Nel mondo del granito e della luce – 2

Nel mondo del granito e della luce – 2 (2-3)
Da Alpinist 58, estate 2017
Traduzione © Luca Calvi

(Per la prima puntata clicca qui)

Royal
di Jack Turner

Verso la fine di marzo del 1962 io e Layton Kor andammo in Yosemite per tentare quelle che all’epoca erano le scalate più dure d’America. Il nostro obiettivo consisteva nel portare a termine almeno un “banco di prova classico”. Allora avevo solo vent’anni ed era solo da meno di un anno che salivo vie difficili. Non esistevano ancora guide o relazioni delle vie. Quelli che vivevano lì e le loro imprese rientravano per me nel regno dei miti. Correva voce che fossero spocchiosi nei confronti degli scalatori non californiani e si diceva che a Camp 4 ci fosse un eccesso di testosterone e una competizione maschile spietata. A dirla in breve ero spaventato.

Robbins, fine anni Settanta, in corda doppia senza discensore

Parecchi giorni dopo che eravamo arrivati a Camp 4, Layton, TM Herbert ed io stavamo lavorandoci un problema di boulder al limite superiore di Camp 4. Continuavamo a provare, a ripetere e soprattutto a cadere tutti. Arrivò ad osservarci Royal Robbins. Lo riconobbi dalle foto: un tipo snello con uno sguardo fisso. TM gli propose di risolvere il nostro piccolo problema. Una cosetta semplice: ci si doveva mettere in piedi davanti, mettere le mani su una cornice spiovente, issarsi e portare un piede in alto. Bisognava poi cercare di mettersi in piedi, tenersi in equilibrio contro la parete lievemente strapiombante e… saltar giù.

Royal salì su quella cornice tranquillamente, quasi scivolandoci sopra, con la guancia appoggiata alla parete come per riuscire a sentire una qualche tenue melodia, nessun segno di lotta nei suoi lineamenti. Saltò quindi giù e fece un sorriso. Layton, che di solito affrontava la vita con uno spettacolare sorriso da ebete, aveva un’aria mortalmente seria e chiaramente irritata. Io ero sbalordito dall’evidente divario esistente tra le nostre capacità. TM, col suo solito senso dell’umorismo, disse qualcosa del tipo che se non ero bravo a scalare magari ero un ottimo giocatore di scacchi.

Altra nota dai taccuini di Robbins: “Meglio accendere una candela che imprecare all’oscurità. Sii una candela! Compi molti atti d’amore, perché questi accendono l’anima e la ingentiliscono”.

Royal mi disse: “Vuoi fare una partita?”.
“Certo” – risposi. “Quando?”.
“Perché non subito?”.

Ci trasferimmo al suo tavolo da picnic, preparammo la scacchiera ed entrammo in quell’intenso combattimento intellettuale tra menti che è il gioco degli scacchi, indifferenti al mondo attorno a noi.

Come ogni altra cosa che facciamo, anche gli scacchi sono un’espressione di carattere e come di lì a poco sarei venuto a sapere Royal giocava a scacchi nello stesso modo in cui scalava: audacemente, metodicamente, implacabilmente. Il suo era un gioco pensato in maniera creativa e disciplinato con l’esercizio. Io però avevo studiato interi libri di aperture e mosse finali. Rispondevo con l’erudizione, come d’abitudine. Vinsi la partita.

Royal insistette per fare un’altra partita. Subito. Quella divenne la nostra routine abituale, ovvero che se vinceva lui la giornata era chiusa, mentre se vincevo io dovevamo subito fare un’altra partita. Royal non era bravo a perdere. Vinse lui.

Royal Robbins a casa sua, a Modesto (California) nel 2000.

Dopo quella volta ci trovammo spesso a giocare, a bere vino a buon mercato e a parlare. Gli piacevano le parole insolite, (mi insegnò tra l’altro il significato di “incipiente”) e aveva un sottile senso dell’umorismo che incentrava sui doppi sensi, per i quali era ben noto, e su altri giochi di parole. Un giorno stava osservando al binocolo Steve Roper e Joe Oliger che scalavano e qualcuno gli chiese cosa stessero facendo. Royal rispose: “Roper sale da primo e issa tutto il materiale”. Dopo aver fatto la prima ascensione in libera della via Kor-Turner alla Lumpy Ridge, Royal la rinominò la Turnkorner (giraspigolo, NdT) perché c’era una difficile fessura sotto un tetto che girava dietro lo spigolo.

