Montbrison d’un tempo

Montbrison d’un tempo

Lettura: spessore-weight**, impegno-effort**, disimpegno-entertainment**

Primavera 2017, due cineoperatori documentaristi, affascinati dal personaggio, hanno deciso di creare un film su Gian Piero Motti, mi hanno contattato per raccogliere quanto più materiale possibile. Valuto l’impresa molto impegnativa, ma l’idea di rivivere i ricordi che ho del mio grande amico mi coinvolge e do la mia completa disponibilità. Raccolgo tutta la documentazione che ho di quegli anni, per me felici, e i due vengono a casa mia a filmare ciò che ritengono interessante per il loro lavoro e a raccogliere la mia testimonianza.
Nel cumulo di riviste e fotografie che ho riportato alla luce mi colpisce la Rivista Mensile del CAI n.10 del 1973 con sulla copertina una foto della Tête d’Aval de Montbrison. La foto è mia e nella rivista vi è un mio articolo.
Il Montbrison, e tutto il Briançonnais, sono oggi arcinoti tra gli scalatori. Non c’è arrampicatore che non si sia recato a scalare in quello che forse è il massimo concentrato di vie di arrampicata sportiva delle Alpi: dai monotiri delle numerose falesie fino alle vie che arrivano a superare le 20 lunghezze di corda delle grandi pareti. 45 anni fa non era così: a parte le grandi cime del Massif des Écrins, il Briançonnais era del tutto sconosciuto, gli spit non esistevano ancora e nessun italiano era mai andato a posare le mani sul calcare che circonda le grandi cime dell’Oisans. Noi fummo i primi italiani a recarci ad arrampicare su quel calcare. Rileggendo il mio antico articolo mi è venuto voglia di riproporlo a chi oggi si reca in quei luoghi armato di scarpette d’arrampicata, magnesite e rinvii, a divertirsi o a trovar lungo, su innumerevoli bellissimi itinerari di arrampicata, quasi sempre ben attrezzati. L’alpinismo del resto è così avvincente anche grazie all’alimentazione che trae dalla propria storia (Ugo Manera, 2017).

Il Montbrison
di Ugo Manera
(pubblicato su Rivista mensile del CAI n. 10 del 1973)
Foto di Ugo Manera

Montbrison è un nome che dà l’idea della montagna in decomposizione, della roccia sbriciolata, dello sfasciume. Pronunciandolo, viene alla mente l’immagine di immensi pendii aridi, coperti da ghiaioni.

E’ proprio così in realtà questo Montbrison? Quando Gian Piero Motti mi propose di andare a scalare delle misteriose Tenailles du Montbrison, non lo sapevo, ma temevo che fosse così.

Il mio amico invece era entusiasta: “Non preoccuparti – diceva – le Tenailles le hai viste anche tu, vedrai che sono bellissime”.

Infatti le avevo viste anch’io, e molte volte, percorrendo la strada che dal Monginevro va a Briançon. Sono due guglie ardite e vicine che, scendendo dal colle, si vedono apparire e scomparire tra le smagliature della pineta; laggiù sopra Briançon. La loro vista non aveva destato il mio interesse alpinistico, le immaginavo di roccia pessima.

Fidandoci di Gian Piero, ma non troppo, un giorno all’inizio di giugno (1971), partimmo per scoprire se le Tenailles fossero arrampicabili o se erano solamente un cumulo di sfasciumi. Da Briançon percorremmo la strada che tagliando sui fianchi del gruppo del Monbrison porta verso Les Vigneaux e introduce nella valle della Gyronde. Al culmine della salita prendemmo una strada in terra battuta che ci portò a un piccolo villaggio.

