Sono passati giusto tre anni da quando, il 14 marzo 2017, a Modesto (California) veniva a mancare uno dei grandi: Royal Robbins. Nato a Point Pleasant (West Virginia), il 3 febbraio 1935, fu uno dei pionieri dell’arrampicata americana. Dopo aver imparato ad arrampicare al Tahquitz, fece molte prime ascensioni sulle big wall di Yosemite. Come precursore dell’arrampicata libera e senza chiodi, Robbins, insieme a Yvon Chouinard è stato determinante nel cambiare la cultura dell’arrampicata della fine degli anni ’60 e dei primi anni ’70, incoraggiando l’uso e la conservazione delle caratteristiche naturali della roccia. In seguito divenne un conosciuto kayaker.
il mio ricordo personale si limita a una breve ma intensa frequentazione al Festival di Trento del 1988. Una bella cena in casa di amici trentini nella quale preparai a Royal Robbins, a Chris Bonington e a tutti gli altri la mia crostata (che in seguito sarebbe diventata la famosa “crostata del capo”); e una giornata sulle rocce di Coltura (Valli Giudicarie). Con noi c’erano anche mia moglie Ornella, Franco Ribetti e Marco Fanchini. Royal s’impegnò su tre delle otto lunghezze che salimmo a moulinette: La popa che pipa (6a), Frish fresh (6a+) e Regina della Notte (6b). Aveva 53 anni ed era oppresso dalla sua artrite: ma vederlo scalare faceva davvero impressione. Quando si riposava, parlando con Ornella, non smetteva mai di interessarsi a ciò che facevamo noi, le nostre evoluzioni su Woodstock, su Giovanna tutta panna e anche su Dream (che ci riuscì al secondo tentativo).
Nel mondo del granito e della luce -1 (1-3)
Da Alpinist 58, estate 2017
Traduzione © Luca Calvi
Un uomo si muove al di sopra del vuoto. La luce manda i suoi abbagli su una strapiombante parete di granito. Sotto di lui la corda penzola libera, senza offrire alcuna protezione visibile. La neve e il cielo sembrano dissolversi nel biancore del mezzogiorno. Lui sembra trasudare una perfetta compostezza nella vacuità che lo circonda, conscio di come la sua vita dipenda dal contatto con la roccia. Da ragazzo Royal Robbins era rimasto estasiato di fronte a questa fotografia del libro High Conquest, di James Ramsey Ullman. Come lui stesso poi raccontò nelle sue memorie, offriva una visione di quel che lui voleva “diventare”. Ben parecchio tempo dopo, quando ormai era già uno degli scalatori, dei canoisti e degli scrittori di montagna più influenti d’America, ancora tornava a quel sogno di auto-trasformazione, ad un senso dell’esistere che sorgeva dal nulla. Dalle pareti illuminate dal sole e dai rapidi fiumi della Sierra fino alle punte striate di neve delle Alpi e delle catene dell’Alaska, fece di tutto per realizzare il sogno di un’esistenza audace, selvaggia, libera e bella. “La vita è piena di mondi virtuali che costringono la gente a crearli” – fu l’ipotesi che Pat Ament avanzò nella sua biografia Spirit of the Age. Nel divenire, lo stesso Robbins divenne l’incarnazione di gran parte della mitologia dell’Età dell’Oro di Yosemite. In ciò che ora si scrive di lui compaiono frammenti di una storia totalmente rivoltata per rivelare nascosti regni di esperienza, narrative dell’inconscio collettivo di una comunità, i suoi ideali, i suoi difetti, i suoi successi e le ricerche di un suo riscatto. Tra le fessure della pietra e le parole sulla pagina possiamo anche vedere alcuni sprazzi di un individuo, di un ragazzo che un giorno andò a cercare la fuga dalla disperazione in quello che lui chiamava “un mondo di granito e di luce” (Katie Ives).
Rimangono le montagne
di Doug Robinson
Da adolescente, verso la fine degli anni ’40, vagava allo sbando per le strade di Los Angeles chiedendosi cosa fare della sua vita. Molto tempo dopo, nelle sue memorie, ricordò un senso di “essere alla vaga ricerca di risposte a domande solo parzialmente formate… Tutto ciò che riuscivo a vedere era la grigia foschia del nulla… Continuavo a chiedermi cosa avrei fatto”.
Che abisso tra quell’anima perduta e la presenza dominante incontrata dallo storico di Camp 4 Steve Roper nel 1959, due anni dopo la sua scalata all’Half Dome. “Ragazzotto dall’aria distaccata, Robbins aveva un portamento perfetto e un modo di parlare misurato”. Da dove fosse arrivata quella trasformazione rimaneva un mistero anche per Royal e fu per questo motivo che decenni dopo la storia a noi ben nota che lo vide nel suo ruolo di guida per l’Età dell’Oro di Yosemite decise di tornare nella sua cittadina natale di Point Pleasant, in West Virginia. Lì cercò di ricostruire un’infanzia distrutta. “Ho come un sentimento vago che un tempo ci fosse nella mia vita qualcosa di differente e che io l’abbia perso per sempre” – scrisse. “Mi opprime la sensazione di questo qualcosa di prezioso un tempo reale e ora scomparso per sempre”.
Quel senso di vuoto esistenziale aveva tormentato Royal per tutti i suoi anni giovanili. Suo padre, Royal Shannon Robbins, aveva abbandonato la famiglia quando Royal era ancora in fasce, lasciandogli solo il cognome e qualche racconto su un uomo in cerca di avventura in Alaska. Sua madre si mise assieme a un altro uomo che insistette affinché Royal prendesse il suo cognome. Macchinista di mestiere, il nuovo patrigno di Royal spostò la famiglia a Los Angeles, ma a furia di bere riuscì a perdere un posto di lavoro dopo l’altro e a casa era solito picchiare ambedue, madre e figlio.