Una facile spiegazione al perché della nostra partnership può essere dato dal fatto che io non facevo parte della cerchia competitiva di Royal e che avevamo in comune qualcosa che ci piaceva. Essere in buoni rapporti con Royal aveva anche una valenza politica. Se è vero che esisteva una sorta di atteggiamento di supponenza nei confronti dei non-californiani, è anche vero che a Camp 4 esistevano delle cricche e delle lotte intestine per le vie e per l’etica. Era una cultura da guerrieri che onorava antiche virtù come il coraggio, l’audacia e la forza. Aborriva invece la timidezza, la debolezza e l’insuccesso. La tradizione era una questione di massime e di racconti, perché nessuna storia formale era ancora mai stata scritta.

Robbins a una fiera, a Salt lake City

Ciò che importava era il contenuto di quei racconti. Di base c’era una tacita selezione che si appoggiava sulla trinità di rischio, competenza e fiducia: qualcosa veniva messo in gioco, qualcosa poteva essere vinto e qualcosa poteva andar perso. L’onore era quello del gruppo, il giudizio dei tuoi pari. La dignità era lo stesso modo in cui tu vedevi te stesso. Onore e dignità erano sempre contingenti, sempre vulnerabili di mano in mano che prendevano forma nuovi racconti.

Royal ebbe la grande fortuna di essere spesso il primo: il primo a scalare un VI grado, l’Half Dome. Il primo a salire El Cap in solitaria e il primo a fare molte salite in libera e a stabilire record di velocità. Essere i primi dà il gran vantaggio di essere i padroni della storia della vostra tradizione, non si può essere spodestati per importanza in seguito. Esiste una sorta di sensazione che buona parte di ciò che ha avuto luogo nella storia dello Yosemite altro non sia che una serie di note a pie’ di pagina all’opera di Royal.

Molti scalatori che frequentavano la Valle da anni conoscevano Royal solo superficialmente e lo trovavano scostante all’estremo, lo vedevano più come posizione etica che come complicato essere umano. Io lo trovavo piacevole, alla mano, ma solo per ciò che ci legava. Mi trovai di fronte a commenti sarcastici e trattamenti astiosi. Perfino TM una volta mi incitò a salire su una ripida fessura offwidth che attraversava un tetto, insistendo che si trattava della lunghezza successiva. Si trattava invece di un tiro di corda in più, al di sopra di dove terminava la via vera e propria. All’epoca in cui non esistevano ancora guide e relazioni, però, non avevo alcun modo per saperlo. Quell’ampia fessura era protetta bene, quindi partii per provarla: volai quattro o cinque volte. Alla fine TM mi calò e si mise a ridere. “Royal è l’unica persona che sia stata capace di salirla”. Ah, ah, ah. Certo, quella è gente di un altro pianeta. Ammiravo TM così tanto che non me la presi nemmeno. Stavo iniziando a capire che le capacità di Royal erano l’unità di misura per l’arrampicata su roccia in Yosemite.

Robbins nel suo giardino a Modesto (2007). Foto: Joan Barnett Lee

Con me Royal si rivelò un insegnante capace e generoso, dotato di un senso cartesiano della spiegazione, chiara e distinta. Le mie conoscenze delle questioni più sottili relative all’arrampicata su roccia erano scarse ed io ero forte, veloce e ignorante. Ciò nonostante, Royal insisteva per salire a comando alternato, perché credeva fermamente che si impara salendo da primi. La tecnica richiede attenzione ed esercizio e Royal insisteva su tutt’e due. Io e Layton non eravamo puri: noi smartellavamo, piantavamo chiodi, ci appendevamo, ci tiravamo su a forza di muscoli senza stare a pensare troppo allo stile. Per Royal lo stile si fondeva con l’etica all’atto di progettare una via e nella sua esecuzione. Tutte e due queste azioni dovevano essere “clean” ed effettuate senza nulla più del necessario, corde, chiodi, cibo, acqua, attrezzi o tempo che fossero.

Robbins impegnato nella prima ascensione della Diretta alla parete nord del Sentinel Rock, 1962.

Dopo circa un mese in Yosemite Layton stava cominciando ad essere impaziente. Ancora non eravamo stati sul nostro “banco di prova classico” e oltre a quello le scalate più brevi mi stavano ormai rovinando. Cosa avremmo dovuto fare?

“Che ne dici dell’Half Dome?” – mi disse Layton.
Gli dissi: “Ma tu sei fuori di testa” – o qualcosa del genere.
“E che ne dici della Steck-Salathé alla Sentinel?”

“Ma Cristo Santo, Layton!”. Smorfia di disgusto. “Yvon Chouinard ha detto che dopo ogni tiro gli facevano male le braccia”. La scalata prevedeva sedici lunghezze, due volte più lunga di qualsiasi altra via che avessi mai salito e sempre dura, senza sosta, con fessure, fessure offwidth e camini, non propriamente il mio forte. La maggior parte delle cordate la faceva bivaccando e Layton voleva invece salirla in giornata.