Già il primo approccio fu una gradevole sorpresa: sul fianco della montagna che da Briançon dà un’impressione di aridità, ecco invece dei verdi prati con erba abbondante ed una pineta intatta, senza traccia di rifiuti. Qua e là tra i pini, blocchi di calcare gialli e grigi a rompere la monotonia della foresta. Era primavera, e molti fiori interrompevano il verde intenso dei prati. Ci avviammo per il sentiero pianeggiante, coperto da aghi di pino e interrotto ogni tanto da tronchi abbattuti da eventi naturali. Costeggiammo degli alpeggi diroccati, coperti dalla vegetazione e infine raggiungemmo un valloncello percorso da un torrente. Risalimmo il valloncello petroso e ripido e sbucammo su una distesa erbosa cosparsa di radi pini e blocchi di roccia.

Il tempo era incerto e banchi di nebbia ci nascondevano le pareti circostanti. A un tratto però ecco le Tenailles sopra di noi in uno squarcio di azzurro. Bellissimo! Un castello di torri dolomitiche, superiore a ogni nostra aspettativa. L’apparizione ci conquistò anche se rimaneva qualche dubbio sulla qualità della roccia, visto che lo splendido castello appariva fasciato da colate di detriti. Non restava che andare a toccare con mano. Girammo attorno a uno spigolo impressionate e ci portammo sotto la parete sud-est. Non avevamo relazioni ma sapevamo che una via percorreva il centro della parete. Ci portammo ove la parete appariva meno compatta e iniziammo l’arrampicata divisi in due cordate. Due lunghezze di corda furono sufficienti per capire il tipo di roccia e l’arrampicata conseguente.

Su questo calcare non vi è mezza misura; le vie di media difficoltà non esistono, sul difficile la roccia è compatta, a volte anche troppo, mentre sul facile in genere si trova un totale sfasciume. Arrampicare nei massicci calcarei francesi significa essere pronti a superare forti difficoltà, le vie di IV grado su roccia accettabile sono rare. Benché le pareti abbiano un aspetto dolomitico, il calcare di cui sono composte è molto diverso dalla dolomia. Gli abbondanti appigli, i buchi e le varie articolazioni che caratterizzano la dolomia e che permettono di vincere in libera anche tratti strapiombanti, qui non esistono. La roccia è avara di appigli, per salire si sfruttano, in genere, le fessure e quando la parete diventa verticale e strapiombante bisogna ricorrere spesso alla progressione artificiale.

L’arrampicata è meno elegante che sulla dolomia, ma quando si è preso confidenza è comunque una scalata di grande impegno e soddisfazione. Sui loro massicci calcarei gli scalatori francesi hanno aperto un gran numero di vie difficili escludendo quasi del tutto l’impiego dei chiodi a pressione, spingendo al limite l’arrampicata libera e riducendo allo stretto indispensabile la chiodatura normale. Molte di queste vie non hanno nulla da invidiare alle grandi vie dolomitiche.

Dovemmo impegnarci a fondo per superare alcuni tratti della parete delle Tenailles, ma quando fummo oltre la metà della via si scatenò all’improvviso il temporale. Quando cominciò a tuonare io stavo uscendo dal passaggio più difficile della via; il mio compagno per raggiungermi avrebbe impiegato molto tempo, immobilizzando la cordata in una posizione poco piacevole, con i fulmini che stavano arrivando. Decisi di scendere mentre Gian Piero e Vincenzo Pasquali, che erano davanti a noi, riuscivano a terminare la via prima dell’ondata violenta del temporale. Con una corda doppia complicata in obliquo, ritornai alla sosta dove attendeva il mio compagno e con altre doppie guadagnammo la base della parete, sotto scosci di acqua e grandine.

La conclusione non fu quella desiderata ma le Tenailles ci avevano ugualmente entusiasmati. Il Montbrison non era dunque un cumulo di sfasciumi e se le Tenailles, nel loro piccolo, si erano dimostrate così interessanti, chissà cosa potevano riservare i paretoni che a sud del gruppo, cadono sulla valle della Gyronde. Varie volte, diretto verso le grandi cime dell’Oisans avevo ammirato quelle pareti dall’aspetto dolomitico osservandole attentamente, ma la mia era solo curiosità, non mi veniva in mente che quelle pareti potessero essere salite e che potessero destare interesse alpinistico. Alla base del mio giudizio vi erano due preconcetti entrambi errati: il primo era che così vicino ai colossi del Delfinato, che raggiungevano o sfioravano i “4000”, non valesse la pena di prendere in considerazione montagne che superavano di poco i 2000 metri. Il secondo era la convinzione, mia e dei miei amici, che su quelle pareti la roccia fosse molto friabile.