Quando Royal entrò nell’adolescenza sua madre divorziò dal patrigno e consentì a Royal di riprendersi il vero cognome. Ciò nonostante, aveva la sensazione di “annegare in un mare di anarchia e di mancanza di obiettivi”. Assieme ad altri due ragazzotti andava a saltare sopra i treni merci diretti al Mojave e una volta, mentre stava saltando su un vagone in movimento, cadde a lato e si salvò per un pelo. Iniziarono quindi a fare furti dalle borse nelle camere da letto del vicinato e provando il massimo del piacere a farlo quando i padroni erano in casa. “I soldi erano un obiettivo secondario” – scrisse Royal – “i nostri furti con scasso erano più che altro avventure”. Queste però terminarono per lui con parecchi giorni al riformatorio. I tre dopo quell’esperienza presero ognuno la propria strada e uno di loro andò a finire al penitenziario di Stato. E Royal? “Io fui salvato dall’arrampicata” – spiegò. “Non c’era nulla che potesse avvicinarsi alla gioia che provavo a muovermi sulla roccia”.
All’età di quattordici anni Royal partecipò a un’uscita con gli scout nella High Sierra. Lì, mentre camminava con lo zaino in spalla lungo il John Muir Trail rimase affascinato dal “mondo di granito e di luce, di laghi e di corsi d’acqua, di prati e di foreste, di cervi e di marmotte”. Arrivarono al Fin Dome e i capi avevano portato con sé le corde. Royal rimase deliziato a vedere quanto gli venisse naturale arrampicarsi sulla pietra, ma anche per qualcos’altro. “Quando toccai la roccia, lei a sua volta mi toccò lo spirito” – scrisse – “risvegliando un desiderio ineffabile come se fossi andato a stuzzicare un qualche ricordo nascosto di una esistenza precedente, più felice”.
Quando poi i Boy Scouts di Los Angeles iniziarono ad allontanarsi dall’arrampicata Royal decise di andare avanti senza di loro e reclutò invece amici novelli. Durante in tentativo piuttosto ingenuo un chiodo uscì dalla sede, ma se la cavò con solo un polso rotto. Entrò poi in contatto con la sezione di arrampicata su roccia del Sierra Club a Stoney Point. “Ero rimasto stupito a vedere… Veri scalatori!… Amichevoli, pronti ad incoraggiare, mi sembravano le persone migliori che avessi mai incontrato”. Una foto dell’epoca mostra un sedicenne allampanato in scarpe di tela alte che sale in opposizione sull’arenaria tutto pieno di entusiasmo.
Royal aveva avuto la fortuna di incontrare gli scalatori di punta dell’epoca, che ben presto lo portarono a Tahquitz Rock, la falesia più importante della California meridionale. Al secondo giro di Royal il suo nuovo mentore, John Mendenhall, gli lasciò tirare da primo la lunghezza chiave della Sahara Terror, all’epoca la via più difficile della zona. Royal riconobbe che finalmente gli veniva offerto “un po’ di interesse paterno”.
L’anno successivo fu la volta dell’Open Book. Mentre si risale lo scabro pendio alla base della parete sud il diedro si presenta alla vista all’improvviso, svettando per oltre cento metri, con una scioccante verticalità rispetto a tutte le placche generalmente appoggiate che stanno intorno. Mendenhall l’aveva salito per primo cinque anni prima e ancora non c’era stata alcuna ripetizione. Gli scalatori avevano già cominciato a usare corde di nylon, ma l’antica tradizione per la quale “il primo di cordata non deve mai cadere” sembrava rimanere salda al suo posto dagli antichi tempi della ben più debole canapa. Royal salì fino alla base di una scaglia sporgente che Mendenhall aveva salito in artificiale. “Ero disposto ad accettare uno o più voli come prezzo da pagare per riuscire a passare in libera” – raccontò poi, un atteggiamento veramente all’avanguardia per il 1952. Piantò un chiodo, al quale poi per sicurezza ne aggiunse un altro, dopodiché, irrigiditosi in vista del “massimo sforzo”, piantato sulle gambe, prima di lanciarsi verso l’alto pensò attentamente alla “sequenza di movimenti precisi” da effettuare. Pochi attimi dopo Royal era già sopra la scaglia, “a ridere come un pazzo”.
(La prima salita in libera di Open Book (5.9) a Tahquitz Rock, 1952, fu fatta da Robbins quando aveva solo 17 anni: così fece irruzione nel regno di una difficoltà nuova, il primo 5.9 nel Paese. Ma quel grado è stato assegnato un po ‘di tempo dopo l’impresa: in quel momento, 5.9 era il limite superiore del sistema decimale di Yosemite. Robbins era in scarpe da tennis. NdR).
Royal aveva iniziato a prendere possesso del posto che gli competeva nella gerarchia dell’arrampicata. Stava inoltre iniziando a capire cosa l’avesse portato lì. Mentre studiava le sottili scanalature della roccia percepiva sempre più chiaramente che la sequenza, simile a quelle del gioco degli scacchi, di posizionamenti dei piedi precisi ed eseguiti con raffinatezza è ciò che sta alla base di un’impresa. Qualche anno dopo egli fece affidamento proprio su questa miscela di osservazione ravvicinata, immaginazione e pura ambizione per portare a termine i seicento metri della parete nord-ovest dell’Half Dome con Mike Sherrick e Jerry Gallwas. A metà via Royal risolse un tratto pressoché liscio con una combinazione immaginifica di arrampicata libera, una fila di chiodi a pressione ed un pendolo. Da allora in poi quel passaggio fu conosciuto come il Traverso Robbins. Uno sguardo in retrospettiva vede chiaramente indicata in quella loro prima ascensione l’alba dell’Età dell’Oro di Yosemite, anche se allora quasi nessuno se ne accorse.
Tuttavia, ogniqualvolta si allontanava dalle montagne, Royal vedeva tornare la vecchia disperazione e nel 1952 arrivò ad abbandonare gli studi superiori appena dopo averli sì e no iniziati. Sentendo un profondo desiderio di una qualche prospettiva si iscrisse ad un corso di inglese al Los Angeles City College. Gli piaceva Moby Dick per quel suo essere la narrazione di “chi è alla ricerca”, ma a segnarlo più profondamente fu la poesia di Walt Whitman, che “scriveva dell’importanza di credere in se stessi”. Fu però Ralph Waldo Emerson a fornire a Royal l’intuizione desiderata, ovvero che “l’istruzione non si ottiene andando a scuola, quanto piuttosto lavorando, vivendo e leggendo grandi libri”. Parte del movimento trascendentalista, Emerson credeva che, perdendosi nella contemplazione dei boschi, delle montagne e delle praterie, fosse possibile liberarsi dal proprio ego ed intravedere il divino significato del mondo. “la natura è fatta per collaborare con lo spirito per la nostra emancipazione”, scrisse Emerson. Royal abbandonò così la scuola per un’ultima volta, allontanandosi nell’eco di un altro verso di Emerson: “Il carattere è superiore all’intelletto”.
