Il 28 novembre 2015, nel salone L. Torelli di Sondrio, si è tenuto il convegno Le alpi in inverno, conservazione della natura e attività turistiche: c’è spazio per tutti?, organizzato da Marzia Fioroni e Mario Vannuccini.
Alla presenza di numeroso pubblico e con la moderazione del giornalista Franco Brevini, per tutta la giornata si sono alternati i relatori.
Il primo è stato Luca Rotelli, che ha parlato di Fauna selvatica e attività turistiche: c’è spazio per tutti sulle Alpi?
E’ seguita la relazione dell’avvocato Vincenzo Torti, che riportiamo integralmente qui sotto.
Altrettanto in tema e applaudito il successivo intervento di Enrico Bassi, sulle conseguenze dirette e indirette sulla fauna selvatica delle principali attività outdoor. Arturo Plozza e Carlo Micheli hanno portato l’esempio della Svizzera, mentre Mariagrazia Folatti ha parlato di normativa in provincia di Sondrio e di esempio di zonizzazione. La guida alpina e pilota di elicottero Maurizio Folini ha dato testimonianza dell’eliski in Valtellina, mentre Franca Garin e Francesco Comotti ci hanno dato dettagli rispettivamente sull’eliski in Valgrisenche e sulle motoslitte a Madesimo, mentre Antonio Perino ha portato l’esempio della Val Maira.
Alessandro Gogna ha messo l’accento sugli aspetti diseducativi di eliski e motoslitte.
Montagna e interessi in conflitto: divieti, normative o auto-regolamentazione per una effettiva sostenibilità?
di Vincenzo Torti
A un certo punto, il relatore precedente Luca Rotelli ha detto che di fronte ad alcune criticità, in Austria, una certa area è stata sottoposta a divieto di frequentazione.
Ecco che ci troviamo di fronte a uno dei modi di risposta che sono possibili di fronte a situazioni che richiedono un intervento rispetto ad un eccesso di invasività da parte della fruizione.
E’ chiaro che il divieto presenta due aspetti negativi:
– viene a inibire totalmente la possibilità di svolgere una certa attività;
– impone, perché il divieto venga rispettato, tutta una serie di strumenti di verifica e di persecuzione di eventuali violazioni.
Sappiamo benissimo quanto poco efficaci siano questi divieti se le possibilità di controllo sono insufficienti o inefficienti.
Una possibilità alternativa che abbiamo incontrato nel corso degli anni in determinate situazioni è che ci fosse l’opportunità di fare incontrare tra loro i portatori di interessi in qualche modo in conflitto, i quali decidano in qualche modo di collaborare, di sedersi a un tavolo, di firmare un accordo. Cioè stabilire assieme le regole di come gestire determinate attività. E’ una via suscettibile di utilizzo che però richiede come condizione tassativa che gli interlocutori si riconoscano legittimati tra loro e a un certo punto trovino il punto di equilibrio esattamente come accade in un normale contratto quando uno offre e l’altro chiede e si trova il punto di armonia nel prezzo convenuto.
Qual è la strategia che è stata fin qui attuata? Rispetto a queste due soluzioni, il Club Alpino Italiano, del quale sono stato fino a pochi mesi fa il vice-presidente, ha fatto una scelta ben diversa, che trova le sue origini nelle Tavole di Courmayeur del 1995. Allora si disse: quali sono gli interessi in conflitto nella frequentazione della montagna, partendo dalle esigenze primarie della montagna stessa? Il CAI si dichiarò votato all’auto-regolamentazione, all’auto-disciplina. E questa ispirazione di fondo è stata confermata nel corso degli anni e ribadita ulteriormente nel Nuovo Bidecalogo che è stato deliberato e approvato, dopo un importante lavoro di preparazione, dall’Assemblea Nazionale dei Delegati di Torino proprio in occasione del 150° di fondazione del CAI.
In quell’occasione, il CAI con questo documento, che non ha una valenza giuridica di obbligo, come non ce l’ha qualunque altro documento di obbligo morale, impegnava tutti i suoi iscritti (quindi anche gli accademici e le guide alpine dell’AGAI oltre a tutti i soci) a rispettare quei principi e quel codice di auto-regolamentazione che, dopo lunga discussione e approfondimento, l’Assemblea Nazionale dei Delegati aveva approvato, la direttiva cioè di come vivere la montagna secondo il Club Alpino Italiano.