Claudio Sant’Unione sulla 1a lunghezza di Carnutes, Tenailles de Montbrison, 11 agosto 2012

La bella sorpresa delle Tenailles cancellò i preconcetti verso il gruppo del Montbrison e la curiosità indefinita si trasformò in vivo interesse. Cominciammo a cercare notizie su quelle montagne sfogliando la rivista “La Montagne et Alpinisme” del CAF e gli Annuari del GHM francese. Che nomi saltarono fuori! Sulla parete sud della Tête d’Aval vi erano tracciate due vie: una aperta da René Desmaison in due giorni di arrampicata, con un bivacco in parete; difficoltà di V e VI. L’altra da una cordata di marsigliesi in due riprese, guidata da Jacques Kelle, gente che con i gradi non scherzava: dal V in su. Il nostro interesse per questo gruppo crebbe alimentato dalle notizie lette sulle riviste francesi e ci ripromettemmo di tornare.

Gian Piero Motti, 1a italiana della via Kelle alla Tête d’Aval, 1972

Passò l’estate a collezionare soddisfazioni e delusioni in giro per le Alpi, dal Monte Bianco alle Dolomiti e venne l’autunno che esercita su di me un fascino particolare da quando ho cominciato a scalare montagne. Quando l’aria del mattino e della sera diventa pungente e l’atmosfera diventa limpida e trasparente come in nessun’altra stagione dell’anno, non ho più voglia di calpestare ghiaccio e di soffrire in lunghe marce su morene crollanti. Sono sazio di alta montagna e sento la necessità di assistere alla trasformazione dei colori sui prati e nei boschi. Quando le macchie di rosso, giallo e arancio si insinuano e poi dilagano inghiottendo il verde che ancora resiste, allora mi piace essere li, a godermi quello spettacolo che ha sempre qualcosa di nuovo da mostrare.

In autunno è bello salire per i boschi nell’aria frizzante del sorgere del sole e scendere a sera al chiaro di luna. Ma la voglia di arrampicare c’è sempre, forse più forte che in estate. E’ scemata l’ansia di fare questa o quella grande salita, non c’è più la fretta indiavolata che ti spinge; si è predisposti a godere dell’arrampicata come divertimento.

Le Tenailles du Montbrison rappresentano la salita autunnale per eccellenza. La quota non è elevata, la marcia di approccio, non troppo lunga, si svolge in una pineta prodiga di scenari autunnali molto belli. La scalata deve essere sicuramente impegnativa, tale da soddisfare anche chi è reduce da un’intensa attività alpinistica estiva, che gli ha lasciato un buon livello di allenamento. La via che desta il nostro interesse è lo sperone est lungo la via tracciata nel 1965 dalla forte guida di Briançon Raymond Renaud. Alto 400 metri lo spigolo presenta difficoltà di V continue, un tratto di VI e passi in artificiale.

Per il tentativo alle Tenailles Gian Piero Motti radunò un folto gruppo di amici: nove, quattro torinesi e cinque lombardi. In un gruppo così numeroso non poteva mancare l’allegria, dopo una cena tra battute e sfottò, dormimmo a Briançon e alla domenica mattina, ancora al buio, percorremmo la stradina sterrata fino al termine per poi avviarci lungo il sentiero: era il 17 ottobre 1971 (in realtà il 24 ottobre 1971, NdR).

Ugo Manera dopo la ritirata dalla via Kelle alla Tête d’Aval, maggio 1972

Il tempo era splendido e quando, superato il valloncello petroso sbucammo sulla distesa erbosa, le Tenailles ci apparvero, tra le cime dei pochi alberi, infuocate dai primi raggi del sole. Sostammo un po’ ad ammirare il bel quadro poi, disordinatamente, superammo il pendio di detriti che porta alla base della parete.