Nei primi anni Sessanta, a Camp 4, non posso dire di aver esattamente “incontrato” Royal. Sarebbe più corretto dire di essere finito sotto la sua sfera d’influenza, cosa che peraltro all’epoca valeva pressoché per tutti gli scalatori di Yosemite. Il suo esempio propugnava, senza averlo inventato, uno stile di arrampicata avventuroso. Royal di certo l’aveva portato avanti così a fondo da coinvolgere completamente il contesto del nostro inconscio. Io ero ancora un adolescente che da primo traballava su vie di modesta difficoltà e che usava chiodi su chiodi per proteggersi. Tuttavia fu grazie ad una cosa da lui scritta che Royal, indirettamente, iniziò a farmi da mentore. Nel 1966, durante una visita in Inghilterra, Royal era rimasto ammirato dal modo con cui gli scalatori britannici andavano a salire vie di arrampicata in fessura davvero molto simili alle nostre in Yosemite, però su piccoli affioramenti di gritstone. Quelle vie lo avevano divertito, ma ciò che per davvero l’aveva sorpreso erano state le modalità di protezione. Assolutamente nessun chiodo, i britannici li consideravano antisportivi. Al loro posto, inserivano a mano dadi metallici dentro le fessure della roccia. Tornando a casa Royal portò con sé lo stile ed anche alcuni di quei dadi rudimentali.
La prima via salita da Royal solo con i dadi in Yosemite fu Chockstone Gorge, itinerario che può rimanersene tranquillamente nell’oblio. La sua seconda via, Nutcracker, era invece destinata a diventare la via più popolare di Yosemite. Quell’arrampicata mi ricorda uno dei passaggi lirici di Royal: “Saliremo su quella crociera di piacere, solo noi due, muovendoci leggeri sulla roccia, solo per divertirci. E’ l’altra faccia dell’arrampicata… Per adesso sono appagato. Ho trovato l’equilibrio”.
Royal doveva condividere con altri e dato che era diventato il redattore per l’arrampicata della rivista Summit, il suo contributo per il numero di maggio 1967 fu un articolo sul clean climbing, anche se tale nome ancora non era stato usato, dal titolo di Nuts to you (il termine “nuts”, oltre a indicare i dadi, indica anche le nocciole e in senso traslato assume una valenza boccaccesca che non sfuggirà al lettore attento. Sinonimo di “testicoli”, viene usato per indicare disprezzo o sorpresa, in un modo talora simile al romanesco “mecojoni” – NdT). Quell’idea mi colpì e subito presi tre o quattro dadi in ottone per macchine di varie grandezze e ci infilai dentro altrettanti cordini. Funzionavano meravigliosamente nel granito a blocchi di tipo alpino delle Palisades, dove stavo facendo da guida, mentre un po’ meno bene si lasciavano usare nelle fessure più lisce e svasate di Yosemite. I miei colleghi guide furono travolti da questo nuovo gioco.
Scalare è qualcosa di intimo. Ci si connette alla roccia, si esplora e ci si adatta. All’apice di tutto ciò si entra in un flusso, uno stato che viene interrotto quando cerchiamo di proteggerci, perché per cercare protezione ci si distoglie dal movimento, il vero cuore di tutto. E’ difficile ora come ora riuscire a ricordare tutto ciò che comportava l’arrampicata fatta con l’acciaio inox, con i chiodi martellati dentro a forza. Ci si doveva allontanare dalla roccia, rompendo così l’intimità dell’ascensione per sferrare colpi a una lama di metallo allo scopo di farla penetrare in una fessura, uno dei punti deboli di una parete. Un atto che ci staccava da quella fessura.
Il clean climbing, invece, disturba molto meno. Lascia la violenza in favore dell’adattarsi. Scopre la forma di una fessura per piazzare al suo interno una protezione che resista. L’occhio è vicino ad essa, a volte a solo un paio di centimetri, che cerca di entrare in sintonia con le rugosità al suo interno per sistemare al meglio un nut o un friend, per far sì che aderisca quanto meglio possibile, per avere il massimo della protezione. L’intimità con il mezzo è dentro di noi e più che andare a forzare, va a modellare la nostra sicurezza. Quando poi si riparte diventa più semplice lasciarsi nuovamente andare al flusso, proprio perché così facendo quasi non ci si era distaccati.
Royal sentiva tutto ciò appassionatamente. Nel suo manuale Basic Rockcraft del 1971 esaltava “la silente comunione tra l’uomo e la roccia, il senso di essere assieme alla roccia, la maggiore sensibilità ai suoi cambiamenti e alle sue configurazioni, il sapere di non violentare la roccia andando a inserirci a forza di chiodi”.
Parte di tutto ciò che all’epoca stavamo iniziando a lasciarci dietro le spalle è adesso così distante da noi che dobbiamo per forza ricreare quel sentimento arcaico per poter apprezzare quanto siamo riusciti ad andare avanti. Provate a immaginare di sentire la presenza di un’altra cordata di scalatori in valle grazie al rumore metallico prodotto dal martellamento di un chiodo all’interno della roccia. Certo, può essere addirittura musicale, ma va a disturbare il silenzio della montagna. I bong bong, quelle grandi protezioni ricurve in alluminio per le fessure più grandi, larghe da sei fino a circa quindici centimetri, erano stati chiamati così a causa del rumore di ferraglia che facevano andando a sbattere contro il resto del materiale e che li rendevano in qualche modo simili ai campanacci delle mucche in un qualche alpeggio. Quanto più Royal scriveva, tanto più andavano affinandosi le nostre idee. In Advanced Rockcraft del 1973 scriveva: “Bam – bam – bam ed ecco che il chiodo penetra, ci passiamo dentro un rinvio ed eccoci a spianare il percorso in salita… I chiodi andavano a formare una barriera tra noi e la roccia”. Scalando in maniera clean e silenziosa, invece “eravamo costretti a entrare in una intimità ben più profonda con la roccia, a lavorare sulla base delle sue condizioni, ovvero a scalare meglio… Se solo fossimo stati in grado di vedere quella parte di noi per la quale i chiodi avrebbero fatto da sostituto”.