Royal Robbins rannicchiato in una sosta durante la prima ascensione della Mozart Wall sul Sentinel Rock, 1962. Foto: Tom Frost.

Concordammo di non dirlo a nessuno. Se per caso non ce l’avessimo fatta ci avrebbero deriso in tutta la Valle. Saremmo saliti con una sola corda, nessuna ritirata possibile, e uno zainetto con frutta secca, acqua e maglioni. L’influsso di Royal si stava facendo sentire.

Bivaccammo alla base della parete e la prima lunghezza me la feci tutta al buio. Salimmo la Steck-Salathé in undici ore, un tempo inferiore a quello di parecchi degli scalatori del posto. Gongolavamo d’orgoglio.

Tornati alla base, Royal ci disse di aver fatto la prima ripetizione nel 1953, all’età di diciotto anni, salendo da primo. Io e Layton iniziammo a gongolare già un po’ meno.

Robbins al ristorante di suo figlio Damon.

Le idee di Royal sull’eticità delle tattiche venivano applicate anche ai suoi amici. Mi chiese se volessi andare con lui a salire la via Chouinard-Herbert sulla Sentinel prima ancora che Yvon e TM l’avessero finita. La loro lentezza, l’uso dei chiodi a pressione e tutte quelle corde fisse lo irritavano. Pensava che saremmo stati in grado di portarla a termine in una giornata.

Declinai l’invito. Yvon e TM erano stati molto gentili con me, a parte lo scherzaccio di TM sul fessurone, e andare a portar via loro la via mi sarebbe sembrato un tradimento. “Non ti preoccupare per loro” – mi disse Royal – “sanno badare a se stessi”. Poi rapidamente andò avanti col discorso: “Va bene, allora facciamo la via El Cap Tree Direct”. Non ne avevo mai sentito parlare, ma non la dimenticherò mai.

Glen Denny e Frank Sacherer avevano effettuato la prima salita il dicembre precedente in due giorni. Si diceva fosse massacrante, ma Royal, come d’abitudine, voleva farla in giornata.

Durante l’avvicinamento Royal scivolò a causa di alcuni sassi instabili e si ruppe gli occhiali. Vedere la montatura e le lenti andate in frantumi fu come una sorta di presagio per la mia mente ansiosa. Era il caso di tornare indietro? Ovviamente no. Implacabile.

Partii per la prima lunghezza, strapiombante ma facile, e andai a far sosta su fettucce. A Royal occorse parecchio tempo per la seconda, difficile lunghezza (per la quale lodò Denny), che risalì strabuzzando in continuazione gli occhi dapprima lungo una expanding flake (lastra rocciosa solo appoggiata alla parete, perciò molto pericolosa se si tenta di inserire chiodi o altro nella fessura, NdR) e poi seguendo l’unica esile fessura di un muro per il resto assolutamente liscio. Mentre stava piantando a martellate un chiodo, quello sul quale gravava iniziò a uscire dalla sede, ma lui non fece altro che distribuire il peso su tutti e due per poi spostarlo gradualmente solo sull’ultimo piantato, come se stesse facendo un passo di danza al rallentatore. Quando toccò a me seguirlo molti furono i chiodi che tirai, dibattendomi nell’aria come un uccello appena colpito, con l’imbrago Swami stretto contro le costole. Arrivammo all’albero al crepuscolo, proprio mentre la luce che si apprestava a svanire stava indorando la sommità delle pareti in tutta la Valle.

Per la discesa prendemmo la via normale, slegati, fianco a fianco ma con me davanti, credo per il fatto che io avevo venti ventesimi di vista. Lampadine frontali? Ma cosa mai sono le frontali… L’oscurità induce al silenzio… Mi rinchiusi nel mio istinto primordiale, quella parte interiore che vigila sul pericolo, sulle bestie feroci e su quel farsi male che può indebolire, sul cadere da un albero o da qualche risalto roccioso. Quella concentrazione che esige il silenzio totale. Scendevo lentamente, attentissimo ad ogni singolo movimento, ben consapevole del vuoto che si spalancava sotto di me. Qual è il segreto della Grande Questione, chiese un giovane monaco. Il maestro rispose: Attenzione! Attenzione! Attenzione! Con la coda dell’occhio percepivo vagamente la presenza di lampadine frontali che si muovevano a sciami a fondo valle, un altro mondo, lontanissimo da noi. Dal bosco arrivava il gracchiare di una ghiandaia.