Un problema curioso si presentò all’attacco dello spigolo: eravamo in nove e otto desideravano salire di capocordata. Risolvemmo il problema dividendoci in tre cordate da tre: ad ogni sosta, ogni cordata, si scomponeva per cambiare il primo. In testa saliva la prima cordata composta da Alessandro Gogna, Benvenuto Laritti e Gian Piero Motti. La seconda era formata da Gian Carlo Grassi, Ugo Manera e Guido Morello, seguiva l’ultima cordata con Piero Ravà e altri due lombardi di cui non ricordo i nomi (Luciano Manzoni e Gianluigi Quarti, NdR).

Arrampicammo fino a tarda sera lungo il bello spigolo superando placche, fessure, camini in un clima di allegria generale. L’ultima cordata uscì in vetta che era quasi notte. Nel buio incipiente scendemmo per le ghiaie, poi nel bosco. Alle macchine ci riunimmo e alla luce dei fari consumammo tutto ciò di commestibile avevamo con noi, prolungando il clima di allegria della giornata, alimentato ancora dall’entusiasmo che la bella salita aveva acceso.

Dopo l’esperienza delle Tenailles i desideri di Motti e miei si indirizzarono verso la grande parete della Tête d’Aval: la stagione era però inoltrata, cadde la prima neve e i progetti vennero rinviati all’anno seguente.

Primavera 1972. Il tempo è incerto, piove spesso. Nei nostri progetti, in attesa di qualche fine settimana di sole, c’è sempre il calcare delle Prealpi francesi. Nel mese di aprile ci riesce una splendida scalata a La Pelle nel Diois. Nel viaggio in auto, sulla strada che da Briançon va a Gap, passiamo sotto la Tête d’Aval e ancora una volta ci fermiamo ad osservare la grande parete, oggetto dei nostri desideri. C’è ancora neve nei colatoi, occorre aspettare ancora qualche settimana, ma appena sarà possibile…

Il possibile arriva venerdì sera 12 maggio e partiamo da Torino dopo il lavoro. Siamo in cinque: Fulvio Berrino, Roberto Bianco, Guido Morello, Motti ed io. Il tempo è incerto ma partiamo ugualmente sperando in un miglioramento. Trascorriamo la notte in un alberghetto di Vallouise e al mattino presto ritorniamo al villaggio di Les Vigneaux, dove parte una sterrata che con molte curve ci porta in alto, nella pineta che si stende sotto la Tête d’Aval. Al termine della sterrata, nei pressi di un enorme masso, lasciamo le vetture e ci avviamo per un sentiero ben tracciato. E presto e la luce ancora scarsa, la grande parete che domina il vallone ci appare ancora grigia, priva di rilievi.

Passiamo vicino a una casetta della Forestale nascosta tra gli alberi e dopo aver attraversato un ruscello dalle sponde franose, entriamo nel Bois de Parapin. Siamo stupiti dalla bellezza di questo bosco, da sotto era imprevedibile, le piante, nascoste dai rilievi disuguali, sembravano disperse su di un pendio bruciato dal sole. Poche volte ho attraversato una pineta così bella e suggestiva. Ad eccezione del sentiero che stiamo percorrendo, mancano altre tacce umane, non ci sono ceppi di alberi tagliati, quelli che giacciono nel bosco sono stati abbattuti dalle avversità atmosferiche, e sono lì a marcire tra le loro fronde, secche, scheletriche, secondo il ciclo naturale delle cose.

I pini hanno il tronco rossastro e le fronde verdissime. Il terreno è molto asciutto e manca quel sottobosco verde, tipico di molte pinete, che contribuendo a smorzare il contrasto di colori dissolve le tinte più forti in una atmosfera di verde diffuso. Il contrasto di colori è perciò vivissimo, esaltato anche dal caos dei tronchi contorti, dal terreno a tratti impervio e dai massi di calcare multicolore disseminati nel bosco. Mentre saliamo verso la base della parete, veli di nubi hanno coperto il cielo, nascondendo il sole sorto da poco.