Raffinatezza, non forza, chiaro? Come per i ballerini.
Yvon Chouinard, compagno di Royal sulle big wall, entrò rapidamente a far parte del movimento del clean climbing ed io agli inizi degli anni Settanta iniziai invece a lavorare nel suo capannone, aiutandolo a progettare i nut (che io chiamai stopper) e a scrivere un manifesto per il suo catalogo, “L’arte del proteggersi in modo totalmente naturale”. Adeguandomi all’ispirazione di Royal decisi di tornare sulla sua via originaria alla parete nord-ovest dell’Half Dome senza martello. Già alla fine del 1973 io, Dennis Hennek e Galen Rowell avevamo affinato l’arte naturale su scalate via via più grandiose ed eravamo ormai in grado di scatenarci in salite per le quali cucivamo assieme in parete ancoraggi robusti, omnidirezionali, formati da oggetti che, a prenderli dal verso sbagliato, sarebbero subito venuti fuori. Grazie alla pubblicità sulle pagine del National Geographic Magazine la rivoluzione del clean climbing era ormai esplosa.
Più o meno in quel periodo Royal mi invitò ad andare a fare da guida-istruttore alla sua scuola d’arrampicata. Esploratore come sempre, ci portò in una zona poco conosciuta a sud di Yosemite che lui chiamava The Hinderlands. Provate a immaginare cupoloni in stile Tuolumne, a decine, sparse su un altipiano coperto da boschi e solo strade polverose e malmesse per accedervi. Fred Beckey, ovviamente, c’era passato e aveva raccolto come fossero ciliegie qualcuna delle linee più evidenti per poi andarsene da un’altra parte. Ad ogni uscita l’itinerario predisposto da Royal prevedeva un argomento da spiegare agli allievi, quasi come fossimo stati a scuola, e questo era il clean climbing. Dopo aver lasciato agli istruttori le incombenze dell’insegnamento Royal svicolava via per andare su quei cupoloni, dove, scalando in solitaria, andava a vedersi una dopo l’altra le linee sulle quali ci avrebbe poi mandati.
A volte, mentre stavo insegnando, vedevo in lontananza Royal, solo in mezzo a quella natura selvaggia e inesplorata. Curioso come sempre, passava da una fessura bella sicura a una placca aperta solo perché si sentiva attratto da quella serie di piccole escrescenze sulla roccia che sembravano chiamarlo a sé; sentire il granito sotto le morbide scarpe da ginnastica gli stimolava piede sicuro e delicata raffinatezza. Assolutamente disinvolto grazie alla sicurezza che si era guadagnato nel corso di decenni scendeva poi in arrampicata la linea successiva per il semplice fatto che questo per lui voleva dire poter scalare di più. Del tutto a suo agio nel suo ambiente prediletto era sempre felice quando riusciva a scoprire un qualche paradiso di roccia ed era sempre pronto a spartire il bottino con gli altri. Mi capitò una volta di pensare al modo in cui alcuni scalatori andavano a far man bassa nei “loro” posti segreti e chiesi a Royal cosa ne pensasse. La sua risposta fu immediata: “Più siamo meglio stiamo”.
Negli anni Novanta mi capitò di portare il mio gruppo di allievi di arrampicata del Foothill College alle Hinterlands dopo aver raccontato loro la storia di come Royal mi avesse portato a conoscere quel luogo. Eravamo su quella strada polverosa a sistemare corde e cibarie quando vedemmo arrivare una Land Rover color nero lucido. Il vetro oscurato del finestrino si abbassò e vidi che era Royal, i cui occhietti vivaci brillavano in cenno di saluto. Una riunione davvero insolita di vecchi “escursionisti” (l’artrite gli impediva ormai di andare a scalare), ma la vera sorpresa per me fu il carico che si era portato dietro, un gruppo chiassoso di boy scouts: una volta di più Royal voleva restituire ciò che aveva ricevuto: a decenni di distanza da quando gli scouts lo avevano salvato dalle strade di Los Angeles, lui si stava sdebitando, facendo conoscere la natura selvaggia a una nuova generazione.
Royal è morto il 14 marzo 2017 dopo una lunga malattia. Qualche settimana dopo il suo vecchio compagno di cordata Yvon Chouinard scrisse sul blog di Patagonia: “Chiunque l’abbia conosciuto si ricorderà della pervicace integrità della sua intera vita… La sua qualità più grande, però, era la sua intelligenza creativa”. Chouinard spiegò poi nell’articolo come quella sua intelligenza lo abbia portato a primeggiare, a ottenere quella capacità di intravvedere, di organizzare e di ispirare i suoi amici ad andare a scalare su pareti in cui c’erano pochissime possibilità per una ritirata e nessuna per un salvataggio.
Io ora penso ad altre manifestazioni di quella intelligenza creativa. Royal era un cercatore e un lettore alla perenne ricerca di idee che potessero guarirgli le spaventose carenze patite in gioventù, l’assenza di qualcuno lì dove avrebbe dovuto esserci un padre. “Cosa avrebbero fatto gli Hardy?” – si chiedeva all’età di undici anni, in occasione di un frangente doloroso. Quel vuoto era stato attenuato dalla natura selvaggia e naturale fu per lui rivolgersi alla poesia e alla filosofia presso altri cercatori come lui, come si può ben evincere dal nome dato nel 1969 a due grandi prime ascensioni effettuate in Alaska, il Mount Nevermore e il Mount Jeffers.
La scelta del poeta Robinson Jeffers fu estremamente significativa: cresciuto anche lui a Los Angeles, era stato portato via dalla società dal suo desiderio di posti incontaminati. Nel 1913 si era trasferito sulla costa del Big Sur dove aveva sviluppato le sue idee sulla transitorietà di ciò che lo circondava, annotando le sue osservazioni con uno sguardo tagliente quanto quello dei falchi che popolano i suoi poemi.
