan Clough, Jan Duglosz).
Dopo, la tecnica più raffinata degli americani si farà largo sull’Aiguille du Fou (1963, Gary Hemming con John Harlin, Tom Frost e Stewart Fulton) e ancora sul Petit Dru, direttissima Ovest (1965, Royal Robbins e John Harlin).
Argomento onnipresente degli anni ‘60 nelle discussioni dell’alpinismo è stato il chiodo a pressione. Si discuteva sulla legittimità di praticare un foro artificiale là dove la Natura non aveva disposto niente per l’uomo. E soprattutto sul conseguente decadimento della prestazione di coraggio e d’intelligenza dell’alpinista.
A distogliere l’attenzione da quel problema ecco che vengono di moda le invernali. Già negli anni ‘30, ‘40 e ‘50 si ebbero notevolissime imprese, ma la parete nord dell’Eiger, salita d’inverno nel 1961 (Toni Hiebeler, Toni Kinshofer, Walter Almberger, Andreas Mannhardt) iniziò senza dubbio una nuova era. Si ebbe la corsa alle prime invernali, caddero la Nord del Cervino
(1962, Hilti von Allmen, Paul Etter), la Nord delle Grandes Jorasses (1963, Walter Bonatti, Cosimo Zappelli), la Solleder al Civetta (1963, Ignazio Piussi, Giorgio Redaelli, Toni Hiebeler), il Pilone Centrale del Monte Bianco (1967, René Desmaison, Robert Flematti) e la Nord-est del Badile (1968, Paolo Armando, Camille Bournissen, Gianni Calcagno, Michel Darbellay, Alessandro Gogna e Daniel Troillet).
Anche l’alpinismo solitario registrò imprese senza precedenti, come la Nord dell’Eiger, (Darbellay, 1963) e la Nord delle Grandes Jorasses (Gogna, 1968).
Tutte queste diverse forme di arrampicarsi sulle montagne contribuirono a dilatare il problema e a sviare la fine ormai vicina. In più intervennero le nuove forze di scuole di alpinisti formatesi in differenti nazioni: i giapponesi portarono il lavoro di équipe a livelli impensati (Nord dell’Eiger, via dei Giapponesi); gli slavi in generale portarono il gusto della prima ad ogni costo, a volte con il magrissimo risultato di una variante diretta nella realtà dei fatti; gli americani, con la tecnica sviluppatasi nello Yosemite in California, migliorarono soprattutto l’arrampicata su granito, libera e artificiale.
Nel frattempo cadevano anche le ultime pareti consenzienti a una arrampicata classica che si servisse però degli ultimi ritrovati tecnici: la Nord delle Droites, il Naso di Zmutt al Cervino, la direttissima alla Marmolada di Rocca. Queste pareti avevano resistito fino ad allora non perché fossero giudicate inaccessibili, ma perché non erano state giudicate fattibili senza l’aiuto di chiodi a pressione o del sistema himalayano. E invece, grazie ai chiodi speciali americani, ai nuovi studiatissimi ramponi e grazie alla maggiore esperienza acquisita, furono vinte.
Dal 1969 a oggi si è assistito ad una ridda di stupefacenti imprese. Vorrei, per esigenza di brevità, esaminare ciò che di più significativo venne fatto in quattro anni, da quando cioè anche l’ultima invernale cadde, la Nord-est del Pizzo Badile.
a) Prime ascensioni: il Naso di Zmutt al Cervino è ciò che di più significativo venne compiuto. Da una parte per la maggiore grandiosità della parete, dall’altra per lo scarso uso di espedienti tecnici che venne fatto. Parete di 1200 metri, su una montagna come il Cervino, con difficoltà pari alle maggiori dolomitiche per circa 600 metri e con gli altri 600 pari alla Nord delle Droites. Quattro giorni di parete (Alessandro Gogna e Leo Cerruti, 1969).
b) Prime invernali: la Grande Cresta Integrale di Peutérey al Monte Bianco. Otto chilometri di arrampicata, tagliati fuori dal mondo per 6 giorni, i francesi Jannick Seigneur, Louis Audoubert, Marc Galy e Michel Feuillarade, con gli italiani Arturo e Oreste Squinobal nel 1972 risolsero il più grande problema invernale.
c) Prime solitarie: Reinhold Messner con la sua impresa al Diedro Philipp del Civetta e alla Nord delle Droites nel 1969 diede il decisivo colpo di grazia a tutti i tabù dei solitari.
d) Prime ascensioni e prime invernali contemporanee: questa forma di alpinismo iniziata da Bonatti sul Cervino nel 1965, perfezionata da Seigneur e compagni nel 1967 sulla Nord del Petit Dru, venne portata all’estremo (quasi una forma di esclusività) da Gianni Rusconi e compagni sul Badile (1970), sul Cengalo (1971) e sul Civetta (1972). L’unica emulazione fu di René Desmaison con i compagni Giorgio Bertone e Michel Claret con la direttissima invernale alla Nord-est delle Grandes Jorasses (1973).
e) Prime femminili: moltissime sono ormai le donne che ripetono itinerari di estrema difficoltà, anche da capocordata. La francese Simone Badier, la giapponese Michiko Imai, l’italiana Silvia Buscaini sono tra le migliori del momento, unitamente a molte tedesche, slave e americane.
