Motti, visionario dell’eterno ritorno

Motti, visionario dell’eterno ritorno (RE 013)
di Carlo Caccia
(pubblicato su Vèrtice, annuario del CAI di Valmadrera, 2002 e su (marzo 2003) http://www.intraisass.it/ritratto02.htm)

Lettura: spessore-weight(3), impegno-effort(2), disimpegno-entertainment(3)

Doktor Faustus è l’ultimo grande romanzo di Thomas Mann. Pubblicato nel 1947, è la tragica storia del musicista tedesco Adrian Leverkühn che, come Faust, ottenne dal demonio anni di stupefacente attività creativa ed intellettuale in cambio della dannazione eterna. Mann affida la narrazione della vicenda a un amico di Adrian, il letterato Serenus Zeitblom, che con ricercata misura ed equilibrio (e non senza timore), racconta una vicenda dai tratti inquietanti e misteriosi, un viaggio in un mondo dove l’umanistica fede nella ragione vacilla irrimediabilmente e nel quale momenti e luoghi sono impregnati di arcano medioevo. E tanto impegnativo e oscuro sarebbe stato il soggetto da trattare che lo scrittore, premio Nobel nel 1929, prima di intraprendere la grande fatica invoca le Muse con le stesse parole di Dante Alighieri: «Lo giorno se n’andava e l’aer bruno / toglieva gli animai che sono in terra / dalle fatiche loro, ed io sol uno / m’apparecchiava a sostener la guerra / sì del cammino e sì della pietate, / che ritrarrà la mente che non erra. / 0 Muse, o alto ingegno, or m’aiutate, / o mente che scrivesti ciò ch’io vidi, / qui si parrà la tua nobilitate (Inferno, canto II)».

Chiedo immediatamente scusa al lettore per la lunga citazione ma, nell’accingermi a ricordare la figura di Gian Piero Motti a vent’anni dalla sua scomparsa, sono proprio i versi del sommo poeta fiorentino – per l’uso che ne fa Thomas Mann – a venire alla mente con prepotenza. Il motivo di ciò lo lascerò soltanto intuire – anche se, per chi conobbe Gian Piero, è quasi certamente già chiaro – e dirò invece che l’idea di scrivere qualcosa a proposito di colui che è stato definito “il filosofo dell’alpinismo” era già da tempo quiescente nella mia testa. Non so se Motti avrebbe approvato questo lavoro, tuttavia il fatto che egli abbia dedicato pagine mirabili a un amico scomparso, Paolo Armando, mi lascia fiducioso. Vent’anni, dicevamo. Ebbene sì: tanto tempo è già passato dalla morte di uno dei più raffinati interpreti dell’alpinismo italiano tra gli anni Sessanta e Settanta, scrittore prolifico e studioso di sensibilità e acutezza straordinarie. Ma ogni etichetta e definizione sembra star stretta al “Principe”, come fu chiamato per la sua proverbiale eleganza nell’arrampicata, e affermare che Motti fu il padre del “Nuovo Mattino” potrebbe forse collocarlo per molti in una posizione maggiormente definita se non fosse che, purtroppo, proprio il concetto di “Nuovo Mattino” è stato spesso travisato e ridotto a sinonimo di “arrampicatore con fascia nei capelli”. Lo sforzo di queste pagine sarà allora quello di presentare in modo più o meno originale la figura dell’alpinista torinese basandosi sui suoi scritti e, soprattutto, sulle preziose testimonianze di alcuni tra coloro che, in modi diversi, ebbero modo di conoscerlo. «I suoi articoli e studi dicono di lui più di quanto non appaia a prima vista – spiega Alessandro Gogna, che lo incontrò per la prima volta nel 1967 ai piedi dell’Uja di Mondrone (ciò è erroneo, non per colpa di Caccia. In realtà il primo incontro avvenne nel dicembre 1966 al rifugio Torino, NdR) – Con questo non voglio sostenere che abbia sempre scritto “tutto”, perché molte idee non ebbe mai il coraggio di fissarle sulla carta: si limitava a discuterne con pochi amici, nell’anima dei quali rovesciava un incredibile flusso di pensieri».