Quando la cornice si fece più stretta e più ripida ci legammo. Royal trovò un posto per far sicura da seduto dietro una piccola scaglia. Nessun ancoraggio. Senza alcuna protezione iniziai a scendere quel lungo traverso scivoloso fino a quando questo improvvisamente nel bel mezzo di un buio vuoto spettrale.

Improvvisamente dal basso arrivò della luce. Liz, la ragazza (e futura moglie) di Royal era arrivata nell’area parcheggio e intelligentemente aveva messo l’automobile col muso su un piccolo cumulo in modo tale che gli abbaglianti potessero farci avere almeno un po’ di luce. Riuscii a intravvedere una piccola cengia sotto di me, ma non c’era alcuna possibilità evidente d’arrivarci. Iniziai a scendere lungo una fessura, e dopo un paio di metri il mio piede si trovò a penzolare nel vuoto sotto uno strapiombo. Cazzooooooo!

Royal e Liz Robbins

Mi infilai nuovamente dentro la fessura col braccio sinistro in preda ai crampi, la mano simile ad una chela accartocciata su di sé e risalii la cengia fin quando non arrivai a sbattere contro la parete sovrastante, l’inquietante North America Wall. Mi veniva da vomitare. Grattai tutta roccia attorno a me fin quado trovai una fessura con dentro un Bugaboo. Un po’ poco, ma me ne fregai. Pestai sopra quella lama lunga e sottile con il mio martello da sei etti e mezzo fin quando sentii che teneva e la stessa cosa feci poi con un altro.

Royal scese, calmo e composto, e poi continuò fino ai chiodi a espansione da calata posti sulla cengia, muovendosi, almeno così mi sembrò, più sulla base del tatto che della vista, sulla base dell’equivalente tattile della visione periferica, come se sapesse cosa avrebbe fatto la roccia.

Quando raggiungemmo la base Liz ci abbracciò entrambi e tutti assieme andammo a Camp 4. Pfiuuu.

Royal e Liz. Foto: Glen Denny.

A maggio Royal doveva partire per l’Europa e io invece dovevo tornare a casa, così decisi di dargli un passaggio fino a Boulder. Passammo per casa di sua madre a Los Angeles, dopodiché ci dirigemmo verso il deserto. Non appena entrati nello Utah, Royal vide il Mexican Hat.

“E’ già stato salito?” – chiese.
“Non credo”.
“Saliamolo noi!”.
Come di prammatica, gli chiesi: “Proprio adesso?”.

Il Mexican Hat è uno strano ammasso di arenaria, un piedistallo con una focaccia in cima tutta contornata ai lati da strapiombi. Facemmo a turno per piazzare i chiodi su una delicatissima fessura sotto un tetto. In vetta c’era un piccolo ometto di pietre e un vecchio paletto, probabilmente ciò che restava di una bandiera (siamo poi venuti a sapere che gente del posto l’aveva salito facendo uso di una scala).

Ci crogiolammo un po’ a mangiar frutta secca, a bere acqua e a studiare quei vibranti schizzi di arenaria color rosso, ocra e terra di Siena in così aperto contrasto con il grigio argenteo del granito dello Yosemite, il terreno di gioco di Royal.

“Bene, Royal, ma adesso com’è che scendiamo?”.

Non avevamo l’attrezzatura per piantare chiodi a espansione e le poche fessure erano schifezze friabili. Come al solito la soluzione di Royal fu creativa: decise che saremmo scesi simultaneamente in doppia dai due lati opposti. Mi chiesi quanto mi ci sarebbe voluto per arrivare a pensare questa soluzione e per qual motivo non ci avessi pensato prima della nostra salita. La risposta era chiara, la stessa data per la mia partita a scacchi: ciò che mi mancava a volte era la sua capacità di improvvisazione. L’abbiamo fatto davvero? Io ora credo proprio che abbiamo fatto così a scendere dal Mexican Hat, ma ho rimosso ogni ricordo relativo.

Da sinistra, Tom Frost, Royal Robbins, Chuck Pratt e Yvon Chouinard in vetta a El Capitan dopo aver terminato la 1a ascensione della North America Wall, 1964.

Continuammo il viaggio fino a Boulder discutendo sul significato di dignità e onore. Ero curioso di sapere come pensasse che me la fossi cavata in quei miei due mesi nella Valle. Royal fu incoraggiante. Fosse stato diversamente, sarei morto sul posto. Non avevo fallito, non avevo preso una scorciatoia. Non avevo perso la faccia. Tanto bastava, per lui.

Il maggio successivo mi trovavo nuovamente in Valle, sotto un temporale. Pioveva forte. Ero nella galleria di Ansel Adams, a leggere nel suo minuscolo negozio di libri. Andai al Lodge e mangiai popcorn. Chiesi di Royal, sperando in una partita a scacchi. Qualcuno mi disse che Royal se n’era andato a Berkeley. Quella notte la pioggia si trasformò in neve.

