Menini e Oppel
(i canaloni dell’Antelao)
di Marcello Mason
Foto e Archivio di Marcello Mason (tranne diversa menzione)
(pubblicato su Le Dolomiti Bellunesi, estate 2023)
Oltre che per l’indubbio fascino, il monte Antelao stupisce per il suo progressivo e camaleontico trasformismo: basta infatti spostare di poco il punto di osservazione per rendersi conto di quanto profondamente ne muti l’aspetto. È quanto succede ad esempio se lo si guarda dai paesi di Valle di Cadore, Vodo, San Vito e soprattutto da Cortina d’Ampezzo, che ne rivela la celebre icona. Anche il versante settentrionale, il più nascosto, ammirato in particolare dai pressi del rifugio Galassi, non è certamente da meno. Lì dove dimorano i suoi ghiacciai, o almeno quanto oggi ne è rimasto, dato l’incalzare implacabile della crisi climatica. Un cambiamento un tempo decisamente inimmaginabile: ne è rivelatrice al riguardo la Carta del Cadore dell’inizio del XVII secolo conservata ai Frari all’Archivio di Stato di Venezia. Si tratta di un disegno a penna su carta, di mano ignota, che rappresenta il sistema idrografico del Piave e dei suoi affluenti e quello orografico, sul quale in evidenza risaltano le parole «le crode dell’Antelau, dove è giatio perpetuo».
Eh sì, quel povero ghiaccio perenne che di questo passo pare destinato, in tempi ancor più brevi di quanto si immagini, a divenire nulla più di un ricordo. A tale proposito è interessante citare il rilevatore glaciologico Giuseppe Perini di Borca, che dagli anni Settanta osserva con ammirevole costanza il ritiro dei ghiacciai dell’Antelao. Nonostante i dati siano sconfortanti, egli non smette di sperare nelle imprevedibili risorse della natura e quindi in una possibile variazione in controtendenza. Eventualità che naturalmente ognuno si augura, pur essendo chiaro che il problema principale oggi sia costituito dall’innalzamento delle temperature nel pianeta, il vero e grave colpevole della situazione.
Nulla di tutto ciò doveva, invece, essere immaginabile in quel lontano giorno che vede un uomo avventurarsi lungo uno degli inesplorati canaloni ghiacciati dell’Antelao, in un ambiente ammantato di bianco, intenzionato a salirlo. Ha 43 anni e si chiama Davide Menini, allora – siamo nel 1886 – Capitano della 67a Compagnia alpina, venuto su il 7 agosto dal paese di Tai. Non è solo, in realtà, con lui ci sono gli alpini Silvestro Zandegiacomo e Carlo Carrara, nonché la guida alpina di San Vito di Cadore Giuseppe Pordon, noto ai più come Bepo da Masarié. La guida delle Dolomiti Orientali di Antonio Berti, nella relazione della via, segnala pure la presenza di Giovanni Battista Toffoli che con ogni probabilità ha un ruolo di portatore, visto che nel corso dell’ascensione non viene mai menzionato. Aver puntato sul Pordon appare quanto mai azzeccato, trattandosi di persona dalla ragguardevole attività alpinistica che aveva, tra l’altro, già fatto parte della cordata che con Luigi Coloto Cesaletti – pure lui guida sanvitese – accompagnò il Tenente di artiglieria Pietro Paoletti di Venezia in cima all’Antelao nella prima salita invernale del 1882, che tanto scalpore aveva suscitato. Ma godeva pure della considerazione di Julius Kugy, il “poeta delle Giulie” che del Masarié ha consegnato questo vivace ritratto: «Un giovanotto lungo come una pertica e buono come il pane, che era molto abile sulla roccia. Non ho mai visto mani aggrapparsi così in alto e gambe divaricarsi tanto». Per quest’uomo il più alto monte del Cadore, frequentato in lungo e in largo, non ha davvero segreti, in ragione anche della sua intensa attività di cacciatore. Così l’8 agosto vede il gruppetto in piedi già alle ore 3.35. «Faceva l’alba con la promessa d’una giornata bellissima. La luna impallidiva mentre i raggi del sole, ancora sotto l’orizzonte, rendevano il cielo rossastro d’una bella tinta rosso-dorata che si faceva sempre più calda e infocata: un cielo da innamorati», sottolinea con toni estasiati e singolare sensibilità il Menini.