Gian Piero Motti nacque a Torino il 6 agosto 1946. Si accostò giovanissimo alla montagna e nel 1972 venne ammesso nelle file del Club alpino accademico italiano. L’anno seguente entrò a far parte anche del GHM (Groupe de haute montagne) francese e, a metà degli anni Settanta, aveva alle spalle una notevole attività alpinistica nella quale spiccano la prima solitaria del Pilier Gervasutti al Mont Blanc du Tacul, altre ripetizioni di rilievo nel gruppo del Bianco (una tra tutte: la Cassin sulla Nord delle Grandes Jorasses), salite di grosso impegno tecnico in Dolomiti (come lo Spigolo degli Scoiattoli della Cima Ovest di Lavaredo), numerose prime invernali e un’importante attività di ricerca sulle pareti delle valli piemontesi. Un curriculum da far invidia ai più accaniti collezionisti di salite che è tuttavia rimasto almeno in parte nell’ombra, in pratica oscurato dalla ingente mole di articoli, monografie, introduzioni, traduzioni, opere di grande respiro alle quali Motti lavorò con alacre puntiglio e a cui è legata la celebrità di quell’uomo “alto, fragile e bello” – sono parole di Andrea Gobetti – che nella notte tra il 21 e il 22 giugno 1983 decise di lasciarci e di tornare tragicamente, di propria volontà, da dove era venuto.

Il percorso di Motti rappresenta un fatto unico e straordinario nella storia dell’alpinismo, un cammino del tutto personale che, come spiega ancora Gogna «si mosse da alcune domande fondamentali sul passato e sul presente, riferite ovviamente anche alla montagna. La svolta decisiva avvenne il 15 giugno 1975 (altro errore, non per colpa di Caccia: in realtà è il 25 giugno 1975, NdR) quando egli ebbe, ricercata, un’esperienza visionaria mentre si trovava nella sua amata Val Grande di Lanzo. Dopo quel momento molti si resero conto che quell’uomo “aveva visto” più degli altri e “sapeva” più degli altri».

Se è vero che lui stesso riconobbe che l’esplorazione delle montagne era stata compiuta da due categorie di alpinisti, quelli “del pensiero” e quelli “dell’azione”, e che egli potrebbe a prima vista rientrare a pieno titolo nel secondo gruppo, ad un’analisi attenta il nostro protagonista trascende una distinzione che appare piuttosto scontata. Gian Piero comprese che l’alpinismo non era soltanto ciò che tutti vedevano, raccontavano o praticavano: scendendo oltre la ruvida superficie si poteva scoprire come fosse un’allegoria del mondo e della vita, una sorta di punto d’osservazione privilegiato dal quale scrutare con attenzione fatti e accadimenti di ogni genere. Le parole di Ivan Guerini, per molti soltanto l’artefice di alcune grandi vie della Val di Mello ma in verità instancabile “lettore” della roccia, in grado di sviscerare il senso più recondito delle cose (basta un’affermazione apparentemente banale per procurare la sua incredibile reazione che, spesso, si materializza in interminabili conversazioni telefoniche), le parole di Guerini, dicevamo, sono a questo proposito illuminanti: «Per la semplicità del suo modo di scrivere – spiega il primo salitore di Oceano irrazionale -, coadiuvato da una formidabile lucidità analitica e da una perspicace capacità deduttiva, Gian Piero riuscì a farsi strada con sapienti collegamenti fino al senso delle vicissitudini storiche più velate e complesse. Avendo ben chiaro ciò che voleva dire, più che trasferire nell’alpinismo i concetti acquisiti tramite le sue letture che spaziavano in diversi campi culturali, egli interpretò fatti non indagati arrivando a far luce sui punti dubbi e oscuri della storia». Motti, in altri termini, come chiarisce Roberto Mantovani, attuale direttore della Rivista della Montagna, «ebbe il coraggio di esplorare una dimensione che non era soltanto alpinistica e si lanciò in un mondo complesso, scoprendo ciò che risulterebbe difficile da spiegare: spinse il suo sguardo oltre i presunti confini della ricerca storica e intuì ciò che tutti ignoravano. Dipinse panorami nuovi e divenne una sorta di profeta, un uomo in grado di comprendere ciò che sarebbe accaduto in seguito al “tradimento” del “Nuovo Mattino”».