Al mattino Liz arrivò al tavolo da picnic dove io e Layton stavamo facendo colazione e ci disse che Royal non era a Berkeley. In realtà stava salendo in solitaria la parete ovest della Leaning Tower. Ci volle un po’ per riuscire a metabolizzare quella notizia. L’autunno precedente tre scalatori avevano portato a termine la prima ascensione dopo diciotto giorni di scalata distribuiti in un periodo di dieci mesi. Un vero e proprio assedio. Esattamente quel tipo di ascensioni che Royal letteralmente odiava. Non credo sia troppo forte quella parola. Per lui era una macchia sulla sua valle adorata.

Non è che io e Layton saremmo andati a dare un’occhiata a come era messo Royal? Liz era preoccupata. Lo diceva il fatto stesso che stava chiedendo di farlo a noi che non eravamo del posto.

Royal Robbins in apertura sulla Salathé Wall, El Capitan, 1961

Andammo fino all’area di parcheggio delle Bridalveil Falls con la scassatissima automobile di Layton e da lì poi ci dirigemmo in mezzo ai massi senza sapere esattamente dove stessimo andando. Layton aveva il binocolo e guardammo verso l’alto, ma senza vedere nulla. Salimmo ancora più in alto, maledicendo la roccia coperta da licheni scivolosi. Pian piano l’area parcheggio iniziò a scomparire sotto di noi, oscurata dalla neve che cadeva, e facemmo ingresso in un regno ben più vasto che ci isolò dal mondo quotidiano delle automobili e dei turisti. Guardammo nuovamente, ma senza successo, così salimmo ancora. Poi Layton scorse Royal. Trovammo una placca sulla quale ci mettemmo seduti fianco a fianco per studiare quel che stava facendo.

Vedemmo uno sbuffo di polvere staccarsi da una giacca di piumino blu e una corda. Stava risalendo con i prusik e sembrava che fosse appeso a una nuvola. Mi chiedevo come facesse a funzionare un nodo prusik su una corda Goldline ghiacciata, salvo poi notare che la parete era così strapiombante che la neve in caduta non arrivava a posarsi su di lui.

Royal Robbins su El Capitan. Foto: Tom Frost.

Layton taceva. Ci davamo il cambio a seguirlo.
“Ma come diavolo fa?” – chiesi, completamente sconcertato. Layton se ne rimaneva tranquillo, tutto preso dalla contemplazione. Rimanemmo lì per un po’ a osservare, incantati di poter assistere a qualcosa di unico, non solo ad una prima grande solitaria della Yosemite, ma alla realizzazione di un capolavoro di maestria, a un ideale cui veniva data forma scenica proprio davanti ai nostri occhi. Il rischio, l’audacia, l’esposizione, il carattere selvaggio di tutto quello veniva condensato in una cosa sola: quell’uomo, da solo, su una grande parete. Fu allora che Layton disse: “Cazzo d’un Robbins, puoi fare quel che vuoi, ma lui è sempre un passo avanti”.

Ed era vero. Layton e Royal erano all’inizio delle loro leggendarie carriere e alla fine poi sarebbero andati a scalare assieme, ma, come Layton avrebbe poi ammesso, c’era sempre una sorta di sensazione che Royal fosse sempre in testa alla cordata.

Ovviamente Royal riuscì a farcela e noi non gli dicemmo mai di averlo spiato.

Dopo quella volta le nostre vite presero strade diverse. Io andai a est per laurearmi, bazzicare nelle fogne accademiche, essere da loro inghiottito e alla fine riemergere a nuova vita per andare a guidare trekking in Himalaya, a fare la guida sui Tetons e a scrivere. Vidi Royal parecchie volte in occasione di varie fiere. Facemmo la nostra ultima partita a scacchi nel mio appartamento di Chicago, dove insegnavo filosofia. Poi, per quarant’anni, silenzio.

Con calma e precisione Royal Robbins si concede un caffè mentre a Camp 4 sceglie il materiale per la seconda salita del Nose al El Capitan. Foto: Tom Frost.

Ripenso volentieri e con gratitudine a quei miei primi anni in Valle con Royal e con Layton. Sono stato un ragazzino inesperto e imprudente che ha avuto la grande fortuna di scalare assieme a delle leggende. Grazie a quella esperienza mi sentii più anziano, più coraggioso e più serio nei confronti della vita. C’era però dell’altro nel passar tempo assieme a Royal, qualcosa che descriverei come entrare a stretto contatto con qualcuno che abbia un percorso da seguire. Royal era un cercatore con ambizioni personali che andavano ben oltre l’arrampicata, destinato all’incontro con la solennità. All’epoca non ero in grado di formulare quell’idea e credo che nemmeno Royal lo fosse. Lui però seguiva un suo cammino, spirituale, religioso o altro, come meglio vi pare, e quel cammino era parte di ciò che lo rendeva unico e causa del suo influsso su chiunque gli si trovasse vicino.

