“La risposta al perché scaliamo è da qualche parte, tra l’inizio della scalata e la vetta (Greg Child)”.
Gli anglosassoni hanno uno stile estremamente conciso che ben si addice a descrivere l’esperienza alpinistica. Greg Child non fa eccezione. La sua passione per l’avventura lo ha portato sulle montagne e pareti del mondo, mettendolo in condizione di confrontarsi con i terreni più diversi, attraverso la sua insaziabile curiosità e vivida fqntasia. Greg ha anche la passione per la scrittura, sempre molto ironica e sfumata dal tipico “understatement” di stampo britannico, tanto caro a una certa categoria di alpinisti.
In questo pezzo, che è stato di forte ispirazione a definire l’obiettivo della spedizione della Sezione di Biella del CAI in Karavshin, e che mi ha sempre fatto sorridere per l’ironia del racconto, Greg elogia l’arte del “groveling“. Non sono riuscito a tradurre il termine. Ho dovuto renderlo in modi diversi, saranno in corsivo nel testo, sappiate che per l’autore si tratta sempre dello stesso vocabolo, che si riferisce a qualcosa del tutto opposto all’idea di eleganza e armonia proposto oggi dalla scalata moderna, che si estende invece a tutto quanto sia ruvido in alpinismo. “Groveling” è il fondamento dell’alpinismo stesso, o almeno della sua parte oscura, che è poi quella che ci affascina e cattura di più…
Un termine così noi non l’abbiamo. L’italiano non è una lingua concisa, troppo spesso ci perdiamo a spiegare. Spero che mi perdonerete la mancanza (o l’eccesso) di fantasia espressiva. Sappiate comunque che tutte le volte che su una montagna avreste preferito essere altrove, nel tentativo di “sfangarla” stavate facendo molto probabilmente del “groveling” (Mauro Penasa).
L’apertura dell’articolo sull’Annuario CAAI 2016
24 ore sulla Russian Tower con Lynn Hill
Lezioni nell’arte di “sfangarla”
di Greg Child
(articolo pubblicato su Annuario CAAI 2016, traduzione di Mauro Penasa)
Ogni alpinista che si rispetti conosce, anzi ne è esperto, la dura arte del “cavarsela”, dello “sfangarla”, in definitiva del “sopravvivere”. Mi riferisco alla sua ancestrale abilità di avvinghiarsi, artigliare, affondare i denti in quel terreno infido, viscido, muschioso e marcio tanto usuale nella scalata alpina. Di farsi strada in mezzo a fragili torri di roccia accatastata, tenuta insieme da sottili strati di fango che alla fine non può che rivelarsi cacca, cacca d’insetto, di uccello, di pipistrello. Sì, roccia di cacca. Di calarsi in doppia da ancoraggi scricchiolanti lungo pareti marce e dentro colatoi fangosi, attraversando un mondo selvaggio dove tutto quanto si muove più in alto lo fa col solo obiettivo di esploderti intorno in nuvole di polvere acre. Ma vorrei andare più in là, estendendo il concetto all’esperienza globale dell’alpinista: “sfangarla” è anche raggomitolarsi per la notte, come un ratto, su una cengia scomoda e bitorzoluta, a rabbrividire senza sacco a pelo. È avere troppo caldo, o troppo freddo, o troppa fame, troppo tutto… È rimanere intrappolato in tenda dall’implacabile pioggia e neve, a sopportare per giorni il puzzolente, sudato e fetido olezzo del corpo umano, vostro e dei vostri compagni, coperti da biancheria intima e da vestiti degni del più spietato attacco chimico e batteriologico. È mangiare brodaglia unta di kerosene, leccarsi le labbra e scoprirsi a desiderarne ancora. È guadare pendii di neve profonda, scivolosa come muco, nella pioggia più snervante, piegati da zaini che stenderebbero un mulo. È vesciche ai piedi, abrasioni alle mani e labbra spaccate…
E altro ancora… Ho reso l’idea, no?
Sulla parete della Russian Tower, 800 metri di granito nella catena del Pamir Alai, in Kirghizistan, ho scoperto che io e Lynn Hill avevamo capacità diverse. La differenza tra il mio stile di arrampicata e quello di Lynn è pressappoco quella che passa tra una rozza danza da bar e il Balletto del Bolshoi. Certo, Lynn può correre sul 5.13 come una gazzella, e avanzarne ancora, ma pretendere che lei abbia il completo controllo sul mondo del verticale sarebbe sbagliato, perché sulla sua scheda alpinistica c’è almeno una materia in cui prende a stento un 6 meno meno… Questa materia, mi rattrista dirlo, è il profondo fondamento, il DNA, dell’alpinismo. È l’arte di “sfangarla”.