Claudio Sant’Unione nella 1a invernale della Tête d’Aval, inverno 1974

Per salire la parete della Tête d’Aval abbiamo scelto la via dei Marsigliesi che ne percorre il settore orientale. Attraversando ripidi pendii terrosi raggiungiamo l’attacco della via alla base di un lungo diedro che sale verso sinistra. Ci dividiamo in due cordate: Motti e Morello formeranno la prima alternandosi al comando. Berrino, Bianco ed io formiamo una cordata da tre, io salirò in mezzo e ogni volta ricupererò i miei compagni che saliranno contemporaneamente.

In due lunghezze di corda siamo alla sommità del diedro su un comodo ripiano. Un pino contorto riesce a vivere in questo angolo; ad esso ci assicuriamo per affrontare il muro giallo e strapiombante che ci sovrasta. Motti è già impegnato sul muro, trova dei chiodi che non lo convincono, li sostituisce come può, poi compaiono le staffe. Allungandosi a raggiungere un appiglio lontano, riesce a superare uno strapiombo, attraversa a destra e si ferma appeso ai chiodi. Guido lo raggiunge e prosegue in testa affrontando un muro grigio che appare impegnativo.

Intanto sono salito anch’io, non sosto a metà del muro ma proseguo fino alla sosta successiva; il chiodo di assicurazione che ha infisso Morello non mi convince, ne aggiungo un altro più saldo e supero l’ultimo ostacolo del muro: uno strapiombo nero aggettante. Il tratto appena superato ci ha evidenziato il calibro dell’arrampicata sulla Tête d’Aval. Abbiamo raggiunto un’ampia terrazza di detriti; al di sopra una fascia grigia che superiamo lungo un diedro liscio e difficile. Una facile rampa ci porta a destra sotto una parete giallastra e strapiombante, non è possibile salire direttamente, si sale obliquando a sinistra lungo una serie di fessure che incidono gli strapiombi.

Le fessure sono alquanto impressionanti, dal basso non si capisce bene dove portino e dove si possa sostare, alcuni chiodi testimoniano però che di lì i nostri predecessori sono passati. Gian Piero è già sulle staffe alle prese co una chiodatura complessa, dopo circa 30 metri si ferma appeso ai chiodi e seduto sulle staffe; Guido lo raggiunge e Motti riparte lungo le fessure e scompare dopo aver aggirato uno spigolo. Sono salito anch’io, impegnato non vedo altro che i metri di roccia che ho davanti al naso, evito la sosta sulle staffe confidando sulla lunghezza delle corde e proseguo fino al termine delle fessure. Con un’uscita in libera molto dura ma entusiasmante per l’esposizione, raggiungo i due compagni in una scomoda nicchia sotto un pronunciato soffitto.

Parete sud della Tête d’Aval

Nella foga dell’azione non abbiamo prestato attenzione alle evoluzioni meteo che sono volte al peggio. Protetti dagli strapiombi non ci siamo accorti che ha cominciato a nevicare. E’ una nevicata intensa, una cortina di grossi fiocchi scende a qualche metro da noi. Le placche sotto di noi si imbiancano rapidamente. Non resta che scendere lungo la parete che abbiamo salito. Uno solo dei miei compagni salirà fino a me per togliere i chiodi, l’altro ci aspetterà sul terrazzino.