Quando venni a sapere che Royal era morto la mia prima reazione non fu un pensiero, ma un’immagine, quella di una sfera blu che roteava lentamente al di là di un velo di neve, un uomo coraggioso, dalla volontà di ferro, elegante e a suo agio nel suo mondo, un mondo che solo pochi di noi arriveranno mai a conoscere.

Chuck Pratt e Royal Robbins (in piedi) su El Cap Spire, 1a ascensione della Salathé Wall a El Capitan, 1961. Foto: Tom Frost.

Un fiore lungo la strada
di Peter Haan

Per tutta la mia vita ho sempre visto fiorire una macchia isolata e misteriosa di papaveri di Matilija vicino alla piccola comunità di El Portal, sulla strada che porta alla Yosemite Valley, a centinaia di chilometri dal loro habitat naturale, nelle zone semiaride della California Meridionale e della Baia. Qualcuno deve averli piantati decenni fa per il piacere dei viaggiatori. Conosciuti anche con il ben poco romantico nome di Fiori delle Uova Fritte o Romneya coulteri, questi fiori enormi, color bianco abbagliante e assolutamente gialli al centro hanno una bellezza quasi mistica, una specie di visione di qualcosa di troppo improbabile e incantato per poter far parte del mondo terreno.

El Capitan, 1a ascensione della North America Wall: Tom Frost e Royal Robbins (sotto) in bivacco. Foto: Archivio Frost.

Nei primi anni Settanta, tuttavia, ben pochi di noi, per non dire nessuno, sapevano che i papaveri di Matilija tendono a radicarsi con forza. La Matilija, il fiore più grande nativo dello Stato, si diffonde per espansione rizomatica, un processo inosservato a livello di gambo, in basso, nascosto a livello del terreno, da pianta a pianta. Una volta avviato quel processo, dopo un anno o poco più, può diventare robusta come il bambù e produrre macchie spettacolari alte più di due metri e larghe più di sei. Le piante giovani, però, sono fragili, vulnerabili a ogni sorta di disturbo arrecato al loro nascente reticolo sotto la superficie. Esperti fioricoltori vivaisti spesso danno solennemente fuoco a un sottile strato di aghi di pino sopra i nuovi semenzai per far fiorire la pianta, che sembra propensa a germinare grazie all’effetto delle vampate di calore prodotte dagli incendi spontanei nelle aree selvagge.

Nel 1971 io e Royal ci trovavamo ad essere inseguiti da una tempesta tardo-invernale per tutta la California Meridionale. Il fronte settentrionale era lungo circa milleseicento km e le sue nuvole nere mandavano tuoni e lampi di fulmini. Tutto ciò che chiedevamo era solo una pausa, poter scalare su granito asciutto all’aria pulita e pensare, in silenzio, alle sfide private che ognuno di noi sapeva di dover trovare presto di fronte a sé. Royal non aveva ancora quarant’anni e io ne avevo ventidue. A nord, a casa, lo aspettava, incinta, sua moglie Liz e lui non si sentiva pronto ad avvicinarsi alla paternità e alla fine della sua gioventù (decenni dopo era solito dire che aver avuto figli era stata l’unica cosa buona che avesse fatto nella sua vita).

Robbins a Middle Fork, Salmon River, Idaho. Lo scopo del viaggio era l’abituale giro annuale in kayak per i suoi dipendenti: sette giorni in piena autosufficienza. Foto: Archivio Robbins Family.

Royal aveva un furgoncino Volkswagen color rosso, con un motore piccolo ed inaffidabile, e con in più una forma non proprio aerodinamica. Per andare da zero a cento gli ci volevano in media trentasette secondi ed era ormai al suo quarto motore. Poche persone però erano riuscite in quegli anni a fare più chilometri di quanti se ne fossero fatti lui e Liz. Quel furgoncino, ormai, era andato in lungo e in largo per tutto il continente, carico di uomini, donne e canzoni, ad affrontare così tante avventure da diventare alla fine una leggenda delle scalate su roccia in America.