E’ chiaro che, quando si appartiene a una associazione che si definisce libera e che tale è, può accadere poi che non tutti gli iscritti si trovino a tenere comportamenti coerenti con queste scelte di fondo. Qui nascono le contraddizioni che sono state rilevate e sono oggetto della nostra discussione. Questo è normale, direi fisiologico, in un contesto associativo che vede la presenza di oltre 300.000 associati. Ma è altrettanto vero che la risposta che il CAI può e deve dare, a cominciare dal suo vertice, deve essere coerente, perché tanto vale un’istituzione (o un’associazione) nel panorama di una società civile quanto afferma dei valori, ma poi li adotta e li attua e li realizza. Perché se restiamo nel mondo della teoria, di teoria ne facciamo tanta tutti ma poi dobbiamo andare alla verifica pratica per scoprire se siamo coerenti con i valori che andiamo enunciando.
Ecco perché, ritornato socio semplice, non ho potuto che apprezzare in modo pieno l’intervento del Presidente generale Umberto Martini il quale, a caratteri cubitali, superando qualche perplessità sul fatto che l’eliski fosse ricompreso o meno in un certo passaggio del Bidecalogo, ha detto che il CAI ritiene di non poter condividere la pratica dell’eliski, inteso come utilizzo di elicottero in montagna a scopo ludico, sportivo o turistico, invitando conseguentemente i soci del CAI a non praticare quest’attività.
Lo stesso vale per le motoslitte, avverso alle quali ancora il CAI ha preso una decisa posizione cercando di motivarla non per un preconcetto o un pregiudizio che non avessero la loro logica spiegazione, ma dando ampie e motivate argomentazioni del perché altro è utilizzare gli strumenti della tecnica (ed è stato ben ricordato, quando Luigi Bombardieri, un precursore, diceva “ma se vogliamo arrivare prima ed essere efficaci in un intervento di soccorso alpino, abbiamo lo strumento prezioso dell’elicottero”), altro è invece declinare l’uso dell’elicottero oltre la linea intermedia che è data dal rifornire i rifugi in modo più celere ed efficace, quando cioè si va oltre un certo limite. La posizione del CAI è, quando la strumentazione in oggetto serve alla tutela dell’uomo e quando è usata con ragionevolezza, allora possiamo usare tutte le tecniche; non quando le stesse tecniche sono utilizzate per abusare della montagna.
Coerentemente con questo, faccio due esempi recentissimi che mi hanno colpito per la loro positività.
Una sezione del CAI, la SEM-CAI di Milano, presieduta dall’amica Laura Posani, ha ricevuto un’offerta incredibile da una società svizzera per vendere il rifugio Zamboni-Zappa, che sta alla base della parete est del Monte Rosa; con il ricavato di questa possibile vendita la sezione avrebbe potuto sanare le passività della sezione, per vari motivi corpose, e avanzare ancora del denaro. Piccolo particolare: la destinazione e l’utilizzo di questo storico rifugio sarebbe stata quella di costituire un centro, una base di partenza, per attività di eliski. La SEM ha risposto “no grazie, teniamo debiti e rifugio”.
Ancora un’altra sezione, la Sezione Valtellinese, a fronte dell’apertura di un Comune locale verso le attività di eliski, ha risposto con una delibera con la quale ha preso posizione avversa, con motivazioni fortemente ancorate al richiamo della tutela dell’ambiente, pur consapevole che questo avrebbe comportato un giudizio negativo rispetto a potenzialità turistiche e quindi di lavoro.
Un noleggio di motoslitte a Livigno
Questi sono due ottimi esempi di un CAI che fa così come dice. Perché se pure è vero che l’auto-disciplina, alla quale vengono richiamati tutti i soci del Club Alpino Italiano, non ha una valenza giuridica (o meglio, si tende a dire che non abbia una valenza giuridica ma sia solo un obbligo morale) è altrettanto vero che ciò non è del tutto preciso.
E’ vero, è un impegno morale verso quell’intelligenza del limite che ricorda spesso il past-president, l’amico Annibale Salsa, preziosissimo per il CAI quando dice “l’auto-disciplina significa sapersi dare un limite”. Cogliere, nel limite che ciascuno si sa dare, l’intelligenza, la ragione valida per cui ce lo diamo. Può essere il limite soggettivo (io non mi espongo oltre una certa difficoltà perché le mie personali capacità non mi consentono di andare oltre, cioè io mi fermo laddove rischio più di quanto potrei rischiare); ma la stessa intelligenza del limite la possiamo poi applicare in tutti i casi che ci ha descritto il primo relatore: in tutte quelle criticità sarebbe un’espressione di intelligenza del limite quella di non andare a sovraccaricare un’area quando magari la valle accanto è deserta. Qui il CAI potrebbe essere di grande aiuto, fornire per tempo adeguate informazioni. Mi dispiace aver sentito che, su tante pubblicazioni di scialpinismo, pochissime hanno dato indicazioni di questa natura che invece sarebbero state così preziose: vuole dire che il CAI ha ancora molto da fare, in questa funzione che non è solo informazione (vedi le 34 guide che fanno solo informazione sugli itinerari), ma anche declinazione di quello che hanno fatto le altre tre guide, cioè un intervento di formazione. Fornire cioè l’informazione, ma dare anche quelle capacità critiche di lettura su ciò che ci si propone di andare a fare.