Ecco quindi tracciata a grandissime linee una breve storia degli ultimi venti anni. A questo punto occorre proporre una conclusione; questa deve tener conto non solo degli ultimi sviluppi, ma dell’intero arco della storia dell’alpinismo. Pertanto vorrei dividere la trattazione in tre capitoli.
1. Le discussioni sui mezzi e metodi che fecero la storia dell’alpinismo.
2. La correlazione tra l’idea di salire una parete e l’effettiva realizzazione.
3. Le Alpi di fronte all’Himalaya e le altre maggiori montagne.
1. E’ indiscusso che, anno dopo anno, furono introdotti sempre nuovi mezzi e metodi nello scalare le montagne e che questi contribuirono in maniera sempre più determinante al cosiddetto progresso dell’alpinismo.
Dapprima un sempre più corretto e raffinato uso della corda di canapa e quindi dell’assicurazione che con essa si poteva garantire portò, negli ultimi anni dell’800 e nei “primi del ‘900, alla conquista di pareti fino ad allora insperate. Ed ecco che subentrò il chiodo che subito scatenò le discussioni più furibonde tra Preuss, Fiechtl, Dülfer, Piaz. In seguito il chiodo si perfezionò. Se ne forgiarono di tutti i tipi, misure e forme fino ad arrivare a una gamma in commercio attualmente che conta non meno di 300 esemplari differenti. È chiaro quindi come nel tempo dapprima si sfruttò la grande fessura, poi la fessuretta, poi la fessurina, fino alla più impercettibile screpolatura, permettendo all’uomo di passare dove altrimenti non sarebbe stato possibile. Ormai le discussioni sui chiodi sono finite.
Ci sono dei fatti da cui non si può prescindere: è risaputo che la maggior parte degli alpinisti di tutte le nazioni, salvo rarissime eccezioni, usano i chiodi con moderata parsimonia. Essi sono educati, sia dalle scuole, sia dagli scritti dei più autorevoli fuoriclasse, a usare il chiodo dove effettivamente deve essere usato. È vero sì che ci sono alcuni itinerari superchiodati, ma questo avviene solo quando si tratta di vie molto classiche e note, tali da richiamare la scalata di tanti alpinisti in una stagione. Ciò non appare sulle pareti di normale percorrenza.
L’invenzione dei ramponi, prima a dieci poi a dodici punte e il continuo graduale miglioramento di essi, insieme all’introduzione di piccozze sempre più razionali, non ha mai fatto gridare allo scandalo nessuno. Però è fuori di dubbio che l’arrampicata su ghiaccio è stata anch’essa rivoluzionata dai mezzi tecnici.
Il chiodo a pressione, dopo un timido iniziale uso di poche unità su grandi e logici itinerari e dopo un seguente abuso su itinerari scarsamente logici e privi addirittura di chiodi normali, sta andando in netta decadenza. Si è capito, anche qui grazie alle conferenze, alle scuole di alpinismo, agli scritti più degni di credito, che il chiodo a pressione non è, come si voleva far credere, un miglioramento della tecnica, ma un effettivo annullamento del problema. Non più risoluzione del problema, ma sua distruzione, eliminazione. Fu compreso, e lo si vede dalle vie che annualmente vengono aperte, in maggioranza logiche e classiche, che con il chiodo a pressione non si aumentano le possibilità del gioco ma le si eliminano con spietata incoscienza, proprio perché l’impossibile viene ad essere eliminato, anzi «assassinato». Per conservare l’alpinismo, occorre infatti conservare un margine d’impossibile da affrontare.
Voglio accentrare in un unico discorso l’introduzione nell’alpinismo del metodo himalayano, e quindi delle corde fisse, della radio e delle squadre d’assalto ripetuto alla parete.