All’epoca lavoravo per Royal, nel negozio di materiale per arrampicata avviato da Royal e Liz nel seminterrato privo di finestre sotto un negozio di vernici a Modesto. Io però ero anche il suo compagno di cordata e andavo con lui a “cospirare” in giro alla ricerca di nuove aree arrampicabili. Dopo quattordici anni di scuola non c’era nulla più delle scalate che potesse darmi lo stesso senso di identità e di appartenenza. Stavo iniziando a sentire che ciò non era abbastanza per costruirci sopra una vita intera e avevo paura che in seguito avreicapito di aver fatto un grave errore, scegliendo una direzione che mi avrebbe portato solo al vuoto ed al nulla.

Royal Robbins. Archivio: Royal Robbins.

La tempesta continuò a darci addosso in tutto il sud della California, costringendoci ad andare verso est, lontani da luoghi familiari come Tahquitz e Joshua Tree, per andare a riparare nel grande deserto del Mojave. La pioggia, fredda e senza sosta, diventava spesso neve accompagnata da vento. Il piccolo motore di quel microbus dava sempre l’idea di essere ormai sul punto di avviarsi a una lenta e silenziosa morte proprio lì. Nonostante ciò continuammo ad andare avanti e avanti, fin quando quel guidare senza fine iniziò a prendere i contorni di una sorta di non meglio precisata ricerca all’interno di una paesaggio più galattico che terrestre. Persi nei nostri pensieri ci davamo il cambio al volante del furgone su strade che sembravano diventare sempre peggiori e in mezzo a folate di vento sempre più forti, senza riuscire a trovare nulla.

Oltre la cittadina ferroviaria pressoché abbandonata di Kelso raggiungemmo il bordo del deserto più profondo che avessimo mai visto prima, un’estensione lunare di strane dune e di aridi affioramenti rocciosi. Avevamo saputo che qualche scalatore si era avventurato da queste parti, per esplorare alcune segrete formazioni di granito che punteggiavano qua e là l’orizzonte. Speravamo di scoprire un po’ di scalate, oltre a trovare caldo, luce e la tanto agognata quiete. Per centinaia e centinaia di chilometri verso nord la tempesta continuò a mandarci vento e nuvoloni neri, con solo rari e brevi squarci di sole sopra le nostre teste che lasciavano però subito il campo alla successiva ondata di nuvoloni.

Royal Robbins. Archivio: Royal Robbins.

Mentre stavamo passando attraverso uno di quei momenti di pausa, vedemmo correre, all’inseguimento di una preda che non riuscimmo a indentificare, un roadrunner (Geococcyx californianus, NdR), così veloce che a mala pena riuscii a vederlo prima che sparisse tra antichi cespugli di Creosoto. Royal fu più rapido, era uno che amava gli uccelli e gioì a vedere quel roadrunner che passava veloce come una freccia, probabilmente immaginando per un attimo cosa avrebbe voluto dire essere un animale di quel tipo, che spunta dal terreno per farvi subito ritorno fiero della propria vittoria. In giro c’era davvero poco altro di vivente. Dopo qualche ora individuammo qualcosa che poteva sembrare un papavero di Matelija a lato della stretta strada polverosa su cui ci trovavamo. Royal fermò il furgoncino e si inginocchiò sulla sabbia a lato dell’arbusto. Senza parlare, staccò con delicatezza da una pianta piccola un singolo fiore, uno dei tanti che era riuscita a far germogliare. Andammo avanti. Non avevamo idea che il papavero potesse essere raro e ancor meno potevamo immaginare che razza di battaglia avesse dovuto vincere per riuscire ad essere in grado di produrre i suoi fiori da qualcosa di nascosto sotto una strada. Per noi, in quel momento, rappresentava una qualche bellezza priva di nome e abbandonata, nel bel mezzo di quella che sembrava essere una desolazione senza fine, un emblema o un Graal.

Parecchio tempo dopo quel fiore assunse per noi un significato differente e molto più grande. Più o meno in quello stesso periodo l’artista paesaggista Art Tyree stava lavorando alla coltivazione di una varietà di papavero Matelija da serra. La pianta, in natura, era ormai diventata rara e a rischio. Se all’epoca avessimo saputo delle sue condizioni non avremmo di certo reciso quel fiore e l’avremmo invece lasciato al mondo cui apparteneva e che aveva bisogno di lui.

Forse, però, qualcosa stava già fiorendo dentro di noi, anche se ancora invisibile sotto la superficie della nostra coscienza. Ben presto io e Royal, assieme ad altri compagni, saremmo diventati più consapevoli anche dell’impatto che perfino l’arrampicata può avere sugli ecosistemi e di quanto ci fossimo già sporcati le mani nonostante le migliori intenzioni. Royal aveva iniziato da poco a produrre dadi ed eccentrici in California, dove aveva introdotto dalla Gran Bretagna il concetto di clean climbing. Col tempo i suoi interessi ambientalistici generali sono andati aumentando fino a quando si è imbarcato per quell’ultima tappa di un viaggio spirituale in continua crescita, da lungo tempo intravisto nelle peregrinazioni della sua giovinezza.

