L’apprenti montagnard di Rébuffat
(il valore della “gavetta” in montagna)
di Carlo Crovella (4 aprile 2018)
Lettura: spessore-weight(2), impegno-effort(1), disimpegno-entertainment(2)
Gaston Rébuffat, il “Cantore delle Calanques marsigliesi” perché nato in riva al mare, è famoso per aver inventato il modello editoriale delle “Cento più belle ascensioni”. Si tratta di raccolte di itinerari scelti ma tutti relativi a un massiccio definito e descritti in ordine crescente di difficoltà e impegno.
Oltre trent’anni fa, uno dei miei maestri di montagna, Carlo Ravetti (medico torinese, grande appassionato di montagne con o senza sci), mi fece scoprire l’introduzione di Rébuffat al suo volume sul Monte Bianco (il capostipite della collana). Si tratta di un saggio che costituisce il vero distillato della filosofia rébuffatiana, a cominciare dal titolo: L’apprenti montagnard, tradotto in italiano con Diventare alpinista.
A ben vedere, trovo che la traduzione in italiano sminuisca il significato ideologico dei termini originari. Montagnard è qualcosa di diverso e di più esteso del semplice alpinista, intendendo per quest’ultimo colui che si arrampica su rocce e ghiaccio: montagnard è invece chi si inserisce nelle leggi della montagna, le impara fino ad acquisirle e a muoversi in un mondo che originariamente non era il suo. Per questo lo scritto di Rébuffat non riguarda solo chi arrampica, ma tutti coloro che frequentano la montagna in ogni stagione e in ogni veste (per esempio anche con gli sci).
Poi c’è un tocco di magia che aleggia intorno al termine apprenti (che in francese impone l’accento sulla i finale): immediatamente emerge l’immagine dell’“apprendista stregone”, che molti di noi conoscono in versione disneyana, ma la cui idea originaria risale a Goethe, più o meno a fine ‘700. La trama è molto semplice: un apprendista stregone, durante l’assenza dello stregone, elabora un incantesimo per terminare senza fatica il compito assegnatogli. Ma, data l’inesperienza, non riesce a frenare l’incantesimo e rischia di esserne travolto, finché torna lo stregone che normalizza la situazione e punisce severamente l’apprendista. La definizione di apprendista stregone è diventata celebre e indica i guai che derivano da faciloneria e scarsa capacità.
Chissà se, inconsciamente, Rébuffat faceva riferimento a tutto ciò mentre sceglieva il titolo della sua introduzione? Certo è che Gaston si preoccupa di avvertire che, per andare in montagna, non ci si può improvvisare e che faciloneria e superficialità sono il prologo di intoppi e incidenti.
Nel testo il francese sviscera i concetti e fornisce degli esempi pratici. Il tutto si inserisce nell’alveo ideologico secondo il quale l’apprendista deve crescere piano piano, anche attraverso piccoli errori: l’importate è sapersi valutare una volta tornati a valle, saper individuare dove si è sbagliato e acquisire la correzione per non sbagliare più in futuro. Solo attraverso questa politica di piccoli passi (che non a caso si sposa con la sequenza degli itinerari descritti in difficoltà crescente) si può diventare dei “veri” alpinisti.
In pratica Rébuffat descrive il trend di maturazione alpinistica dando per scontato che parta dalla “gavetta” e che la gavetta si ripropone (adeguandosi) all’inizio di ogni stadio di maturazione.
Tutto l’opposto della filosofia oggi dominante, quella del “tutto e subito”: chi si mette ad arrampicare, esige immediatamente di muoversi su gradi elevati, chi fa cascate vuole subito cimentarsi sulle stalattiti strapiombanti, chi scia fuori pista, si trova in poco tempo a scendere canali a 50 gradi.
È vero che l’attuale tecnologia dei materiali permette di bruciare le tappe, ma io sono convinto che il binomio mente-fisico ha ancora bisogno della gavetta. Quando ci si impegna in una stagione di III grado (magari con qualche spunto sul finale), si incamera la relativa esperienza e si è pronti, l’anno dopo per una stagione di IV grado. Al termine, si sarà maturati a tal punto da poter impostare, per l’anno successivo ancora, una stagione di V grado e così via. Poi ognuno troverà il livello massimo oltre il quale non riesce a proseguire, ma in ogni caso restano immagazzinati nella memoria personale alcuni elementi che prescindono dall’evoluzione tecnologica dei materiali: il colpo d’occhio, il senso dell’itinerario, la capacità di analisi della situazione, la capacità decisionale…
In una delle riviste italiane indipendenti (cioè non CAI), leggo questo sottotitolo di un articolo: “Devi solo guadarti intorno, pianificare e decidere. Perché è tutto lì, a portata di mano, ed è tutto così meravigliosamente libero, da far paura.” Non voglio ora avventurarmi nell’ennesima “trombonata” sul come eravamo. Certo è che un approccio di questo tipo, sintomatico dei giorni attuali, “sa” molto di tracotanza: è il singolo individuo che “decide” cosa fare, come farlo, dove farlo.