Mentre quest’America si adagia nell’acquitrino della volgarità,
ispessendosi pesantemente per diventare impero,
… La corruzione
Mai è stata obbligatoria, e se le città sono ai piedi del mostro
le montagne rimangono dove sono.
Anche allora, in quella sua visione delle montagne, Jeffers sembra anelare a una prospettiva che va ben al di là del nostro punto di osservazione privilegiato, quasi a dire di allontanarsi dalla visione della natura in cui ci si pone al centro di tutto per poter guardare o quantomeno poter vedere di sfuggita come potremmo noi apparire alla natura, null’altro che una piccola parte di un insieme di grandiosa complessità. Ora come ora mi piacerebbe tanto poter tornare indietro nel tempo per chiedere a Royal quale sia la sua opinione sui versi di Jeffers. Credo che Jeffers sia stato uno dei progenitori dell’ecologia profonda, uno tra i primi ad articolare una prospettiva in grado di andare oltre noi stessi, guardando profondamente dentro l’umanità
approfittando del suo essere fermo, solido come una roccia, in punto di osservazione immerso nel salutare mondo della natura. Mi piace immaginare che Royal stesse leggendo Jeffers quando invocava la forza incurante di una tempesta in formazione nel Pacifico che stava per infrangersi sulla North America Wall: “eravamo lì, seduti, in quella notte furiosa e nera come la pece, sferzati da vento e pioggia, minuscoli insetti legati ad una grande roccia… L’umanità è davvero insignificante”.
Royal Redux
di Joe Fitschen
L’eredità di Royal Robbins è ora completa. Non ci saranno ulteriori aggiunte. Ci fu però un tempo in cui nessuno, nemmeno lo stesso Royal, pensava che un domani avrebbe aperto una serie di grandi e audaci ascensioni e che sarebbe stato ritenuto per molti anni il più grande scalatore su roccia del suo Paese. Anche se avevo già visto Royal scalare per allenamento e avevo potuto ammirare il suo stile da scavezzacollo impudente, fu solo nel 1954 che lo incontrai per davvero, quando si offrì di guidare l’auto di mia madre per accompagnarla a recuperarmi all’ospedale di Hemet, in California. Dopo essermi fatto una caduta di una cinquantina di metri degna di un fuori di testa in discesa dalla Tahquitz Rock, all’inizio ero messo troppo male per potermi fare una qualche impressione di lui. In seguito, però, quando iniziammo ad andare a scalare assieme, notai che era uno che non smetteva di provare e riprovare i problemi che non riusciva a risolvere. In quel periodo per altri l’insuccesso andava a segnare i limiti delle loro capacità e non era poi un grande problema. Royal invece non se la lasciava passare così facilmente. Di certo i suoi limiti erano ben superiori. Ovviamente, aveva ragione lui.
All’epoca Royal aveva già aperto una dozzina di vie nuove a Tahquitz, ma nessuna in Yosemite, nonostante avesse fatto la prima ripetizione della Sentinel Rock e di Yosemite Point Buttress. Non aveva l’automobile, quindi per lui non era facile arrivare in Valle. Oltre a questo lavorava per la Union Bank a Los Angeles e poteva recarsi in Yosemite solo per dei fine settimana da tre giorni, del Giorno della Memoria e della Festa del Lavoro.
Nel 1956 Royal mi chiamò e mi disse che Mark Powell aveva individuato una via sulla fino ad allora inviolata parete sud del Liberty Cap, quindi mi chiedeva se avessi voglia di unirmi a loro per il fine settimana della Festa del Lavoro. Ma certo! Ciò che mi lasciò sorpreso non fu solo che l’avesse chiesto a me, ma anche il fatto che gli scalatori della California Meridionale da un po’ andavano chiedendosi se per caso Royal avesse smesso di arrampicare. Per tutta la primavera e l’estate non si era mai fatto vedere alle scalate di allenamento della RCS e nessuno l’aveva visto a Tahquitz Rock. Invece eccolo là, ad aprire la prima lunghezza del Liberty Cap.
La scalata in sé non fu di quelle epocali, ma impegnativa quanto basta per Mark e Royal che si alternarono da primi per tutta la via. Io mi limitai a fare da zavorra e a recuperare i chiodi. Faceva caldo e non avevamo molta acqua, ed io rimanevo per lunghe ore attaccato in sosta ad ascoltare il fragore dell’acqua in caduta dalla Nevada Fall proprio sotto di noi. A segnare il trascorrere del tempo c’era il passaggio della luce del sole sulla mia schiena. Al crepuscolo Mark era ancora nel pieno di una battaglia con intricati collegamenti di protezioni e quando alla fine raggiunsi lui e Royal mi resi conto che stavano facendo sosta usando cordini come staffe. Ormai stava facendo buio, anzi, era giù buio e sembrava proprio che avremmo dovuto passare la notte lì, con i piedi dentro alle scarpe da ginnastica in preda ai crampi mentre cercavano di restare all’interno di cordini e fettucce: pieni di stanchezza, ci veniva preclusa quella possibilità di rilassarci che ci avrebbe permesso di prendere sonno.
Royal invece disse: “Faccio un salto su a vedere se c’è un posto migliore”.
“Ma è troppo buio per scalare…”.
“E allora rimani qui. Fammi sicura”.
Detto quello, partì verso l’alto, muovendosi più sulla base di ciò che sentiva che di quello che vedeva, arrampicata libera nell’oscurità. Ogni tanto batteva dentro un chiodo per protezione e da sotto vedevamo le scintille fatte partire dai suoi colpi di martello. Alla fine dall’alto giunse una tenue vocina: “Beh, direi che qui c’è spazio per tutti. Dai, venite su!”. Così facemmo, anche se in più di un’occasione si io che Mark ci issammo sulla corda, in parte per risparmiare tempo, in parte invece perché non riuscivamo in alcun modo a capire come Royal fosse riuscito a fare quei movimenti col buio.