Molti lo conoscono attraverso i suoi scritti, tra i quali ve ne sono alcuni diventati punti di riferimento per un’intera generazione di alpinisti. Ma cosa ha veramente voluto comunicare Motti attraverso pagine memorabili come Riflessioni, I Falliti, Il Nuovo Mattino, Zero the Hero o Arrampicare a Caprie? Una risposta completa sarebbe troppo complessa e richiederebbe un’analisi attenta di ognuno degli articoli citati: diremo soltanto che Gian Piero, attraverso una meditata provocazione, voleva presentare un “modello” di alpinismo antitetico a quello allora comunemente inteso. «Il “Nuovo Mattino” – continua Mantovani – all’inizio fu un momento di forte rottura. Non fu la negazione dei pantaloni alla zuava e l’esaltazione della fascia nei capelli: Motti desiderava “soltanto” proporre un alpinismo più umano, slegato dalla sofferenza e dall’ostentato e retorico eroismo. E per far questo era necessario scendere, abbandonare per un certo tempo le grandi montagne e dedicarsi ad avventure su pareti che, salendo dai prati verso i prati, permettevano di cancellare l’idea del dolore e della morte con la conseguente riacquisizione di un profondo umanesimo della montagna». Era l’esaltazione della vita in parete, di un ritrovato rapporto tra l’uomo e la natura con il gesto che, compiuto sulle rocce del fondovalle piuttosto che sulle ciclopiche muraglie alpine, non perdeva comunque alcun significato: potrebbe sembrare paradossale ma, a livello di vissuto interiore, per il “Principe” esisteva perfetta coincidenza tra il trovarsi sulla Nord-ovest del Civetta o su una solare placca granitica a pochi metri da terra. Scendere per poi risalire, lasciare il mondo di cristallo dell’alta quota per tornarvi con uno sguardo nuovo: ecco l’essenza del “Nuovo Mattino” che, nelle intenzioni di Motti, non avrebbe avuto alcuna ragione di esistere se non in funzione delle “Antiche Sere”, ossia del grande ritorno che ricorda quello di Ulisse ad Itaca. Anche se, come spiega perplesso Alessandro Gogna, «le “Antiche Sere” sono forse la contemplazione dell’irraggiungibile». L’arrampicata californiana, della quale tanto si parla quando si ricorda il nostro protagonista, non era il suo “fine ultimo”: per Gian Piero rappresentava soltanto una chiave, un possibile mezzo per illustrare la rivoluzione. Spiega Ivan Guerini: «Non era difficile capire che per lui la psicanalisi e il mito non erano un fine esaltante, ma uno strumento interpretativo di significati, tanto quanto l’alpinismo californiano era un pretesto per parlare del “Nuovo Mattino”». Egli, in verità, aveva in mente una California ideale che avrebbe potuto realizzarsi in qualunque luogo. Quando, era il 1980, la Rivista della Montagna pubblicò Zero the Hero, furono molti coloro che non capirono il senso di quella pagina bianca e delle carte del “matto” e dell’“appeso” dei tarocchi inserite nel testo. Quella volta Motti aveva lanciato una provocazione assoluta, proclamando a gran voce la necessità di azzerare ogni cosa ribaltando un ordine ormai privo di ogni senso e necessità. Fu una sorta di estremo appello che cadde nel vuoto – e forse non poteva essere altrimenti – e Arrampicare a Caprie, pubblicato nel 1983 e denso di riferimenti psicoanalitici, non è altro che l’amara constatazione della fine del “Nuovo Mattino”, il crollo di un’illusione che diventa metafora della vita. «Il free climbing – scrive Motti in quello che fu il suo ultimo lavoro -, inteso non tanto nel senso di “arrampicata libera” ma in quello più ambizioso e filosofico di “libero arrampicare”, pareva essere nato come espressione di libertà e di assoluta disinibizione. Ahimè… ora ci si va accorgendo che invece ha portato gli alpinisti a schiavitù, dogmi, imposizioni, divise da portare, fazioni, provincialismi, miti e mitucci dell’uomo muscolo alla Bronzo di Riace, glorie e gloriuzze, re e reucci di paese… un quadro forse peggiore di quello dell’alpinismo di ieri. Il “Nuovo Mattino” rappresentava la possibilità di estendere la dimensione dello spirito a quelle strutture rocciose che erano invece ripudiate dagli alpinisti tradizionali. Era la possibilità di vivere la dimensione spirituale in una fase critica e delicata, in cui era necessario allontanarsi per un po’ dalla grande montagna […]. Ma dopo era necessario tornare, discendere; e il “Nuovo Mattino” era nato proprio come ponte per raggiungere la pianura dalla quale si sarebbero cominciate a scorgere le altre montagne, quelle vere, quelle che avrebbero portato all’Altopiano della Vita […]».