Motti ha già tessuto una ragnatela di cordini tra i vari chiodi piantati per rendere sicura la sosta, sistema una corda doppia e si affida ad essa per la discesa. La calata è piuttosto impressionante, siamo su una fascia di strapiombi che avevamo aggirato grazie al sistema obliquo di fessure. Le corde penzolano, lontane dalla roccia, per 40 metri ed arrivano giuste ad una piccola cengia dove dobbiamo fermarci. Guido scende a sua volta e ricupera le corde; Roberto mi raggiunge schiodando, riparato dal tetto che mi sovrasta; guardo la fitta nevicata che per ora non ci bagna. Quando Roberto mi raggiunge lo calo nel vuoto appeso a una corda grazie al freno del mezzo barcaiolo, poi sistemo una corda doppia e scendo anch’io; nella discesa i piedi non toccano la roccia e mi trovo a roteare su me stesso, sovente a guardare la nebbia della valle con la schiena rivolta alla parete. Sulla cengia ci riuniamo e continuiamo la discesa; il disappunto per la ritirata forzata presto scompare, cominciano a volare battute scherzose e, sotto la fitta nevicata ritorna l’allegria.

Primo tentativo alla via Kelle della Tête d’Aval, maggio 1972

Siamo ormai bagnati fradici e non ci preoccupiamo più della neve che ci imbianca, ci sembra quasi di partecipare a un gioco spensierato e ogni occasione è buona per scatenare le nostre risate. Nel bosco si è depositata ormai molta neve, gli alberi hanno assunto l’aspetto natalizio caro ai bambini, e in modo fanciullesco ci comportiamo, ridendo e scuotendo i rami degli alberi per imbrattarci di neve a vicenda. Così, ancora una volta, il maltempo ha arrestato la nostra esplorazione del Montbrison.

L’occasione di ritornare si presenta poco tempo dopo, ed in modo movimentato. Sfruttando una delle combinazioni festive di primavera parto con i soliti amici diretto alle Dolomiti per salire la parete sud-ovest della Cima Scotoni. Troviamo però un tempo infame: giunti al passo Pordoi decidiamo di invertire la marcia e ritornare a Torino. Ritornando verso ovest osserviamo che le nubi pian piano si dissolvono, a Torino il cielo è sereno; senza indugi decidiamo di ripartire al mattino seguente per Briançon e di andare a riprendere il tentativo alla Tête d’Aval.

Il mattino successivo partiamo di buonora per attaccare il giorno stesso la parete. Siamo in cinque, reduci del primo tentativo solo io e Gian Piero, gli altri sono: Ennio Cristiano, Daniele Arlaud e Alberto Re. Quando ci avviamo a piedi nel Bois de Parapin il sole splende nel cielo azzurrissimo, la grande parete della Tête, illuminata dai raggi solari, è molto bella con le sue zone gialle e rossastre che spiccano vivissime tra il grigio predominante; non l’avevamo ancora vista in queste condizioni e lo spettacolo serve, se necessario, a caricarci ancora di più.

Valentina Villa sul plaisir di Fiesta del Sud, Tenailles de Montbrison

Fa caldo e noi camminiamo seminudi appoggiandoci a contorti bastoni ricavati dai numerosi rami secchi che coprono il terreno. Alla base della parete, tra ripidi pendii terrosi, vi è un piccolo ripiano ove scorre un ruscelletto le acque del quale sgorgano direttamente da spaccature sulla parete verticale. Qui sostiamo a rifocillarci un po’, mentre consumiamo i viveri la nostra attenzione è attratta dal cinguettio di numerosi uccelli, alziamo gli sguardi e notiamo, incollati sotto gli strapiombi, numerosi nidi con tante testoline che sbucano dal buco di ingresso, mentre gli uccelli adulti fanno spola a portare cibo. Siamo tranquilli in clima di allegria, ma lo spettacolo accresce ancora il nostro ottimismo.

Divisi in due cordate attacchiamo la parete: davanti Cristiano, Motti ed io, dietro Re con Arlaud: quest’ultimo, il forzuto del gruppo, avrà l’ingrato compito di ricuperare i chiodi che noi pianteremo. Comincia Ennio che condurrà per il tratto che Gianpiero e io già conosciamo. Nelle ore a cavallo del mezzogiorno superiamo la prima parte della parete e arriviamo all’inizio della lunga fessura obliqua. Arlaud, Cristiano e Re, per la prima volta ad arrampicare nel Montbrison, condividono il nostro entusiasmo di quasi veterani del gruppo. Alla fessura obliqua Gian Piero prende il comando della cordata e con laborioso lavoro di chiodatura ci ritroviamo nuovamente sotto il tetto dove ebbe termine il primo tentativo.

