Le parole della vertigine
(per dare senso all’inutile)
di Enrico Camanni
(già pubblicato su InMovimento, dicembre 2016)
In verità il resoconto della scalata è parente stretto della pornografia. C’è, in misura diversa, lo stesso desiderio di aderire alla realtà e la poca cura per lo stile e per l’opera (Sylvain Jouty).
I1 24 aprile 1336 Francesco Petrarca decide di salire il Mont Ventoux per guardare la Provenza dall’alto. La Lettera del Ventoso è il primo récit d’ascension della storia, anche se il poeta non ha velleità alpinistiche. Il suo viaggio è puramente interiore, utilizza la montagna come luogo di meditazione. In vetta Petrarca si sofferma sulle parole di Sant’Agostino: «E gli uomini se ne vanno ad ammirare gli alti monti e i grandi flutti del mare e i larghi corsi dei fiumi e l’immensità dell’oceano e le rivoluzioni degli astri, ma trascurano se stessi».
Passano quattro lunghi secoli prima che i cittadini mettano gli occhi sulle montagne e immaginino di scalarle: il Colle del Lys nel 1778 e il Monte Bianco nel 1786, fino all’epica gara per il Cervino che nel 1865 chiude la fase esplorativa. Proprio intorno al Cervino nascono alcuni libri di successo: The ascent of the Matterhorn di Edward Whymper e il Monte Cervino di Guido Rey.
La scalata è figlia della cultura urbana; al traino viene l’alpinismo delle guide. Mentre i cittadini scrivono bulimicamente, intingendo la piccozza nell’inchiostro, i montanari raccontano poco di sé e delle loro cime. Le rare eccezioni confermano la regola: Tita Piaz nelle Dolomiti, Christian Klucker in Engadina, Mattias Zurbriggen sul Monte Rosa. Sono tre guide di montagna istruite.
Acquarello di Marquardt Wocher (1790) sulla salita al Monte Bianco di de Saussure
Il resto è letteratura di città: riservata, iniziatica, inventata dagli alpinisti per i loro simili. La vertigine della scalata e il racconto della vertigine sono romantici intrattenimenti di città, e romantica è la letteratura dell’alpinismo. Come potrebbe essere diversamente? Non c’è niente di necessario nella scalata, tutto è gratuito, insensato, inutile. Il famoso libro della guida francese Lionel Terray s’intitola appunto I conquistatori dell’inutile. Ma se si confronta la pratica della montagna con altre attività affini, si scopre che nell’alpinismo il racconto è più importante; sembra quasi la conseguenza necessaria dell’azione, l’unica cosa che sappia dare spessore al sogno, all’avventura e al ricordo. Il racconto è la sola cosa che resta, di un passaggio in parete e del superamento di una cresta.
In questa prospettiva la letteratura alpinistica, che è quasi sempre autobiografica, appare come lo sforzo ininterrotto di liberare la scalata dalla forza di gravità, digerire il rischio, eliminare la fatica di salire e la paura di cadere, dare senso a ciò che non ne ha. Penna e piccozza non sono un binomio retorico, ma le due facce della stessa medaglia, i due termini attraverso cui le montagne prendono spessore e memoria nello sguardo, nell’esperienza e nella rielaborazione intellettuale di chi sale in cima. Henri Beraldi, bibliofilo francese, sosteneva che un alpinista esiste veramente solo se scrive, oltre ad arrampicare. Nella provocazione c’è del vero, perché in assenza di regole e testimoni (l’alpinismo è un gioco fondato su regole non scritte) l’unica certificazione della scalata sta nel racconto. Altrimenti l’impresa non esiste.
«L’alpinismo nasce con la coscienza di conquistare e con la necessità di raccontare», aggiunge lo storico dell’alpinismo Sylvain Jouty. Per questa ragione le imprese di Rotario d’Asti sul Rocciamelone (1358) o di Antoine de Ville sul Mont Aiguille (1492) non sono ancora alpinismo, mentre lo diventa la prima ascensione del Monte Bianco del 1786, anche se coincide con la prima falsificazione storica perché nel nome del «buon selvaggio» si attribuisce tutto il merito dell’impresa all’ingenuo portatore Jacques Balmat negando il ruolo fondamentale di Gabriel Paccard, medico, uomo di scienza ed esploratore.
Il racconto alpinistico stenta da sempre a uscire dal realismo. «In realtà – affonda Jouty – il racconto di scalata è parente stretto della pornografia: vi si trova, anche se in misura diversa, lo stesso desiderio di aderire alla realtà e la poca cura per lo stile e per l’opera». Che sia bene o mal scritto, il resoconto della scalata non cambia di valore «poiché il suo effetto non è propriamente letterario ma è prodotto dall’identificazione del lettore alla situazione descritta». Gli alpinisti scrivono per i loro simili ed è dagli altri alpinisti che vogliono essere giudicati.
Questa povertà espressiva è controbilanciata, ma non risolta, dal sentimento romantico, idealista, talvolta eroico e altre volte visionario, che pervade tutta la letteratura di scalata almeno fino agli anni Settanta del Novecento, quando gli alpinisti si accorgono di avere sempre raccontato bugie e cominciano a prendersi come sono, a scrollarsi lo stereotipo, ad ammettere le contraddizioni. A raccontarsi sul serio.
Ed eccoci al passaggio finale della storia, che potrebbe rivelarsi un vicolo cieco ma anche aprire inaspettate vie. Dopo il bagno di umiltà degli anni Settanta, dopo la radicale contestazione dell’alpinismo eroico, l’arrampicata e l’alpinismo sportivo hanno portato al drastico ridimensionamento, se non alla fine, della letteratura di genere. Come ogni sportivo che si rispetti, l’atleta delle falesie o delle montagne del Duemila non sente il bisogno di raccontarsi, se non usando – con estrema asciuttezza di linguaggio – i nuovi canali internet e social. Messaggi spezzati comunicano pillole di vita privata incrociate con indicazioni di scalata. In tempo reale, o quasi.
La lunga relazione romantica tra l’alpinismo e il récit d’ascension si è incrinata con la dimensione sportiva, sempre presente e sempre rimossa nel passato, che ha reso tutto più visibile, più manifesto, più sincero, forse più banale. Quella dissimulazione che sorreggeva l’azione e il suo racconto, pervadendo di mistero gli scenari, è scomparsa come la nebbia del mattino e ha aperto gli sguardi su pareti fatte di roccia e alpinisti fatti di carne. Il monte è nudo, e anche il montanaro.
Così ci mancano le storie. Ci manca il racconto. Per sopravvivere, l’alpinismo ha assoluto bisogno di essere narrato, e non importa il modo, importa il racconto. Che sia fiction, che sia saggio, che sia messaggio, purché sia.
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La letteratura di montagna spesso narra di imprese che al di là dell’aspetto puramente tecnico di raggiungere la vetta mette in evidenza il bisogno di trascendenza ed esplorazione del mondo interiore.Un viaggio dentro noi stessi.Ciascuno ha un luogo ideale.Tutti possiamo scegliere di leggere un libro di montagna liberamente consapevoli che a volte la fiction potrebbe superare la realtà.Tutto ciò a mio avviso non guasta.