Il mito della caverna di Platone

L’ideale di vita di Gian Piero Motti, ridotto ai minimi termini, era la ricerca della propria strada, della propria via: un cammino personale che, una volta individuato, si dischiude man mano che lo si percorre. «Quando gli chiesi notizie sulle pareti della Valle dell’Orco – racconta Guerini -, mi disse che in Val Masino esistevano placconate non ancora salite, alte e difficili. Oggi, ripensando a quel momento, credo che Gian Piero abbia voluto sussurrarmi di non seguire la strada degli altri ma di cercare la mia: “Quella che ora non vedi ma che si dischiuderà mentre la percorri!”. E così continuai per la via già imboccata sulle pareti delle Grigne».

«Era un uomo impegnato in una lotta totale – ricorda Gogna -, che aveva capito che “la salvezza” non può arrivare dall’alleanza con gli altri. Per questa ragione era forte, volitivo e testardo nelle cose che gli interessavano. Fu un rivoluzionario, ma nel profondo: ciò contrastava con il suo comportamento, con il suo fare borghese ostentato, con il suo vestire sempre in ordine e con il suo intellettualismo. Era, in breve, una persona che non sapeva fingere».

Dalle parole di Roberto Mantovani, al quale Motti ha probabilmente lasciato non poca parte della sua eredità spirituale, emerge un personaggio di grande spessore culturale, di mentalità apertissima e, particolare di non secondaria importanza, autodidatta senza compromessi: un giovane, Gian Piero, che risaltava nel rigido ambiente alpinistico torinese della scuola Gervasutti, un arrampicatore di classe che si faceva notare nei rifugi per la sua finezza e sensibilità, in grado di sgretolare la spesso ostentata volgarità di certi montanari incapaci di strutturare il più elementare ragionamento. «Era spesso portatore di grande allegria – ricorda ancora Mantovani -, amante della compagnia oltre che, naturalmente, incredibile conversatore. Non gli mancarono le fidanzate, tuttavia vedeva in personaggi come Gervasutti, al quale dedicò uno dei capitoli più straordinari della sua Storia dell’Alpinismo qualcosa di elevato e nobile». Un punto di vista, quello del direttore dello storico periodico torinese, che coincide con quello che Guerini presenta in significativo aneddoto: «Era il 1981. Ricevetti una telefonata di Gian Piero che voleva avere la mia biografia per l’Enciclopedia della Montagna. Quando ci incontrammo, in quel di Torino, passammo insieme un’intera giornata e mi resi inaspettatamente conto di un lato nascosto della sua personalità: nei momenti in cui si sentiva a suo agio era un personaggio di squisita ironia.

Mito della caverna e teoria delle ombre (Platone)

Non ricordo se durante i nostri incontri successivi passammo più tempo a parlare o a ridere degli aspetti più paradossali dell’esistenza… Con lui gli argomenti interessanti venivano a galla spontaneamente, con naturalezza, ma capitava spesso di finire seduti a terra, uno di fronte all’altro, a ridere e soltanto ridere, come se l’intensità di quei ragionamenti vorticosi ci avesse svuotati. L’ironia, comunque, non era un prendersi gioco della realtà, ma un modo per visualizzare ciò che ci sembrava grottesco». Abbiamo già accennato all’eleganza di Gian Piero che si manifestava in pienezza durante l’arrampicata: lo stesso Guerini, che la prima volta lo vide impegnato sulla Gogna in Medale, lo ricorda fulmineo, leggero, capace di “scorrere in verticale” con movimenti ampi ed eleganti. «Era una persona dai modi gentili e delicati – aggiunge Ivan – tanto nello scalare quanto nel pensare e nello scrivere. Era un ragazzo terribilmente appassionato che si recava spessissimo in montagna per compiere salite belle ed impegnative, sempre entusiasta ed eccitato dalla scoperta di posti nuovi. Ma era anche un giovane che leggeva in continuazione libri su libri, testi faticosi e difficili».