Questa discussione infatti non è ancora terminata; da una parte perché l’argomento è complesso in quanto comporta molti elementi di differenziazione tra impresa e impresa; dall’altra perché ogni anno il metodo himalayano viene usato su imprese totalmente diverse. Metodo himalayano sulle Alpi significa: dato un itinerario di provata inaccessibilità con sistema classico (cordata autosufficiente che attacca e dopo un certo numero di giorni esce in vetta), lo si aggredisce con piccoli assalti: ogni giorno si lasciano sulla parete le corde fisse per poter risalire velocemente il giorno dopo, fino all’assalto finale. Ciò comporta: una squadra di punta, alpinisti di rincalzo con viveri e materiali ausiliari, non-autosufficienza delle cordate, non-unità di salita. Tutte cose nuove in alpinismo. Sarebbe come dire che la maratona non la si corre più in una volta, ma in due tratti distinti. Se fosse così semplice, però, il giudizio non potrebbe che essere negativo. Invece qui si parla di itinerari di «provata impercorribilità con il metodo classico»; il che significa che la maratona non è più di soli 42 km ma di 43, 44, 45 fino al limite dello sfinimento in corsa. Senza dubbio le pareti affrontate con il metodo himalayano rispondono a questo criterio: sono infatti più difficili, più alte, più isolate. Può essere invece dubbio che esse non potessero essere superate anche classicamente e quindi si può discutere sulla famosa «provata impercorribilità». Ecco perché la discussione è difficile. Inoltre non sempre il metodo himalayano è appariscente. Spesso le corde fisse, poste ad esempio nel primo terzo di parete soltanto, vengono taciute, a volte in buona fede a volte no. Spesso questo metodo non è usato in grande stile. Inoltre sono intervenute, come ho già detto, le prime ascensioni fatte d’inverno: itinerari mai percorsi d’estate vengono riempiti di chiodi e corde fisse d’inverno, in apparenza legittimamente, ma in realtà sollevando dei grossi dubbi. Per quale ragione infatti si dovrebbe accettare come logico il salto della «prima estiva»? Allora sì che il metodo himalayano viene concepito come fine a se stesso, l’idea di «provata impercorribilità» non sussiste neppure, dato che sicuramente se una via è percorribile d’inverno lo è meglio d’estate!!!
Ecco i problemi, se vogliamo molto tecnici, in cui si dibatte l’alpinismo attuale. Una novità assoluta degli ultimi anni è l’introduzione dei nut, cioè le «nocciole d’arrampicata», inventate dagli inglesi. I nut sono dei dadini di metallo o plastica di svariatissime forme che vengono incastrati nelle fessure e poi facilmente tolti. È provato che nelle palestre inglesi e sulle pareti granitiche americane il chiodo va gradualmente scomparendo lasciando spazio a queste curiose noccioline che in Europa continentale stanno trovando molte perplessità. Eppure gli inglesi ne sono entusiasti e stanno dimostrando a tutti con imprese sempre più notevoli che il loro sistema è comodo, sicuro e veloce.
2. Contemporaneamente allo sviluppo dei mezzi, dei metodi e delle tecniche in genere, c’è stato e c’è un progressivo cambiamento dell’idea alpinistica.
Spesso si è discusso se gli alpinisti di oggi siano più «bravi» di quelli del tempo passato: se essi siano o no più coraggiosi, se l’appoggio e l’appiglio di un centimetro quadrato di superficie siano meglio sfruttati adesso che allora. Discussioni sterili di cui l’alpinismo non ha mai avuto bisogno, ma che sono sempre state presenti. Da una parte sarebbe come paragonare l’antico al presente, non come valutazione della similitudine e delle differenze, ma come pura misurazione quantistica di un preteso valore sportivo misurabile. Ciò è assurdo, primo perché l’alpinismo non è misurabile né nello stile né nel tempo di salita, e secondo perché i paragoni quantistici vanno fatti su performance dello stesso momento e mai separate da mille questioni storiche e locali.
L’unico confronto valido è il paragone tra le idee, onde costituire non una stolida classificazione in ordine d’importanza, ma un’effettiva storia di quel pensiero che ebbe la sua attuazione in montagna. Il pensiero degli uomini che realizzarono l’Uomo in generale sulle pareti deve essere analizzato, studiato e compreso. E ciò non si otterrà mai finché ci si trastullerà a fare la storia dell’alpinismo solo confrontando i «successi» ed elencando le «vittorie». Purtroppo oggi, seguendo la morale corrente, anche lo storicismo dell’alpinismo non sembra avviato a interessi diversi: non ci si cura che delle vittorie, trascurando ciò che sono le idee, ossia i tentativi, ossia le prime esplorazioni, le sconvolgenti lotte che ogni alpinista dovette sostenere dentro di sé prima di tentare qualcosa di veramente nuovo. Qualcosa che magari ebbe realizzazione per mano di qualche altro. Così si uccide la vera avventura del pensiero e del coraggio, favorendo l’arida classificazione sportiva e il calcolato e morboso interesse dei veicoli d’informazione, radio, TV e giornali, ai quali interessa dare in pasto al pubblico qualcosa che non soltanto sia commensurabile, ma che sia perciò un «successo travolgente», una «strabiliante prima». In questo quadro viene ad aggiungersi il fenomeno per cui un eventuale tentativo precedente a una successiva vittoria viene menzionato soltanto per far apparire più grande detto successo. Perciò ogni ascensione dovrebbe essere analizzata in relazione alla storia che la precede, e ciò sarebbe un primo passo verso una significativa storia dell’alpinismo.