Ma è tempo di entrare in azione, perciò dopo una rapida colazione volgono decisi alla volta del Ghiacciaio Superiore, in direzione del canalone che affascina e intimorisce nel contempo il Capitano, il quale si domanda se lì, dove nessun uomo è mai passato prima, vi sia davvero modo di salire. Dubbi legittimi, che tuttavia non sembrano minimamente sfiorare il Pordon: senza esitazioni egli avvia un continuo scalinare che nel giro di due ore li conduce all’intaglio che da quel momento, per decisione della guida stessa, verrà ricordato come la Forcella Menini. Ulteriori incognite impensieriscono il Capitano, mentre si interroga sul tratto successivo: «Più guardavo verso l’alto, più esaminavo le crode e meno mi spiegavo da che parte si sarebbe potuto tentare una scalata, ma il Pordon indovinava la via da seguire». Incontrano così la famosa spaccatura dentro la quale è infisso un grande macigno che costituisce la parte più difficile della scalata, destinata ad esser indicata nelle relazioni alpinistiche come i Salti del Pordon, in omaggio alla bravura di chi in tale circostanza aveva trovato il modo di superarli. Di lì in poi, lungo vari lastroni inclinati e coperti di neve, l’ascensione si rivela più facile, conducendo in breve alla vetta, consegnata anch’essa alla storia come Punta Menini.
Un rapido bilancio porta alla considerazione che nell’ascensione, che ha richiesto sei ore, hanno incontrato un passaggio di secondo grado e un tratto di terzo, mentre mediamente la pendenza è stata del 50% con punte del 65. Quanto al Capitano, definirlo raggiante è ancora riduttivo. A definirne lo stato d’animo del momento nulla può essere più appropriato delle sue stesse parole: «Potrei io descrivere l’interna soddisfazione provata in quel momento? Ero felice, quanto umanamente si può esserlo a questo mondo…». A conferma di quanto armoniosamente convivessero in lui la figura del militare – sovente costretto per ruolo a rigide discipline – con lo spirito romantico ed estatico propri per lo più di chi frequenta la montagna.
Appena dieci anni dopo, in uno scenario totalmente diverso, infinitamente lontano da quel momento di autentica beatitudine, il 1° marzo del 1896 vedeva la tragica conclusione dell’esistenza del colonnello Comandante Davide Menini, colpito da una zagaglia (arma primitiva, simile ad una lancia, NdA), mentre in evidente squilibrio numerico rispetto agli avversari egli riordinava i suoi per un attacco alla baionetta. Tutto ebbe luogo nel piccolo agglomerato di Adua, nel corso dell’avventura coloniale italiana in Africa, in un ambiente così contrastante con quello del giorno vissuto sul canalone dell’Antelao.

Sulla cima destinata da allora in poi a tramandare la memoria di Davide Menini e dei suoi coraggiosi compagni. La storia frattanto continua imperturbabile il suo corso, così diversi anni dopo, il 30 agosto 1925, M. Coletti e F. Olivotto ripetono l’ascensione apportando una variante finale, ossia percorrendo la cengia che porta ad ovest, all’imbocco di un canalone ghiaioso. Risalgono successivamente quest’ultimo per poi seguire un breve camino, indi si incamminano lungo il canalone che conduce in cima.
Prima di prendere in considerazione l’altra evidente incisione della montagna, ossia il canalone Oppel, è opportuno ricordare l’esistenza di un’ulteriore possibilità, spesso preferita dai moderni ripetitori della via Menini, giusto a fianco della stessa. Ad intuirla sono stati Nico Arnaldi e Fosco Maraini. Mentre il ricordo del primo è probabilmente sbiadito a causa dal tempo frattanto trascorso, ben difficile è che ciò sia avvenuto per Maraini, allora non ancora ventenne. Grande antropologo, storiografo, fotografo e alpinista, egli fece parte della spedizione italiana al Gasherbrum IV nel Karakorum, voluta dal CAI. Assieme a lui, al capo spedizione Riccardo Cassin e ad altri alpinisti, c’erano in quell’occasione Walter Bonatti e Carlo Mauri che in quel 1958 ne conquistarono la vetta nel corso di un’epica scalata.
Il 30 agosto 1932 i due lasciano il rifugio Galassi alla volta del Ghiacciaio Inferiore per risalire il grande e ripido canalone di neve sovrastante, tagliato da un ampio crepaccio. Indi proseguono, con difficoltà e pendenza sostenute, sino al punto in cui avviene la congiunzione con la parte superiore del Canalone Menini, continuando infine sino alla cima lungo l’antico percorso.