Ci vuole un CAI che non ha alcuna paura di affermarsi con una vocazione di educatore del limite. I nostri soci devono comprendere il limite e devono proporlo come nuova chiave di lettura. Non è libertà fare tutto ciò che si vuole, è libertà fare con intelligenza tutto ciò che è compatibile.
Ecco perché la risposta all’eliski non deve essere il divieto. In montagna già il divieto viene utilizzato in modo anomalo, improprio, quello che gli amministrativisti del diritto chiamano “sviamento del potere”, di derivazione dal francese “détournement du pouvoir”. Che cosa succede? Io utilizzo uno strumento per uno scopo diverso: in realtà io pongo un divieto quando ho timore che nella gestione di un certo territorio mi espongo a una responsabilità. Se poi qualcuno si fa male? Se poi succede qualcosa di negativo? Allora il divieto risolve tutto alla radice. Ma questo non è l’auto-limite che uno intendeva darsi: questo è un limite etero-determinato che arriva dall’esterno e che si sarebbe potuto evitare con un uso intelligente di quel territorio semplicemente con una presenza corretta. Ecco che, rispetto al divieto, la convenzione poteva essere un passo in avanti.
Faccio un esempio: in un recente passato c’è stato un incontro tra il presidente del CAI e il presidente della federazione motociclistica italiana. L’incontro c’è stato, cordiale. Ci si presenta, ci si conosce, io sono il CAI, io sono la Federazione Motociclistica. Ma l’interrogativo sottostante è: quali possibilità concrete di accordo possono esservi tra chiede e propugna di percorrere i sentieri di montagna con una moto e un CAI che dice che i sentieri si formano camminando e che il cammino non ha mai rovinato un sentiero mentre le moto sì. Come può il CAI mediare con una politica di usa e getta, con chi si è divertito ma poi addossa ad altri il compito della ricostruzione? Secondo me è un dialogo tra sordi, al di là della cordiale frequentazione civica non ci può essere altro.
Perché a volte gli interessi si trovano in un conflitto insanabile. E allora arrivo a uno dei temi che può essere uno dei principali per l’interesse di questo incontro: la motoslitta, l’eliski, l’inverno. Perché il CAI ha detto no? Perché certamente già nel corso degli anni abbiamo accettato una serie di cambiamenti, le piste di sci, le stazioni, un gran numero di frequentatori che hanno impattato con la montagna. Ma c’è stato chi, anche qui in questo convegno, ha denunciato le sue emozioni altamente negative quando si è trovato in mezzo al frastuono dopo aver supposto silenzioso quel luogo. Qui nessuno vuole fare il purista a oltranza: un conto è usare gli strumenti della tecnica, altro conto è abusarne e poi andare a trasformare quell’ambiente di montagna che noi amiamo, e che è la vera ricchezza. Lo sbaglio di molte amministrazioni poco accorte e poco lungimiranti è nel farsi illudere da qualche immediato risultato e non saper guardare avanti nel tempo. I nostri progenitori avevano invece molto attentamente considerato che ci fosse una montagna da conoscere e da tutelare. Io credo che la tutela sia funzionale alla nostra frequentazione. Se avremo saputo tutelare bene la montagna, avremo una frequentazione gratificata, e avremo raggiunto quel tipo di ambiente che noi sogniamo dopo l’attività settimanale in città. Questo lo dico per chi non ha la fortuna di vivere a ridosso delle montagne.
Ma una tutela per poter frequentare deve assolutamente raccordarsi con una frequentazione capace di tutelare: e così il circolo virtuoso si completa. Continueremo così tutti assieme a frequentare la montagna che ci piace, in modo corretto, senza indulgere alle moto, alle disneyland, ai parchi-gioco.