È pomeriggio inoltrato e i raggi del sole stanno abbandonando la parete, obliqui sfiorano le rocce e ci colpiscono in viso mentre scaliamo. Poco discosta da noi una cascatella d’acqua cade lungo rocce nere verticali e si disperde in pulviscolo dorato. Motti supera il tetto con le staffe poi prosegue fuori dalla nostra vista, sale lentamente, pianta qualche chiodo poi ci urla di raggiungerlo. Ennio e io, legati ciascuno al capo di una corda, arrampichiamo contemporaneamente e superato a nostra volta il tetto lo raggiungiamo lungo lame difficili ma belle da scalare. La lunghezza successiva è scoraggiante: una traversata verso sinistra su parete gialla e friabile dove è molto difficoltoso infiggere chiodi; la relazione dei primi salitori quota questo tratto: A2 e VI grado.

Gian Piero supera lentamente il tratto molto difficile, alcuni vecchi chiodi non danno affidamento. Una lametta sottile, conficcata in una screpolatura, se ne va appena caricata. Al limite dell’equilibrio riesce a proseguire e raggiunge una fessura molto dura, ancora qualche chiodo poi ci urla che è ormai in vista della grande cengia mediana. Un colatoio levigato dall’acqua ci porta sulla cengia.

Questo settore della grande parete sud è caratterizzato da una grande cengia che lo taglia a metà altezza. E’ una cengia, però è isolata nella parete e non concede scappatoie laterali: a sinistra si perde nella verticale parete grigia ove passa la via di Desmaison, a destra dà su un orrido canalone impraticabile

Avevamo preventivato il bivacco sulla grande cengia ma non ci aspettavamo un alloggio così accogliente: l’acqua era assicurata da un ruscelletto sul fondo del colatoio e il giaciglio dall’erba che fa da pavimento alle grotte nella parte bassa della cengia…

11 agosto 2012, tre veterani verso le Tenailles de Montbrison: Sant’Unione, Manera, Gogna

Posiamo i sacchi e, aspettando Re e Arlaud, andiamo a vedere ciò che ci aspetta per il proseguimento della scalata. La parete continua gialla, verticale e strapiombante, ad essa si appoggia una torre che ha ai lati due grandi fessure camino, quella di destra appare impercorribile, quella di sinistra sembra offrire maggiori possibilità. La luce del giorno si spegne mentre si sta alzando un po’ di nebbia; torniamo in basso verso i nostri amici che intanto sono usciti sul cengione. Nella luce crepuscolare ci prepariamo per il più comodo dei miei bivacchi in parete.

Al mattino persiste un po’ di nebbia mentre ci avviamo a riprendere la salita. E il mio turno a condurre, debbo superare un tratto di roccia friabile, sarà l’unico di roccia cattiva di tutta la salita, qualche esitazione poi la roccia migliora. Ci portiamo a destra nella fessura che delimita la torre dal corpo principale della parete, un muro compatto si alza sopra di noi, è uno dei tratti più difficili della via, la relazione indica A3.

Aiutandomi con un vecchio chiodo, malamente infisso in una lama staccata, mi alzo e in un buco pianto due chiodi accoppiati che entrano pochi centimetri. Con un po’ di batticuore mi alzo sulle staffe appese a quei chiodi ma non trovo altri buchi. Salgo sull’ultimo gradino della staffa e con la punta delle dita riesco ad arrivare a una fessura irregolare; il quella precaria posizione traffico a lungo mentre i miei compagni riuniti in sosta attendono pazientemente. Finalmente un chiodo entra e posso uscire dal difficile passaggio.