Nella sua forma di guglia patagonica, la Russian Tower domina la vallata percorsa da un torrente chiamato Kara-Su, in una regione densa di alte pareti conosciuta come Karavshin. In elicottero è ad appena un’ora e 15 minuti a ENE di Tashkent, la capitale dell’Uzbekistan, che, come il Kirghizistan, è una delle nazioni nate dal collasso dell’Unione Sovietica.
Quando Lynn Hill e il sottoscritto partimmo, nell’agosto del 1995, alle 1.30 del mattino, per la Russian Tower, avevamo già una lunga parete dietro di noi, il Picco 3850, che aveva richiesto tre giorni di scalata, tra salita e discesa. Sul Picco 3850 ci eravamo molto divertiti con l’arrampicata, ma non eravamo riusciti ad apprezzare gli “imprevisti” affrontati di tanto in tanto, mi riferisco ai bivacchi in grotte piene di guano e su cenge inclinate, con i piedi infilati negli zaini, per non parlare dell’intera giornata passata a far doppie in un colatoio, quasi fossimo birilli per le pietre che ci rotolavano a fianco.
“È sempre cosi?” mi aveva chiesto.
“Ci fai l’abitudine” era stata la mia risposta. Così questa volta avevamo deciso di spararci la salita in un sol colpo, senza bivacco. Avendo salito il Nose in libera e in giornata solo due anni prima, Lynn pensava che Perestrojka Crack, una via aperta dai russi nel 1988, fosse fattibile in giornata anche con un partner come me.
Russian Tower (Pamir Alai, Kirghizistan), in arrampicata su Perestrojka Crack. Foto: www.kristerjonsson.se
La via era già stata salita totalmente in libera da un team francese, con difficoltà di 5.12b, ma non in giornata, ed era stata fatta in giornata, sempre da francesi, ma non in libera. Per i francesi era la “Astroman del Kirghizistan” in omaggio a una famosa via di Yosemite. Avremmo potuto farla in giornata, alternandoci da primi, Lynn ne era certa, con l’aggiunta che il secondo avrebbe salito in libera l’intera via. Una via tutta in libera, senza jumar. Suonava bene, ma misi nel sacco una maniglia, che non si sa mai. Alle 4 del mattino raggiungemmo il termine della lunga pietraia che conduce all’attacco di Perestrojka Crack. Un paio di giorni prima avevo osservato una valanga di fango scivolare come lava da questo colatoio, dopo che il sole del pomeriggio aveva cotto per bene uno dei nevai più in alto. Nel buio, ai piedi della parete, ci legammo e iniziammo una serie di dülfer lungo lame e anfratti di granito ben lavorato. Nel sacco avevamo un po’ di cibo e acqua, le frontali, giacche impermeabili e due sacchi da bivacco (da usare in cima, ovviamente).
All’alba, dopo 4 tiri, raggiungemmo la cima del contrafforte dove Dan Osman e il fotografo Chris Noble ci aspettavano. Avevano bivaccato lì per riprendere alcune immagini della nostra salita sulla sezione successiva, un’impressionante frattura diagonale lungo la compatta faccia di diorite. Mentre Chris scattava, Lynn e io ci alternammo al comando lungo fessure di pugno per 6 lunghezze di 5.10. Le nostre menti erano beatamente concentrate sulla solida roccia quando Lynn incontrò una fascia di sottili e fragili scaglie. La salita rallentò. Provò una fessura, da cui scese arrampicando: quando questa diventò troppo marcia, ne provò un’altra, per discenderne ancora. Evidentemente qualche maestro dell’aleatorio aveva superato questa fascia di detriti, ma Lynn non ne veniva proprio a capo. Alla fine, traversando con difficoltà sotto un rigonfiamento a raggiungere roccia migliore, ma aggiungendo nell’operazione parecchi gradi alla difficoltà della scalata, riuscì a rovesciarsi su un pulpito e a fare la sosta. Erano le 15.15. Il prossimo tiro toccava a me. Scivolai nella off-width, che seguiva, sbuffando e gemendo, “ravanando” verso l’alto… Da seconda Lynn venne su in dülfer, veloce. “È più facile così”, mi informò con fare scolastico.