Ciò non significa che l’avventura e il coraggio siano in crisi. Per il momento nei giovani vi è un desiderio di fare di più, genuino e inalterato e non importa che non tutti abbiano coscienza dell’importanza del loro ruolo. Al di fuori dell’impresa confezionata come un prodotto, la generale ribellione al sistema fondato sulla civiltà dei consumi e del successo, così sensibile nei giovani sia americani che europei, favorisce un alpinismo che sempre più si sta liberando dai miti dei «grandi» e «unici» alpinisti. Il miglioramento qualitativo è veramente di massa, sia nella tecnica che nelle idee. L’idea alpinistica, dopo il suo grande corso nelle Alpi, si è sviluppata, è cresciuta a tal punto che le Alpi non le bastano più.
3. Altre montagne, più grandi e più lontane allettano ogni giovane e le Alpi, a prezzo ovviamente anche di incidenti, si avvicinano a diventare solo una grande palestra per più grandiose avventure. I giovani alpinisti svizzeri, francesi, inglesi e di tutte le altre nazioni, dopo aver raggiunto in due anni ciò che la storia dell’alpinismo ha raggiunto in duecento, guardando una qualunque delle pareti alpine, d’estate o d’inverno, non pensano più che sia impossibile. Tutto è possibile, in quanto tutto, o quasi, è stato fatto. Ed è solo questione di pochi anni per il resto. Ma quando prendono in mano la fotografia di qualche gigante himalayano, o di qualche arditissima guglia della Patagonia, o di una barocca cresta ghiacciata delle Ande, o di una spaventosa ghiacciaia dell’Alaska, ecco che la loro fantasia si accende come quella dei pionieri di fronte alla Marmolada, come quella di Comici di fronte alle Lavaredo. Una fantasia che li spinge a desiderare, a compiere, a osare, con quell’inconscio timore di non riuscire bilanciato dalla razionale sicurezza di potere.
Purtroppo in questi desideri non basta più l’idea. Occorre avere la fortuna di trovare delle persone che la pensano allo stesso modo, occorre uno spirito pratico d’intraprendenza nei riguardi dell’industria dell’articolo sportivo e non. L’enorme sforzo economico che richiedono le spedizioni extraeuropee non può essere affrontato con la sola e pura idea di osare e vincere. Occorre barcamenarsi per mesi e mesi, chiedere a Enti, ditte e privati fino a racimolare il minimo per poter partire. Molte spedizioni così falliscono non tanto per l’insufficiente capacità dei membri o per la loro inadattabilità gli uni nei confronti degli altri, quanto invece per l’inadeguata preparazione del materiale di scalata. Allora ecco che nuovi elementi si aggiungono nella valutazione delle imprese: mentre prima non si era mai tenuto conto delle differenze di preparazione «economica», ora purtroppo occorre averne una giusta stima. L’arte di salire le montagne perciò si addosserà una nuova complessità; ogni giudizio dovrà tenere in considerazione più variabili, e magari salirà il livello di una ancora più generale incomprensibilità.
Questi dunque sono gli sviluppi futuri di un’attività umana troppo limitata ad alcuni uomini per essere generalmente compresa come un’arte.
Mentre non è certo provato che l’alpinismo migliori l’uomo che lo pratica (per lo meno moralmente), è invece fuori discussione che migliori l’umanità, attivando ciò che è un continuo desiderio di essa, di osare e agire. La conquista del Monte Bianco, la vittoria sull’Everest e altre possono essere paragonate alla conquista dei Poli, della Luna e via dicendo.
Anche l’alpinismo quindi è storia dell’Uomo.
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Davvero interessante (oltre al testo dell’articolo, offcourse…) la parata di copertine d’epoca di molti “testi sacri” della letteratura d’alpinismo. In particolare quella di Herman Bull Achttausend drüber und drunter risalente al 1954, titolo che sarebbe diventato E’ buio sul ghiacciaio nell’edizione italiana del 1984 delle Edizioni Melograno (con traduzione di Irene Affentranger ed introduzione di Alessandro Gogna). La prima edizione italiana di questo bellissimo libro comunque fu quella della SEI di Torino del 1960.
L’ Alpinismo…! sicuramente fa parte della “Storia dell’ uomo…! (Una Grande Parte..! ) grazie…!! Alessandro….