Era un posto da bivacco di quelli orrendi, uno di quelli che ti fa sempre sperare che manchi poco all’arrivo dell’alba per poi invariabilmente ricredersi. Royal rimase in piedi su cengette larghe un piede, mentre Mark si infilò in un’alcova composta da una cengia inclinata, per non scivolare dalla quale teneva i piedi dentro a cordini e fettucce. Io trovai posto seduto su un alberello attaccato alla parete. Tutto ciò era comunque meglio dei crampi ai piedi dentro ai cordini. Durante le mie ore di veglia sentivo Royal e Mark che si rigiravano alla ricerca di una posizione migliore, ma tutti noi sopportavamo stando in silenzio, come le stelle. Avevamo ormai bevuto tutta l’acqua e la sete ci veniva ingigantita dal luccichio e dal frastuono del Merced River che si gettava sulla cascata sotto di noi.
Anni dopo io e Mark ci ritrovammo a pensare a quella scalata e ci trovammo concordi sul fatto che ambedue eravamo arrivati alla stessa conclusione, ovvero che in qualsiasi momento l’ascensione avesse preso una brutta piega, tutti e due avremmo potuto contare su Royal per trovare il modo di venir fuori dalle rogne. Di tutto ciò ebbi riprova anche in seguito. Durante la nostra prima ascensione di Arches Direct insistette per dieci ore sulla lunghezza di artificiale più dura di allora, facendosi un volo da quindici metri il primo giorno e uno da dieci il secondo giorno. Sulla parete nord della Lower Cathedral Rock salì da primo due tiri davvero audaci sullo spigolo di una scaglia alta un centinaio di metri (audace perché piazzò poche protezioni: le protezioni furono poche perché quella scaglia vibrava ed era decisamente poco solida). Poi, sulla parete nord-ovest della Higher Cathedral Spire, andò ad infilarsi nel Chimney of Horrors, il Camino degli Orrori, una spaccatura buia, svasata e strapiombante che sembrava determinata a voler sputar fuori qualsiasi intruso. Chiunque fosse caduto, il primo o il secondo di cordata, sarebbe finito nel vuoto. Per tutti i venti metri della sua lunghezza non c’era una struttura che permettesse di piazzarci dentro un chiodo. Riuscì invece a piazzare un chiodo a pressione a circa metà della via, buono per dare un po’ di tranquillità al primo, ma nemmeno un po’al secondo di cordata (cioè a me!).
Ovviamente anche altri scalatori hanno i loro racconti sulla caparbietà di Royal quando si trovava di fronte alla difficoltà e al pericolo. Far scalate grandiose e difficili era parte di lui! Sembrerebbe comunque che sia stata proprio la scalata sul Liberty Cap a fargli tornare in mente ciò che trovava così avvincente nell’andare a scalare, ovvero la sfida, l’avventura e, forse più di tutto, il senso di libertà, la capacità di andare con tranquillità e coraggio lì dove gli altri non volevano o non erano in grado di salire. Il giugno successivo Royal, Mike Sherrick e Jerry Gallwas salirono i quasi settecento metri della parete nord-ovest dell’Half Dome, una parete così ripida che quando la mattina del quinto giorno decisero di buttar giù il saccone, questo arrivò a terra senza mai toccare la roccia.
Io e lui passammo la maggior parte dei fine settimana del resto dell’estate a Tahquitz Rock, dove ci facevamo quattro o cinque scalate al giorno. Dopo cena ci mettevamo seduti attorno ad un piccolo falò da campeggio a berci un po’ di vinello e a risolvere alcuni tra i più sconcertanti problemi della vita. Abbandonava all’indietro la testa, la luce del fuoco che rifletteva contro gli occhiali e si metteva a ridere, perché nonostante avesse la risposta non riusciva a ricordarsi quale fosse la domanda. Nel 1958 fummo arruolati ambedue nell’esercito, ma a parte quell’unica pausa per tutto il resto del tempo non fece altro che passare da un’avventura all’altra, come in una sorta di domino. All’epoca non giravano soldi nel mondo delle scalate, quindi non si vedeva chissà quale futuro, ma a uno scalatore non serve poi molto. Ciò di cui aveva bisogno Royal era continuare a scalare anche quando le cose andavano male.
(continua in https://gognablog.sherpa-gate.com/nel-mondo-del-granito-e-della-luce-2-2/)
ROYAL ROBBINS (da Wikipedia con integrazioni)
Le “prime” più importanti
1957 parete nord-ovest dell’Half Dome, Yosemite, California. Prima arrampicata gradata VI grado in America. Con Mike Sherrick e Jerry Gallwas.[1]
1960 Via del Nose, El Capitan, Yosemite, California. Seconda ascensione e prima salita continua, sette giorni, VI 5.9 C2, con Joe Fitschen, Chuck Pratt e Tom Frost.
1961 Salathé Wall, El Capitan, Yosemite, California. La più dura big-wall gradata VI del mondo al momento della prima ascensione, con Tom Frost e Chuck Pratt, VI 5.9 C2. Il team ha utilizzato solo 13 chiodi a espansione, soste comprese, rispetto al 125 che Harding aveva piantato sul Nose. Un anno dopo, Robbins e Frost fecero la prima salita continua del percorso in cinque giorni.
1962 American Direct, Aiguille du Dru. Con Gary Hemming. Diventata una classica, purtroppo la recente frana ha reso questa via impercorribile per il momento.
1963 Direct North-west Face dell’Half Dome, Yosemite, California. Con Dick McCracken.
1963 Robbins Route, Mount Proboscis, Logan Mountains, NWT, Canada. Con Jim McCarthy, Layton Kor e Dick McCracken.[2]
1964 North America Wall, El Capitan, Yosemite, California. Con Tom Frost, Chuck Pratt e Yvon Chouinard, VI 5.8 C3. A quel tempo fu considerata la più grande scalata di big wall al mondo. Il team non ha utilizzato corde fisse, riducendo al minimo la possibilità di ritirarsi e sperimentando un approccio coraggioso all’arrampicata su parete. Hanno completato il percorso in un push continuo di 10 giorni.
1964 North Face del Monte Hooker, Wind River Range, Wyoming, USA. VI 5.10 A4, con Dick McCracken e Charlie Raymond.
1964 Danza macabra, Devils Tower, Wyoming, USA, 5.10d.
1964 Final Exam, Castle Rock, Boulder, Colorado. Con Pat Ament.
1964 Athlete’s Feat, Castle Rock, Boulder, Colorado[3], prima salita in libera (5.11), con Pat Ament. All’inizio la difficoltà era quotata 5.10; sono stati aggiunti due chiodi a espansione nel primo passo chiave e è ora considerato 5.11, uno dei primi negli Stati Uniti. Robbins tirò la prima lunghezza, caratterizzata da un’arrampicata delicata su parete e placca giusto sopra una pericolosa lastra di granito sporgente con, scrisse Ament, “solo un chiodo Bugaboo dall’aspetto spaventoso” per protezione.
