Libertà e responsabilità in prospettiva filosofica
di Italo Sciuto (docente di filosofia morale presso l’Università di Verona)
(Intervento all’assemblea del CAAI, Caprino Veronese, 11 ottobre 2014)
Libertà va cercando, ch’è sì cara,
come sa chi per lei vita rifiuta
(Purgatorio, I, 71-72)
Nel comune sentire e parlare degli alpinisti, sembra che la pratica dell’alpinismo si possa interpretare bene alla luce del Catone dantesco: il quale, appunto, pone la libertà come valore supremo, superiore addirittura alla propria vita. Per l’alpinista, come dice bene Alessandro Gogna nella sua ben nota lettera al procuratore di Torino circa la libertà in montagna, la libertà è un “diritto” che va garantito sempre, anche in presenza di un rischio inevitabile; anzi, il “diritto alla libertà” implica anche il “diritto al rischio”. D’altra parte, però, l’agonismo che in buona parte caratterizza l’alpinismo di cui maggiormente si parla con ammirazione (“conquistare” cime, “aprire” vie, compiere “prime” invernali etc.) fa anche pensare a un altro, grande e decisivo personaggio dantesco: Ulisse, che abbandona la comoda e sicura vita nella sua isola e affronta “l’alto mare aperto” per “divenir del mondo esperto”, cioè per compiere una “prima”, ossia superare le colonne d’Ercole per esplorare l’ignoto “mondo sanza gente” ove mai nessuno ha messo piede. La passione che muove l’Ulisse dantesco, dunque, non è soltanto l’aspirazione di chi vuole essere o si sente libero, ma anche l’hybris di chi vuole affermare la propria volontà di potenza. Tuttavia, la motivazione con la quale Ulisse convince i suoi compagni a seguirlo nel “folle volo” fa riferimento alla natura dell’uomo, alla sua essenza, che implica la responsabilità di compiere un dovere preciso:
Considerate la vostra semenza:
nati non foste a viver come bruti,
ma per seguir virtute e conoscenza
(Inferno, XXVI, 118-120).
Il nostro alpinista dantescamente atteggiato, dunque, si muove tra libertà e responsabilità. Ma come vanno intesi questi due termini, facili da pronunciare (i politici, in particolare, ne han piena la bocca benché ne sia vuota la mente) ma ben difficili da comprendere e spiegare?
1. La difficile e inafferrabile questione della libertà.
Nella sua storia millenaria, il concetto di libertà è stato analizzato infinite volte e secondo varie prospettive (metafisica, psicologica, politica), con fondamentali differenze nei vari contesti storici dall’antichità a oggi. Nella riflessione attuale, è largamente prevalente la prospettiva politico-sociale, che si è imposta in Occidente a partire dalla modernità. Possiamo sintetizzarla con le celebri ed efficaci formule di uno dei padri del pensiero politico moderno, Montesquieu: “la libertà politica non consiste affatto nel fare ciò che si vuole. In uno Stato, vale a dire in una società nella quale esistono delle leggi, la libertà non può consistere che nel poter fare ciò che si deve volere e nel non essere costretti a fare ciò che non si deve volere”; in breve, “la libertà è il diritto di fare tutto ciò che le leggi permettono” (Lo spirito delle leggi, libro XI, cap. III). Si tratta della libertà che viene detta “repubblicana”, per distinguerla dalle altre principali concezioni moderne su cui, per brevità, non possiamo soffermarci: quella “liberale”, quella “libertaria” e quella “comunitaria”. Si tratta, dunque, di una libertà nella e non dalla legge, che potremmo anche definire libertà positiva, mentre oggi è largamente prevalente una concezione liberale-libertaria che è essenzialmente negativa. Si tratta insomma di capire la difficile idea che si è liberi non già nonostante, ma grazie ai doveri.
Inoltre, va osservato che in questa concezione “repubblicana” della libertà l’aspetto fondamentale è posto nel fare (o meglio nell’agire) più che nel volere, con ulteriori precisazioni circa la libertà “da” e “di”, ossia “negativa” e “positiva”, su cui molti filosofi si sono acutamente impegnati con esiti sempre più complessi e raffinati. Ma, soprattutto, va rilevato che allora, in questo modo, la questione della libertà non viene svolta in ambito metafisico (in cui si tratta di affrontare il concetto di causalità e l’opposizione tra libertà e necessità), ma in quello morale o, meglio, etico. E in prospettiva etica sono due le concezioni che, a partire dalla celebre formulazione di Max Weber agli inizi del ‘900, vanno tenute presenti: l’etica della convinzione, secondo cui si deve agire seguendo princìpi fondamentali assoluti prescindendo dalle conseguenze che ne possono derivare (per esempio: “si deve sempre dire la verità” o, in negativo, “non si deve mai mentire”), e l’etica della responsabilità, secondo cui si deve certamente agire secondo princìpi, ma condizionati dal possibile esito della loro applicazione (se dire la verità mette in pericolo di vita una persona, si deve mentire). Le due concezioni etiche, naturalmente, non si escludono reciprocamente e, di fatto, in qualsiasi forma di agire eticamente valido si usano entrambe. Per il nostro discorso, tuttavia, dobbiamo insistere specialmente sull’etica della responsabilità (su cui rimane fondamentale Hans Jonas, Il principio responsabilità, scritto negli anni ’70 del secolo scorso).