Più tardi nel pomeriggio raggiungemmo il tiro più difficile, un diedro obliquo e aggettante con fessura di dita. Lynn superò la lunghezza, decisa e veloce, e sostò. Poi toccò a me spellarmi le dita nella fessura per guadagnarmi la mia porzione di gloria. A metà tiro mi accorsi con sorpresa che eravamo circondati dalla luce ambrata del tramonto. Dove se ne erano andate le ore??? Alla sosta ci agganciammo le frontali al casco per l’incombente scalata notturna. Senza una parola Lynn afferrò il materiale e, precisamente alle 19.35, cominciò il tiro successivo, una ripida fessura sottile. Si trattava di un accordo sottinteso: il tempo era basilare, lei eccelle su questo tipo di scalata e poi le sue dita affusolate erano più adatte alla fessura di 5.12 che ci attendeva. Saggiamente si preservavano le mie energie per la meno nobile scalata che doveva seguire. Raggiunse il termine del tiro proprio mentre un’oscurità profonda aveva finito di avvolgerci. Si trattava di una notte senza luna, come si dice, nera come l’inchiostro.
Alla luce delle frontali studiammo lo schizzo approssimativo che un amico francese di Lynn aveva scarabocchiato.
“Secondo questo abbiamo completato il sedicesimo tiro. Ce ne restano ancora quattro!” disse Lynn un po’ troppo ottimisticamente. Guardai in alto. Una vaga silhouette di nera roccia contro un cielo nero incombeva lontana. Triangolai mentalmente la nostra posizione.
“Sono più di quattro tiri, lo schizzo è sbagliato. Saremo in cima all’alba” dissi, il solito vecchio, noioso, gufo saggio. Così suggerii di trovare una cengia per bivaccare.
“Non ci pensare neanche! Un paio d’ore al massimo, si va in cima!” e così si fece. Sul tiro che seguiva quasi immediatamente mi persi nell’oscurità nera come la pece e dovetti pendolare per tornare in via. Lynn fece il pendolo in libera, muovendosi sulla placca come avesse le ventose di un geco. Sulla lunghezza che le toccava si trovò poi a superare una fessura di mano, dritta e verticale, che di giorno ci avrebbe fatto urlare di felicità ma che a quell’ora non poteva avere altro effetto che farmi vomitare il pranzo. Improvvisamente avevo perso interesse nella salita tutta in libera di primo e secondo. Queste etiche sono lussi poco applicabili alla scalata notturna, pensai. Mi “arrangiai” su per la corda, goffamente attaccato alla mia maniglia jumar e assicurato da una placca sticht, chiedendomi perché mai non mi fossi portato una seconda jumar. Raggiunta Lynn cercai di convincerla su quanto sarebbe stato meglio mettersi a dormire un po’, ma non c’era nulla da fare. Quando mi passò il materiale mi resi conto con crudele certezza che per quella sera non sarei riuscito in alcun modo a portarmi a letto la ragazza.
Russian Tower (Pamir Alai, Kirghizistan), in arrampicata su Perestrojka Crack. Foto: www.kristerjonsson.se
Così 30 metri dopo ero indaffarato a cercare di proteggere una fessura con preoccupanti RP. Sembravano tutti così schifosi che ripresi a salire ancora e ancora, ma la promessa di un miglior piazzamento si rivelò essere una pia illusione. Senza protezioni decenti e chilometri su per il diedro, iniziai a brontolare e a lamentarmi, al suono dei nut che saltavano via e tintinnavano giù per la corda. Le mie gambe tremavano al pensiero del volo spaventoso che mi attendeva. Poi la mia frontale si spense, proprio mentre Lynn, mezza congelata in sosta, mi urlava qualcosa sull’opportunità che mi dessi una mossa. Non mi restò che dare una serie di manate alla roccia per finire, non so come, su una piccola cengia dove, ansimando nervosamente, riuscii ad attrezzare una sosta. Assicurandola non potei fare a meno di notare come lei facesse sembrare il tiro molto facile. Ormai sonnecchiavamo a ogni sosta, risvegliandoci di soprassalto solo quando il primo tirava la corda o quando il freddo penetrava più in profondità nelle ossa. Salivo con le jumar i tiri di Lynn per fare più in fretta, ma lei continuava a fare i miei in libera, determinata a condurre a termine la prima salita continua della via.
A una qualche vaga ora della notte, ci fu un’esplosione di massi che tuonò giù da una parete delle dimensioni di El Cap dall’altra parte della valle. Nuvole di polvere scintillante apparvero improvvise, per scomparire così come erano venute. Ma almeno risvegliarono una volta per tutte le nostre menti assonnate.
Il mio ultimo tiro fu qualcosa da ricordare. Lottai su per una fessura larga fino a che il mio casco andò a cozzare su un soffitto. Mi rigirai a dare un’occhiata al di sopra dello strapiombo. La luce mi mostrò un largo fessurone grondante acqua. Era troppo: “Ma che ho fatto di male per meritarmi una off-width bagnata alla luce della frontale, alle 2 del mattino?”