Così ancora oggi non è difficile immaginarlo immerso nei suoi studi, impegnato in un’avventura davvero titanica alla quale accennò, non troppo vagamente, in una lettera inviata a Ugo Manera nel 1980. Motti scrisse di «una forza enormemente più grande e più forte di me» che lo aveva chiamato ad «un lavoro oscuro, terribilmente difficile ed ingrato. Un lavoro compiuto e da compiere tutto con il pensiero, dove si incontrano pareti immense, sconfinate, da affrontare in una solitudine che non lascia speranze». Egli giunse a scorgere simboli e significati oltre la scorza delle rocce, a penetrarne il mistero, a profetizzarne il divenire in vana attesa del sospirato ritorno. Il suo viaggio non ebbe mai termine e le visioni di un tempo – come quella dell’agosto 1973, in compagnia di Roberto Bianco, ai piedi dei Piloni del versante meridionale del Monte Bianco – erano destinate a rimanere tali. «Ero in testa in quel tratto – scrive Gian Piero nel numero del 1979 di Scandere, il glorioso annuario del CAI di Torino – Ancora una volta ebbi l’apparizione. E vidi. Vidi la parete del sogno, la parete perfetta nella luce delle prime ore del pomeriggio, i tre pilastri rossi, verticali, simbolici. In quell’attimo tutto tornò sacro, svanì l’incantesimo malvagio, mi sentii come purificato e leggero (carattere tondo mio)».

Mito della caverna e teoria delle ombre (Platone)

Sono parole che richiamano alla memoria quelle di un altro grande, il francese Bernard Amy, che nei suoi racconti parlava di una montagna magica, allegoria del Caos e del Cosmo, del disordine e della razionalità, delle più alte aspirazioni e dei più squallidi desideri.

La montagna, in sintesi estrema, come luogo privilegiato per elevarsi oltre l“insostenibile pesantezza dell’essere” ma anche dove lasciar scatenare l’egoismo e il lucido desiderio di annientare persino il proprio simile.

«Oggi – fruga nei ricordi Ivan Guerini -, ho l’impressione che certe considerazioni di Gian Piero siano state tanto intime e profonde da assomigliare a quei sogni dei quali non si ricorda nulla ma che, a distanza di tanto tempo dischiudono il loro significato.
L’ultima volta che lo vidi fu nel novembre 1982. Nel tardo e piovoso pomeriggio di quell’intensa giornata d’autunno, durante la quale mi parve di aver parlato di tutto, mentre si andava alla stazione e il traffico sfrecciava convulso intorno a noi, egli guidava piano pronunciando lentamente le parole.
Sembrava quasi evidenziare che, nello stesso momento, la realtà è composta da elementi paralleli e differenti…
Lo salutammo, io e Monica, di corsa verso il treno in partenza, e quando giungemmo davanti al vagone provammo il rammarico di chi intuisce di aver visto per l’ultima volta una persona cara: mi voltai per un ultimo saluto ma egli era già scomparso, come uno spettro nel mondo frettoloso dei vivi.
Ci lasciò l’anno seguente.
Un giorno Monica mi disse che nella vita c’è un punto, non importa a che altezza, giunti al quale si decide inconsciamente di cominciare a morire…».

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Motti, visionario dell’eterno ritorno ultima modifica: 2018-07-15T05:20:06+02:00 da GognaBlog

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4 pensieri su “Motti, visionario dell’eterno ritorno”

  1. Motti e diventato un mito anche perché é particolarmente misterioso. Personalita’ estremamente complessa e poliedrica, si presta a molte interpretazioni. Ognuno po’ vedere in lui il lato che lo affascina maggiormente. Certo, ha lasciato il segno se dopo così tanto tempo parliamo così tanto di lui.

  2. Gian Piero Motti è uno dei miei riferimenti più importanti. Eppure non l’ho mai incontrato, né posso dire di conoscerlo bene. Ringrazio da tempo chi me lo racconta, ma colgo sempre al riguardo una sorta di “mistero”. Non negli stessi scritti di Motti, che mi risultano stimolanti se non abbastanza chiari. E ancora attuali. No, sono proprio i testimoni che mi sembra dicano e non dicano, che vedo in qualche modo reticenti. Senz’altro non per disonestà, piuttosto per rispetto. Così che quell’uomo mi attira ricorrentemente.

  3. Motti, visionario dell’eterno ritorno

    Ho letto l’articolo, interessante e ben fatto.

    L’autore l’ha intitolato: “Motti, visionario dell’eterno ritorno”.

    Anche dopo un’attenta rilettura non traspare alcunché che identifichi Motti quale visionario dell’eterno ritorno, se intendiamo come “eterno ritorno” quel pensiero abissale della filosofia Nietzschiana.

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