1965 American Direttissima, Aiguille du Dru, Monte Bianco. Con John Harlin.[4]
1967 Nutcracker (schiaccianoci), Yosemite, California, con Liz Robbins, (5.8). Una prima via protetta solo da dadi, primo esempio di clean climbing in America, ora un classico di Yosemite.
1967 West Face, El Capitan, Yosemite Valley – Prima ascensione con TM Herbert.[5]
1967 North Face, VI 5.9 A3, Mount Geikie, Montagne rocciose canadesi, prima ascensione con John Hudson.[6]
1967 North Face del Mount Edith Cavell, Canadian Rockies – Prima ascensione solitaria.
1968 Muir Wall, El Capitan, Yosemite Valley, prima ascensione solitaria, VI 5.9 A4, 900 metri. Prima solitaria di una via di VI. Robbins ha trascorso 10 giorni da solo sulla via, aperta tre anni prima da TM Herbert e Yvon Chouinard. La dedica a Muir è per via del primo esploratore, autore e preservazionista della Sierra, John Muir, i cui predicati avevano ispirato il rigoroso approccio minimalista di Robbins all’arrampicata. Nel suo saggio Alone on the John Muir Wall nell’American Alpine Journal del 1969, Robbins scrisse: “Ma che cos’è questa assurdità da solitario, comunque? Oh, in effetti solo un’assurdità. Solo un altro modo per provare qualcosa. Una sorta di onanismo spirituale. Il bello di una solitaria è che è tutta tua. Non sei obbligato a condividerla. È nuda e cruda. L’espressione più piena dell’ego arrampicante. È anche un modo di esplorare se stessi. Una salita solitaria è come un grande specchio, dove uno si guarda fino in fondo“.
1969 Mount Jeffers, Cathedral Spires, Kichatna Mountains, Alaska. Prima assoluta alla vetta con Joe Fitschen e Charlie Raymond.[7]
1969 The Prow, Washington Column, Yosemite. Con Glen Denny.
1969 Tis-sa-ack, Half Dome, Yosemite. Con Don Peterson, VI 5.10 A4.
1970 Arcturus, Half Dome, Yosemite. Con Dick Dorworth, VI 5.7 A4.
Dawn Wall
Nel 1971, Robbins completò la seconda salita con Don Lauria della Dawn Wall su El Capitan, con la (controversa) intenzione di cancellare la via non appena scalata.
La loro salita seguì la prima ascensione del 1970, completata da Warren Harding e Dean Caldwell, con un massivo utilizzo di materiale, un metodo che offese Robbins e gli altri sostenitori dell’arrampicata libera. Harding aveva lasciato infissi tutti i chiodi a pressione, che anche Robbins e Lauria usarono. Robbins mentre saliva segava le teste dei chiodi già passati. Dopo due tiri, Robbins smise di farlo perché, secondo Lauria, “la qualità di quell’arrampicata artificiale era molto più alta di quanto non si fossero mai aspettati da Harding o Caldwell e, oltre tutto, si perdeva un sacco di tempo a tagliare tutti quel dannato metallo”[8].
Royal Robbins Clothing
Royal Robbins ClothingIn seguito al suo successo come scalatore, Robbins fondò
un’omonima società di abbigliamento outdoor con sua moglie Liz Robbins.[9][10]
Royal Robbins, LLC[11]
è attualmente di proprietà della Bruckmann,
Rosser, Sherrill & Co. (BRS).[12]
Liz Robbins è rientrata in azienda nel dicembre 2015 come Senior Advisor. [13
Altri successi in arrampicata
1952 Open Book, Tahquitz, California, prima ascensione in libera.
1960 The Nose, El Capitan, Yosemite, seconda ascensione.
1963 West Face, Leaning Tower, Yosemite. Seconda ascensione e prima big wall di Yosemite scalata in solitaria (Gradata V UIAA).
1968 Muir Wall, El Capitan, Yosemite. Prima ascensione solitaria di VI grado (e quindi la prima solitaria di El Capitan).
Pubblicazioni
Basic Rockcraft, 1971
Advanced Rockcraft, 1973
My Life, Volume One: To Be Brave, 2009
My Life, Volume Two: Fail Falling, 2010
My Life, Volume Three: The Golden Age, 2012
(Vedere anche Royal Robbins: Spirit of the Age, l’eccellente biografia a cura di Pat Ament, 1998, tradotta in italiano con il titolo Royal Robbins, il maestro dell’arrampicata americana, i Licheni, L’Arciere/Vivalda, 1993)
Filosofia dell’arrampicata in Advanced Rockcraft
Robbins è autore di due libri fondamentali, Basic Rockcraft e Advanced Rockcraft,[14] che enfatizzarono il free climbing e l’etica dell'”arrampicata pulita”. In una sezione dell’Advanced Rockcraft chiamata Valori, descrisse la sua filosofia di arrampicata. Per lui “Una prima ascensione è una creazione esattamente come lo è un dipinto o una canzone”; tracciare una via d’arrampicata potrebbe essere “un atto di brillante creatività”. Un altro aspetto creativo di una prima ascensione comprende il rifiuto dei mezzi artificiali da parte del leader. Con tutte le moderne tecnologie di arrampicata artificiale a disposizione, una prima ascensione è più artistica se rifiuta consapevolmente l’uso di quei mezzi che non siano essenziali per il successo della salita. Egli pone l’accento sull’utilizzo di attrezzature non distruttive per l’ambiente montano. Si oppone alle arrampicate fatte al di fuori dei costumi accettati di un determinato centro di arrampicata, o estranei allo stile prevalente di un’area. Predilige quelle che chiama “upward variations” (cambiamenti evolutivi), o il completamento di scalate usando standard più severi di quelli usati nella prima salita. Secondo Robbins, la decisione di collocare un singolo chiodo è una questione di “enorme importanza” perché “come una singola parola in un poema, può influenzare l’intera composizione”.