Dal basso mi arrivò un mugugno di risposta: “Solo tu puoi saperlo, Ciccio”… Lynn si ribaltò sulla cima della Russian Tower alle 5 di mattina. Quando la raggiunsi dopo aver risalito in jumar il 25° tiro riuscivo solo a farfugliare per il freddo. Con l’avvicinarsi dell’alba un vento polare si era alzato dal plateau glaciale che chiudeva la valle. Barcollando verso di lei come un novello mostro alla Frankenstein, vidi Lynn spegnere la frontale.
“Credo che tu avessi ragione. Siamo arrivati in cima all’alba” disse con un sorriso un po’ secco. Eravamo in piedi da 28 ore, in scarpette da 24. Quando tolsi le mie Kaukulator, i miei piedi non erano più che ammassi deformati e sanguinanti, non sarebbero stati diversi dopo una bella lezione di randellate. Dato alle mie estremità il minimo indispensabile di attenzione, io e Lynn ci sdraiammo sul ripiano della cima, scivolammo nei sacchi da bivacco e dormimmo per alcune ore.
Ci svegliammo alle 10 per iniziare la discesa incerta e tortuosa, una complessa sequenza di canali e doppie. I detriti sotto i nostri piedi erano uno strano ghiaione di gneiss. Ogni due passi scivolavamo a sedere. Cercai così di dare un ritmo alla discesa, usando il fondoschiena come un terzo arto. Scivolando sui talloni, poi sul sedere, poi di nuovo su, girandomi un po’ di qua e un po’ di là in una nuvola di polvere, lasciai ben presto Lynn, che osservava il mio progredire con una smorfia di disgusto, a una certa distanza. A lei dovevo sembrare del tutto fuori controllo, ma in realtà mi stavo godendo il mio vero elemento: lo “sfangarla”. Cercai di spiegarle che l’equilibrio e il controllo necessari per scalare il 5.14 andavano a discapito del suo futuro come alpinista. Aveva passato troppo tempo a essere aggraziata, a vincere la gravità per salire pareti ripide e impossibili.
D’altro canto io, in quanto alpinista, avevo imparato a usare la gravità per muovermi in questo mondo selvaggio. Ciò che a lei sembrava la balorda goffaggine di un troll dagli scarponi troppo grandi saltellante giù per un canale in mezzo a una nuvola di polvere e detriti, non era altro che il prodotto di un accurato allenamento.
Raggiungemmo una placca con una cascata d’acqua, attrezzammo una doppia e ci gettammo nell’abisso. Fango e blocchi rumoreggiavano ai nostri fianchi, una roccia diede un bel morso alla nostra corda.
“Non sono abituata a questa roba alpinistica” disse Lynn. “È pericoloso!”.
“Sciocchezze, ci si fa l’abitudine”. Proseguendo per attrezzare la doppia successiva, pattinai su metri e metri di placche coperte da detriti, saltai rivoli d’acqua, guadai tratti di neve marcia, lasciando che Lynn trovasse la sua strada in quello sfacelo. Dopo pochi giorni un temporale avrebbe trasformato questo colatoio in una betoniera, scaricando spessi strati di fango giù dalla montagna in un rombo di tuono.
Ma quel giorno il cielo era sereno, e io continuai a “scivolare” verso il basso, intuendo, con animale consapevolezza, che nessuna delle rocce che ci fischiavano intorno portava il nostro nome, e gustandomi appieno la sensazione di essere migliore di Lynn Hill in qualcosa.
Greg Child (12 aprile 1957) è un alpinista australiano, scrittore e cineasta. Nel 1986 ha salito in prima ascensione la cresta nord-ovest del Gasherbrum IV (assieme a Tim Macartney-Snape and Tom Hargis): seconda ascensione della montagna dopo la storica di Walter Bonatti e Carlo Mauri, 6 agosto 1958. Nel 1990 ha salito il K2 assieme Steve Swenson, Greg Mortimer e altri. Per le altre sue ascensioni più importanti e per i suoi scritti, vedi https://en.wikipedia.org/wiki/Greg_Child.
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Scusate, nelle sedi CAI posso trovare gli annuari?
Bellissima storia!
Anche in lingua Inglese groveling ha significati diversi e fuorvianti, dipende sempre dal contesto. Semanticamente parlando la traduzione migliore anche per me è ravanare.
Credo che RAVANARE sia il termine giusto per la traduzione di groveling, termine che starebbe bene per certi itinerari apuani.
La serenità dello stile di raccontare di Greg Child è disarmante.
BELLO!!
ho trovato su un vocabolario la traduzione di groveling = strisciante, un pò come ravanare = darsi da fare in tutti i modi per raggiungere uno scopo (garzanti).