Le difficoltà continuano elevate ma non al livello del tratto in artificiale. Per fessure e camini raggiungo la sommità della torre staccata. Da un comodo ripiano possiamo ammirare in tutta la sua bellezza il selvaggio luogo ove ci troviamo: di fronte una parete giallastra promette ancora difficoltà e dubbi, a destra una cresta di torri cade su un tetro canalone con pareti striate di nero. Dietro di noi, anzi sotto di noi, c’è tutta la fascia di verdi conifere che fascia la nostra parete. Arrampicando, guardando tra le gambe, scorgiamo pochi metri di pietra sfuggente poi più nulla, fino alla cima dei pini: tanti piccoli ombrelli verdi, visti dal di sopra.

Per il tratto che ci rimane ripassa in testa Gian Piero, sono tre lunghezze ancora impegnative su roccia avara di appigli; dopo un tentativo verso sinistra, spinto al limite volo, trova una soluzione a destra fino ad una spigolo che con una lunghezza di bella arrampicata ci conduce alla fine delle difficoltà; il terreno non è più difficile, saliamo tutti insieme ridendo e scherzando molto soddisfatti della bella scalata e senza ormai nessuna preoccupazione.

Non c’è una vera e propria cima, dopo un tratto pianeggiante si riprende a salire tra torri strane e complesse. Al termine del tratto pianeggiante attraversiamo a sinistra per cenge e raggiungiamo il versante che dà verso Vallouise, quindi iniziamo a scendere; la discesa è lunga e complicata, difficile da individuare, sempre con il rischio di finire su salti verticali impercorribili, Troviamo a un tratto dei segni rossi, lasciati forse dai servizi forestali, che ci aiutano a individuare i giusti passaggi.

A sera, quando nubi temporalesche si stanno addensando in cielo, siamo nuovamente nel Bois de Parapin. Alle nostre spalle la parete ci appare ancora più grande di come l’abbiamo vista ieri. La soddisfazione è elevata.

Scrivendo queste righe mi accorgo di desiderare che altri salgano su quella parete sopra ai pini e ritrovino le emozioni che abbiamo provato noi.

 

Nell’inverno 1974 ritornavo a ripercorrere la via Kelle in prima invernale con Claudio Sant’Unione, Gianni Altavilla e Mariangelo Cappellozza. Nel 1978 ero nuovamente sulla parete con Flaviano Bessone per salire la via Desmaison, una via complessa e difficile ma non bella come la Kelle.
Nel 1983 avvenne la rivoluzione che cambiò la storia della parete: l’apertura della via Ranxerox, attrezzata a spit. Da allora tutto è cambiato nel Montbrison e nel Briançonnais in generale; portando questo insieme di montagne e pareti, a essere quello che oggi tutti conosciamo (Ugo Manera, 2017).

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Montbrison d’un tempo ultima modifica: 2018-03-11T05:36:31+01:00 da GognaBlog

3 pensieri su “Montbrison d’un tempo”

  1. La cosa più bella è la rincorsa a pareti, anche molto lontane tra loro, in cerca del bel tempo. Le ritirate, l’incertezza meteorologica, viste oggi sembrano delle maledizioni (a me no) ma anni fa facevano parte del gioco. E trattandosi appunto di gioco trovo bello che fosse impregnato di incertezze.

    Oggi ci si muove spinti da altri stimoli e bisogni e sono felice di avere vissuto anch’io quell’epoca atecnologica in cui ci si parlava guardandosi negli occhi o tutt’al più al telefono di casa.

     

  2. Articolo..e racconto letto con molto piacere..Grazie “Alessandro e complimenti !!

    Con Aff. G.Carlo

  3. Volevo solo ricordare che la prima via moderna aperta alla Tete d’Aval é  LE POLICINELLE DANS LE TIROIR, che percorsi con Antoine de Choudens negli anni ’90, alpinista di tutto rispetto aveva salito l’Everest senza ossigeno, polo Nord e Sud a piedi in piena autonomia. Saluti a Ugo e congratulazioni per il suo articolo.

    GALLY LUIGI

     

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