Giunge poi l’estate del 1955, quel 29 luglio che vede l’arrivo al rifugio Galassi di due componenti del Gruppo degli Scoiattoli di Cortina (ed anche guide alpine), Beniamino Mescolin Franceschi e Luigi Bibi Ghedina, alpinisti dalla prestigiosa attività. Assieme c’è anche Armando Scamperle del CAI di Roma, verosimilmente in tale occasione loro cliente. Hanno in animo di raggiungere Punta Menini seguendo un diverso itinerario che così sintetizzano nel libro del rifugio: «Nuova salita per il Canalone Nord-nord-est che a 150 m dalla forcella Menini si congiunge con la via omonima. Lunghezza del canalone fino all’incontro con la via Menini circa 600 m, con pendenza fino ai 60°. Passaggio di due crepacciate. Tempo impiegato fino al congiungimento con la via Menini ore 4 circa».
L’altro imponente canalone dell’Antelao, infine, è quello che ha preso il nome del primo salitore, nell’agosto del 1931, ossia la guida alpina e professore universitario Otto Oppel di Garmisch Partenkirchen, comune della Baviera. Scomparso il 1° aprile 1964 (era nato il 28 dicembre 1881), Otto ha ben presto modo di esprimersi ad alto livello in numerose scalate in patria ma pure in Carnia, nel gruppo del Sassolungo e del Paterno. In quest’ultimo caso (è il 1906) la via si sviluppava lungo un camino che non verrà più scordato per i fatti tragici della prima guerra mondiale ad esso connessi: è lì, infatti, che il 4 agosto 1915 troverà la morte l’amico Sepp Innerkofler nel noto episodio che lo vide colpito dai difensori italiani.
Nel suo lungo peregrinare per i monti molti e rilevanti sono gli incontri che egli fa con altri autorevoli alpinisti: oltre al citato Innerkofler, vanno ricordati Tita Piaz, Hans Dülfer, Georg Leuchs e Paul Preuss, con i quali ebbe modo di intrattenersi.
La mattina in cui egli compare nei pressi della Forcella Piccola dell’Antelao, attratto da quella evidente fenditura, non è proprio giovanissimo, ma è fuor di dubbio che sappia il fatto suo e difatti si avvia con sicurezza, per di più in solitaria, verso quell’ambiente di roccia, neve e ghiaccio. Giunto all’attacco si inerpica lungo quella che verrà ricordata come una delle più affascinanti scalate su ghiaccio delle Dolomiti, incontrando difficoltà su roccia prevalentemente nell’orbita del terzo grado, con un passaggio di quarto e due strapiombi, lungo pendii ripidi su neve e salti ghiacciati e delicati tratti di misto. Complessivamente l’ascensione gli richiederà sette ore di arrampicata e l’uso di alcuni chiodi che lascerà sul posto. Pur se di indubbia spettacolarità, quest’ascensione per quarant’anni circa non vedrà che uno sparuto numero di ripetizioni (in realtà risultano esser non più di sette, all’inizio degli anni Settanta…) ma con il tempo ha assunto rinomanza ed è oggi particolarmente ambita da quanti aspirano alla qualifica di Guida alpina. Ferma restando ormai la decisa tendenza a salire tali canaloni a partire dal tardo autunno o nei mesi di aprile e inizio maggio al più, quando cioè essi si presentano innevati al meglio. Inverni nevosi permettendolo, naturalmente.

Indubbiamente il Canalone Oppel è stato spesso definito con epiteti cupi e talora drammatici: severo, tetro, repulsivo, ostile, tragico. Non che in ciò non vi sia un fondo di verità, in quanto sono particolarmente i canaloni, per la loro natura, a presentare il rischio di caduta sassi o massi. Tanto più quando ci si trovi in presenza di una scalata dallo sviluppo considerevole (dal ghiacciaio inferiore alla Forcella dell’Anticima esso è di circa 800 metri) e l’alpinista è esposto a questa eventualità più o meno per sette ore. Ma in particolare la definizione canalone tragico è legata ai non pochi alpinisti precipitati dall’anticima dell’Antelao – in genere seguendo la via comune – inghiottiti poi proprio da questo canalone: si pensi che nella sola estate del 1960 ciò accadde ad una cordata di ben sette persone (malauguratamente legatesi tutte assieme) e un mese dopo a un ragazzo, caduto dal medesimo punto. Così nella primavera del 2018, quando due scialpinisti cadorini – peraltro perfettamente equipaggiati ed allenati, tanto che alle otto del mattino erano già vicini alla cresta – furono visti improvvisamente scivolare rovinosamente verso valle in un volo che non lasciò scampo. Una dinamica ancor più inquietante, perché non si trattava certo di sprovveduti. Ma va ricordato che questa via presenta una pendenza che non scende mai sotto i 60° e nei passaggi più ripidi essa appare ben maggiore. Inoltre, poche sono le possibilità di auto assicurazione e molto dipende dalle condizioni meteo del momento. Un quadro complesso, dunque, ma quanto mai prossimo alla realtà e lucidamente definito, a suo tempo, dalla compianta guida alpina Ferruccio Svaluto Moreolo: «La montagna è così, pensiamo sempre che a noi non possa succedere niente e invece, quando meno te lo aspetti, avviene l’esatto contrario. Chi affronta la Oppel è consapevole dei pericoli che si corrono».