La montagna è cosa seria. Mi piace ricordarlo: nel testamento di Luigi Bombardieri, la cui figura è stata così opportunamente ricordata, uomo che è morto esattamente nell’anno in cui io sono nato, perciò per me quasi un passaggio di testimone, la montagna doveva essere scuola di carattere, scuola di onestà, di solidarietà e infine scuola di rispetto per l’ambiente. Questo è il modo con cui ci dobbiamo rapportare alla montagna, questo è il modo di cui il CAI deve, con sempre maggiore serietà, farsi propugnatore.
Ulteriori precisazioni (alcune risposte di Torti a domande rivoltegli)
Se noi riceviamo un’eredità ambientale compromessa, non penso esista alcuna buona ragione per trasferirla a nostra volta ancora più compromessa. Se c’è un modo per poter invertire la rotta, credo che sia un buon dovere agire in quel senso.
Nei confronti dei soci che hanno opinioni diverse, io credo che debba essere sottolineato fino a essere esausti che noi apparteniamo a una libera associazione e che ci associamo liberamente. Nel momento in cui vogliamo esprimerci o vivere diversamente da quei valori che la nostra associazione esprime, la soluzione più coerente è quella di uscirne, non di essere censurati. E’ una questione di lealtà. Se dobbiamo essere leali con la montagna, dobbiamo esserlo anche verso noi stessi. E’ una questione di onestà: scuola di onestà. Scusa, tu la pensi diversamente. La maggioranza ha deciso come te? Ok, mi faccio da parte. Non c’è nulla di male, perché nessuno è obbligato a far parte di un’associazione. Sarebbe questa la linea da perseguire, senza bisogno che alcuno faccia notare ad altri di essere fuori regola. Chi pensa diversamente non è obbligato a far parte della famiglia. Questa dovrebbe essere la giusta chiave di lettura per continuare a rispettarci, nelle nostre differenze.
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Belle le parole dell’Avvocato Torti, ma ancora una volta si capisce che il cittadino vede una cosa nella montagna che per il montanaro non c’é.
Premessa: sono nato in cittá e a 21 anni sono emigrato in una valle alpina e oggi di anni ne ho 55. Mi considero un montanaro qu ando sono a casa mia e un cittadino quando sto (rarissimamente! Forse 5 giorni ogni due anni) in città.
La famosa valvola di sfogo del cittadino che nel week end riempie le vallate per respirare aria buona e per preservare questo concetto è disposto a fare battaglie immani, per il montanaro rappresenta invece l’occasione per fare lasciare al cittadino dei soldi nella valle. Punto e basta!
Mia figlia di 14 anni mi dice che trova i cittadini della sua età molto più svegli e aperti dei montanari ma dice anche che non sanno fare niente. È un esempio per sottolineare le differenze di cui sopra.
Il problema, secondo me, è trovare il punto d’incontro tra due realtà che non si incontreranno mai per cultura e per caratteristiche geopolitiche, un po’ come i soci CAI e i motociclisti (con cui farei il tiro a segno) dell’esempio riportato dal Torti.
Concordo con quasi tutto ma mi sembra che l’argomento viene affrontato con estrema ingenuità.
La maggior parte dei frequentatori invernali della montagna manco sa cos’è il Cai, figuriamoci se ci si deve iscrivere per condividerne le tesi… Certo il Cai ha più di trecentomila soci ma gli sciatori sono milioni. Qualcuno sarà pure iscritto a quegli Sci Club-CAI (una delle incongruenze che non ho mai capito come possa esistere, ma pazienza…), ma sta di fatto che di “cani sciolti” ne restano tanti.
Come scrive Torti quando dice “se la pensate tutti così allora io che la penso diversamente ma sono in netta minoranza, mi faccio da parte”, dovremo lasciare in pasto a impresari senza scrupoli ogni valle?
E invece no. La lotta per una giusta causa la si può fare anche in pochi, anche da soli, facendo di tutto per educare chi non ha la dovuta sensibilità: cittadino o montanaro.
Io nel mio piccolo l’ho sempre fatto mentre faccio la guida alpina, il mio lavoro e la mia più grande passione. E ho anche ottenuto dei risultati, modesti numericamente ma qualitativamente soddisfacenti di sicuro.
Ma sono un montanaro anomalo e, caro Torti, quando dice che non tutti hanno la fortuna di vivere in montagna si ricordi che alla maggior parte di chi non ci vive va bene così. Va bene prendere tutto quello che la città offre, incluso lo stress e la limitazione di spazi e libertà, per avere la scusa di fuggire in montagna o altrove nel tempo libero.
Ci pensi bene. Questo vivere alimenta economie poderose contro cui niente e nessuno può fare qualcosa. Rassegnamoci.