Kayak
Nel 1978, Robbins sviluppò una forma di artrite psoriasica che gli impedì di arrampicare seriamente. Cominciò invece a fare kayak da avventura, completando le prime discese di fiumi impegnativi dalle alte. I suoi primi compagni di kayak furono Doug Tompkins e Reg Lake. Nel 1980, i tre scesero la San Joaquin River Gorge dal Devil’s Postpile fino al Mammoth Pool Reservoir, 1524 metri più in basso e distante più di 50 km. Nel 1981, portarono i loro kayak sul Mount Whitney Pass a 4200 metri di altezza, nel Sequoia National Park e scesero per quasi 90 km il Kern Trench. Nel 1983, Robbins discese il Tuolumne River nel parco nazionale di Yosemite da Tuolumne Meadows a Hetch Hetchy Reservoir: era accompagnato da Reg Lake, Chuck Stanley, Lars Holbek, John Armstrong e Richard Montgomery. In seguito sviluppò un interesse nello scendere torrenti più piccoli in kayak durante la loro fase di piena dopo le forti piogge. Il primo di questi progetti fu nel maggio 1984 ed era la discesa del Sespe Creek, che corre attraverso Los Padres National Forest. Era insieme a Yvon Chouinard, Reg Lake, John Wasserman e Jackson Frischman. Robbins chiamò questo tipo di escursione “flash boating”, e dopo usò questa tecnica sul Fresno River, sul Chowchilla River e sul ramo centrale del Mokelumne River.[15]
Note
- Don Reid, Yosemite Climbs: Big Walls, Evergreen, Colorado, Chockstone Press Press, 1993, ISBN 0-934641-54-4.
- Pat Ament, Royal Robbins – Spirit of the Age, Boulder, Colorado, Two Lights, 1992, pp. 125–127, ISBN 1-881663-02-7.
- Chris Jones, Climbing in North America, Berkeley, California, University of California press (for the AAC), 1976, p. 297, ISBN 0-520-02976-3.
- John Harlin, Petit Dru, West Face Direttissima (PDF) [collegamento interrotto], in The American Alpine Journal, vol. 1966, New York City, New York, The American Alpine Club, 1966, pp. 81–89.
- Jasper National Park – Edith Cavell, North Face, Chouinard, Becky, Doody 4/9/2009, in Cascade Climbers, CascadeClimbers.com, 9 aprile 2009 (archiviato dall’url originale l’8 luglio 2011).
- Chic Scott, Pushing the Limits: the Story of Canadian Mountaineering, Calgary, Alberta Canada, Rocky Mountain Books, 2000, p. 196, ISBN 0-921102-59-3.
- Andy Embick, Climbs and Expeditions – Cathedral Spires, in The American Alpine Journal, vol. 22, nº 53, New York City, USA, The American Alpine Club, 1979, p. 169.
- Warren Harding, Downward Bound: a Mad! guide to Rock Climbing, Birmingham, Alabama, Menasha Ridge Press, 1990, pp. 165–167, ISBN 0-89732-101-4.
- Elizabeth McGowan, Royal Robbins, in Backpacker, vol. 13, nº 3, Active Interest Media, Inc., 1985, pp. 17–18, ISSN 0277-867X (WC · ACNP).
- Bob Woodward, Short Cuts, in Backpacker, vol. 13, nº 3, Active Interest Media, Inc., 1985, pp. 38–39, ISSN 0277-867X (WC · ACNP).
- Royal Robbins, Travel and Outdoor Clothing for Men and Women – 40% Off Select Styles, su Royalrobbins.com. URL consultato il 15 marzo 2017.
- Bruckmann, Rosser, Sherrill & Co. L.L.C. – Portfolio Companies, su brs.com. URL consultato il 15 marzo 2017 (archiviato dall’url originale il 17 marzo 2017).
- Royal Robbins® Taps Co-Founder Liz Robbins as Advisor, su goeverywhere.royalrobbins.com, 15 dicembre 2015. URL consultato il 15 marzo 2017 (archiviato dall’url originale il 19 aprile 2016).
- Royal Robbins, Advanced Rockcraft (La Siesta Press, Glendale, California, 1973) ISBN 0-910856-56-7
- Pat Ament, Royal Robbins – Spirit of the Age, Mechanicsburg, PA, USA, Stackpole Books, 1998, pp. 238–247, ISBN 0-8117-2913-3.
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Amante della storia dell’arrampicata una quindicina di anni fa, durante una delle magnifiche estati americane , sono andato apposta a fino a Taquiz per omaggiare Robbins proprio ripetendo Open Book con mia figlia Marta, allora dodicenne.
Una linea bellissima e una salita entusiasmante , di formidabile estetica.
Ci siamo emozionati e abbiamo intensamente goduto questo piccolo gioiello di storia dell’arrampicata.
Ancora più divertente la citata Nutcracker, un altro capolavoro alla nostra portata
E in più ai granitisti i chiodi non gli si piegano mai! Svellerli è un gioco da ragazzi!
Il granito è stato inventato per fare arrampicare anche quelli che non ne sono capaci, quelli che basano tutto solo sulla forza bruta.
E il difficile è sempre su roba sana e mai sui marcioni.
Poi quando si rompe qualcosa alla quale si è attaccati è sempre almeno delle dimensioni di un frigorifero.
Per concludere, il granito è il papà della morte dell’impossibile, ha insegnato bene a bucare la roccia.
Però ha bei colori e scalarlo è bello.
Fra un po’ Alessandro, spietato, mi bandirà per “eccesso di commenti”.
😂😂😂
Ragazzi, sono chiuso in casa e mi trastullo a fare non so che cosa. Aiutatemi. Se non scriverete di piú nel GognaBlog, diventerò matto.
E tu, Alessandro, in questi momenti difficili: due articoli al giorno! Vanno bene anche le “baggianate”: basta che sia impegnata la mente. 😁😁😁
P.S. A proposito, da voi si dice “baggianate”? Qui a Modena in dialetto si dice sbazanèd, da cui, italianizzando, “baggianate”. Se poi le baggianate diventano superbaggianate, si dice sbaggianate, con la s iniziale in segno di massimo disprezzo.
P.S. Guarda un po’ che mi tocca fare per far venir sera…