Quando nei mesi d’agosto del 1886 e 1931 furono compiute quelle storiche scalate, difficilmente gli autori avrebbero potuto prevederne l’apprezzamento successivo. Invece in seguito si sarebbe riversata su di esse l’attenzione degli alpinisti persino nelle stagioni più severe. Come avvenne nel 1952, quando la giovane guida di Tai Tita Panciera si cimentò con successo nella prima salita invernale, e per di più solitaria, del Canalone Menini, in quella stagione particolarmente rigida e nevosa. E difficile è dimenticare, tra gli altri, Gian Pietro Poles e Giovanni Zanettin del Gruppo Ragni di Pieve che per primi, nel 2005, risalirono il Canalone Oppel, giunsero poi sulla vetta dell’Antelao e infine scesero con gli sci per la via Menini. Nel 2010 era stata poi la volta di Alex Pivirotto, sempre del Gruppo Ragni, e Mirco Dell’Osta (Gruppo Rondi).
Questi canaloni — come precisa Ernesto Querincig, pure componente del Gruppo Ragni – sono sempre stati da loro considerati una “palestra” per le attività di ghiaccio e misto (sottolineando al riguardo che fino agli anni Ottanta tali vie si presentavano ancora con ghiaccio a sufficienza anche nei mesi estivi).

Ed ancora sono da ricordare, in senso contrario, le guide alpine Carlo Cosi e Giovanni Zaccaria, autori della salita della Menini, indi della cima principale dell’Antelao, in seguito calatisi (con gli sci e due brevi corde doppie) lungo il Canalone Oppel.
Tutto, insomma, sembra voler ricordare che il grande fascino delle vie tracciate lungo i canaloni dell’Antelao, che dal ghiacciaio si innalzano sino al cielo, non smette di incantare.
Nonostante gli inquietanti mutamenti ai quali stiamo purtroppo assistendo, essi sono tuttora strenuamente abbarbicati nella loro fragile bellezza, in attesa di nuovi innamorati, di quanti cioè vogliano continuare a coltivare le stesse aspirazioni che avevano spinto, in quegli anni lontani, il capitano Davide Menini e la guida alpina Otto Oppel a materializzare i loro sogni in quel mondo fatto di neve e roccia.
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“Chiedo se l’autore fosse parente del batterista dei Pink Floyd, Nick Mason?”
Credo di no.
Sull’Antelao sono disponibili anche questi due articoli:
https://gognablog.sherpa-gate.com/il-re-del-cadore/
https://gognablog.sherpa-gate.com/antelao-1941-la-via-bettella-scalco/
Ciao, ho salito il canalone Menini nel luglio 1998 assieme a due amici, partendo dal rifugio Antelao in quanto al Galassi era sempre difficile trovare posto nel fine settimana, fu un’esperienza incredibile ed irripetibile : la difficoltà più grande fu trovare un passaggio dalla fine del ghiacciaio all’attacco del canalone in quanto la crepaccia terminale era distante molti metri e con roccia scoperta, trovammo un varco roccioso sulla destra con un arrampicata su roccia credo tra il 3zo e forse il 4to grado, poi la risalita del canalone una goduria unica in cordata a tre con l’incubo di sassi e sassetti che ci cotringevano a continue fermate, il passaggio poi dalla forcella Menini alla cima dell’Antelao con un passaggio di terzo.
Pubblicai anche un articolo sul giornale sezionale del Cai di Mestre redatto dal compianto Armando Scandellari
Uno dei più bei ricordi alpinistici…
Piero De Grandis
Mestre
Articolo molto interessante dal punto di vista storico e geografico.
Chiedo se l’autore fosse parente del batterista dei Pink Floyd, Nick Mason?