2. L’arduo impegno della responsabilità.
Come il concetto di “libertà”, e forse ancor più, oggi si deve radicalmente ripensare il concetto di responsabilità, perché il “fare” e l’”agire” in cui siamo coinvolti (come agenti e/o pazienti) sono condizionati sostanzialmente da un fatto nuovo, sconosciuto ai secoli passati: l’onnipotenza della tecnica, in virtù della quale non siamo più in grado di prevedere gli effetti, le conseguenze del nostro fare. Oggi, per lo sviluppo enorme e dominante della ragione strumentale e cioè della semplice capacità di realizzare scopi, al massimo del poter fare corrisponde il minimo del saper prevedere: più aumenta e si velocizza la capacità di realizzare scopi (secondo il fatale principio da tutti a parole negato ma in realtà universalmente applicato “si può, quindi si deve”), più diminuisce la possibilità di prevedere l’esito cui potrà portare la loro realizzazione, ma questa capacità di previsione è essenziale, se il fine del nostro fare e agire dev’essere il bene comune, o l’utilità generale: il maggior benessere per il maggior numero. In tale contesto, va sostenuto il principio di cautela ma va anche radicalmente ripensato il concetto di responsabilità in tutti i suoi principali significati: giuridico, politico, etico.
Per limitarci a quest’ultimo significato, che per il nostro discorso è certamente il più importante, dobbiamo rilevare che parlando di libertà non possiamo limitarci a distinguere, come si diceva, libertà “da” e “di”, “negativa” e “positiva”. Dobbiamo inserire anche il concetto della libertà “per”, ossia l’idea del fine cui tende o dovrebbe tendere l’agire libero; e anche il concetto di libertà “verso”, cioè l’idea dei soggetti altri cui essa va diretta. In particolare, e in sintesi, nell’attuale situazione dobbiamo tener presente, in tutte le nostre azioni, l’effetto che esse potranno avere sulle condizioni di vita delle generazioni future, di cui siamo appunto responsabili. E non è il caso di conferire troppo valore alla celebre battuta di Groucho Marx ripresa da Woody Allen (“ma in fondo, cos’hanno fatto per me le generazioni future perché io mi debba occupare di loro?”), appunto perché non hanno fatto nulla di male e quindi non meritano di essere danneggiate dai nostri comportamenti. Inoltre, e soprattutto, il principio di cautela impone di porre, di fronte a ogni pregevole innovazione tecnica, la decisiva domanda: quale sarà il peggiore uso che di questa positiva innovazione si potrebbe fare, e quindi si farà?
In tale contesto, diventa difficile ma essenziale trovare un principio d’azione adeguato (l’agire umano è dotato di senso e valore soltanto se è guidato da princìpi che, per quanto possibile, tendano all’universalità), non essendo più sufficiente il pur venerabile imperativo categorico kantiano (“agisci in modo che la massima della tua azione possa valere in termini universali”), appunto perché limitato al presente. Seguendo Jonas, possiamo adottare questo nuovo imperativo adeguato alla situazione attuale: “agisci in modo che le conseguenze della tua azione siano compatibili con la permanenza di un’autentica vita umana sulla terra” (H. Jonas, Il principio responsabilità, Einaudi, Torino 1993, p. 16). In altri termini, si può dire che un’azione è responsabile se corrisponde al relativo dovere, e che dunque sarà irresponsabile ogni “esercizio del potere senza l’adempimento del dovere” (ivi, p. 119). Ma questo adempimento, nella presente età dominata dal “Prometeo scatenato” della tecnica, dev’essere guidato da ciò che Jonas chiama “euristica della paura”, in virtù della quale, quando progettiamo una qualsiasi impresa, dobbiamo interrogare i timori prima dei desideri e prestare ascolto alle profezie di sventura più che a quelle di salvezza, più alla minaccia che alla speranza e alla promessa; dobbiamo agire per scongiurare il male supremo più che per conseguire il bene sommo: in sintesi, dobbiamo praticare un sano scetticismo per evitare il rischio di uno spietato ottimismo che potrebbe condurci sull’orlo dell’abisso.
Mutatis mutandis, e cioè con gli opportuni adattamenti, direi che un simile principio dovrebbe guidare anche l’attività dell’alpinista che voglia essere libera e responsabile: essendo forse la più adatta per capire che la vera libertà, per l’attuale agire umano che aspiri a realizzare un’autentica auto-nomia, è la responsabilità.
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