Per chi è venuto su con la filosofia classica, di cui i testi rebuffatiani sono un esempio, l’approccio appare stridente, anche se legittimo. Rébuffat non vieta l’accesso alla montagna, anzi i suoi testi sono dei veri inviti alle cime. Ma suggerisce come arrivare, gradino dopo gradino, a essere degni di ogni itinerario, di ogni vetta. Il montagnard non è l’uomo che “decide” e “impone” la sua volontà alla montagna, ma è colui che sa individuare quali itinerari sono, in quel momento, alla portata, sia per variabili oggettive (condizioni del momento) che soggettive (esperienza e allenamento individuali). Un approccio più umile, ma più coerente con il concetto che l’uomo è un ospite nel mondo della montagna e come tale deve muoversi in punta di piedi, non agire da “padrone”.
Per Rébuffat, uno dei punti in cui si gioca la partita è il rispetto degli orari: scesi dai monti, anche quando “vincitori”, ci si deve sempre interrogare se, dove e come si sono eventualmente commessi degli errori e lo si può scoprire confrontando i propri orari con quelli riportati sulle guide. L’individuazione del momento in cui si è perso la via, o di quello della doppia montata male (che infatti si è incastrata), o dell’imbranataggine nel calzare i ramponi…sono elementi che ci permettono di acquisire esperienza e di non riproporre in futuro gli stessi errori.
Mi viene da pensare: oggi come oggi, troppe volte si vedono alpinisti e soprattutto scialpinisti impegnati sul terreno quando è ancora “troppo presto” oppure è già “troppo tardi” nel corso della giornata. L’individuazione dei giusti orari è il passo da compiere subito dopo aver saputo scegliere la gita giusta.
Il pensiero rébuffatiano raggiunge la massima espressione poetica e ideologica nel celebre binomio “Entusiasmo e Lucidità”. Si tratta dei due elementi basilari per andare in montagna, gustando il divertimento ed evitando i pericoli: ci vuole entusiasmo per caricarsi sulle spalle zaini pesantissimi, per alzarsi in piena notte, per trovarsi abbarbicati fra immensi strapiombi o, sci ai piedi, in cima a vertiginosi pendii. Ma ci vuole lucidità per saper fare, in qualsiasi momento, l’analisi fredda, ingegneristica e per certi versi “crudele” della propria situazione, saper stroncare le ambizioni prestazionali e magari accettare di tornare indietro, apparentemente “sconfitti”.
Ancora una volta leggo un contrasto stridente fra questa impostazione ideologica (alle quale appartengo per contestualizzazione storica) e l’andazzo oggi dominante, dove l’entusiasmo è spesso sostituito dalla frenesia o dall’euforia e la lucidità manca del tutto, almeno come la definiva Rébuffat. Si legge di gente che attacca cascate in giornata di rialzo termico, di altri che scendono canali nel tardo pomeriggio (al termine di una giornata assolata), di arrampicatori che non sanno piantare un chiodo e magari neppure inserire un nut nelle fessure. Eppure nessuno “sa” tornare indietro, perché l’unica variabile sul tavolo è la volontà umana.
Ma la volontà umana, come nella favola dell’apprendista stregone, spesso non permette di controllare adeguatamente le altre variabili e la situazione sfugge di mano. È così necessario che ogni tanto riemerga lo stregone titolare per mettere a posto le cose.
La sistematica lettura dell’apprenti montagnard di Rébuffat farebbe tornare tutti, vecchi e nuovi alpinisti, con i piedi per terra.
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Parole sante! L’esperienza non si fa di corsa e se così non fosse la natura ci pensa immediatamente a ricordarcelo.
È un elogio alla lentezza…
Ma ci sarà poi un’attività che per essere davvero penetrata, a fondo, non richieda lentezza, gradualità e costruzione dell’esperienza?
L’apprenti montagnard
“Grazie a tutte queste ascensioni vi ho ritrovati, compagni miei di tante avventure.
Insieme abbiamo faticato sulle morene, abbiamo tremato di freddo nei bivacchi. Il sole ci ha riscaldati e poi bruciati, il vento accarezzati e poi sferzati. Ci siamo spellati contro il granito e le nostre ginocchia si sono ‘rotte’ scendendo lungo i ghiaioni. Le corde doppie, bagnate, sono state dure da recuperare; a volte si sono incastrate. Il fulmine ci ha frastornati e impauriti. Insieme abbiamo conosciuto e condiviso l’ansia, l’incertezza, la paura. Ma è proprio lassù che abbiamo scoperto in fondo a noi stessi tanta gioia di vivere.
E poi c’è l’amicizia.
Ai Clocher-Clocheton come al Pic de Roc, alla Sans Nom come alla Peutérey, vi ho ritrovati, solidi compagni. Qui Jean mi è servito da scala, là con Lionel ho diviso un limone; sulla cresta Edouard recupera la corda doppia; altrove Henri mi ha insegnato a scalinare…
Henri, soprattutto, per molti non sei nulla, ma per me sei ‘il fratello maggiore della Montagna’.
Mi auguro che tutti gli alpinisti abbiano un ‘fratello maggiore’ a cui si guarda con stima e affetto, che sorveglia il modo in cui ci si lega e che, pur iniziandoci a una vita dura, ha per noi premure quasi materne.
È lui che vi fa partecipi della sua sovranità di qualche istante a quattromila metri e che vi presenta alle cime d’intorno come un giardiniere ai suoi fiori. È lui che si ammira, poiché il rifugio è la sua casa e la montagna il suo regno.
L’amicizia di un essere così ricco non si compera.”
(Gaston Rébuffat, L’apprenti montagnard )