Solo di recente sono venuto a sapere che quel nostro fiore altro non era che il papavero spinoso del Mojave, fiore piuttosto comune nativo di quel deserto, anche se poi non ho più avuto l’occasione per dire a Royal che alla fine non avevamo poi commesso chissà quale errore. In quell’inverno del 1971, e ancora per molto tempo dopo, la storia di quel fiore continuò a sembrare la nostra. Avevamo guardato quel fiore misterioso fino a che appassì a brandelli sul cruscotto in metallo stampato del furgoncino rosso, quando questo, alla fine, si diresse ancora una volta verso nord.

Giganti e castelli
di Pat Ament

Ci spostiamo quindi verso la prossima cengia del sogno. Royal Robbins ha completato la sua carriera terrena. La voglia è di scherzare, di offrire una delle tipiche e complesse battute di Royal, dire che è partito per la sua ascensione solitaria finale. Non si riesce però a buttarla sul ridere o a fare una qualche elegante osservazione d fronte a una perdita così grande.

L’età dell’Oro per l’arrampicata in Yosemite, dagli anni Cinquanta fino al 1968 è ormai solo un ricordo. I pochi di noi che sono rimasti sono una testimonianza sopravvissuta di uno stile di vita che il mondo in un qualche modo ha rigettato. Noi creature di quei tempi siamo bloccati nella capsula temporale nella quale siamo entrati e dalla quale non riusciremo mai a fuggire. Il solo nome di Royal evoca quei giorni di primavera in cui decidemmo di rinnovare noi stessi, ad ogni profumo di foresta, ad ogni toccata di roccia un senso di potere. La storia è ambientata su uno sfondo di pini illuminati dal sole e di terrazzini di granito. Al pomeriggio, un’ombra veloce, uno scalatore, arriva, si sporge, tenta di fare un piccolo passo, un movimento di equilibrio, verso l’alto, lungo una serie di appigli invisibili. E’ molto attento, perché, come ormai sa bene, l’arroganza riceve sempre ciò che si merita.

Royal e Liz Robbins in cima all’Half Dome (prima femminile della parete nord-ovest), giugno 1967. Era il decimo anniversario della prima salita da parte di Royal. Liz ha detto che hanno avuto l’idea di aprire un’azienda di abbigliamento per scalatori dopo aver visto quanto apparivano sfilacciati in questa foto. Foto: Archivio Famiglia Robbins.

Indipendentemente da quali fossero gli influssi che le imprese di Royal andavano a esercitare in altre zone del nostro Paese o ancora più lontano, questi erano comunque figli della tradizione e della sensibilità della California. Era una Yosemite diversa, dove la finezza del granito, le astuzie della tecnica, i grandi exploit e l’avanzamento continuo sono la reliquia di un tempo che giunse ad essere vicino come non mai all’emozione e all’essenza di ciò che l’arrampicata è davvero. Si doveva scalare con lui, stare in piedi di fronte a quelle grandiose pareti inviolate per poter apprezzare il sublime di quello spettacolo.

Le foto della sua figura austera, il suo osservare attorno e il suo sguardo  verso l’alto estesi per chilometri nel granito dello Yosemite hanno tormentato pagine e pagine dell’American Alpine Journal. Non mi dimenticherò mai di quando, alle superiori, guardavo i suoi ritratti in bianco e nero fatti da Tom Frost, Glen Denny e da altri che nel frattempo sono diventati dei classici. Mi sembrava una sorta di registro di grandi personalità che si erano trovate al posto giusto, al momento giusto e che in qualche modo si erano trovate pure tra loro. In un’immagine, sul terzo tiro della Salathé, Royal era in artificiale, in piedi su una staffa. Guardava dritto verso la macchina fotografica e attraverso le sue lenti mi arrivò dritto al cuore. Da quel momento qualsiasi altra cosa mi sembrò appartenere a un tempo antico.

Liz e Royal Robbins a Camp 4.

Royal scrisse dello Yosemite: “La chiamano ‘la valle senza paragoni’ per la bellezza delle cascate, tutte distinte tra loro per diversa personalità, per le sue forme rocciose varie e imponenti, le foreste grandiose, i prati verdi e il fiume Merced, così bizzarro e tortuoso”. Descriveva i suoi compagni in termini elevati, perché erano capaci di avere un sogno e di inseguirlo. Nessuno però in quel periodo fu un eroe più di Royal. La sua dedizione all’arrampicata, il suo amore di gioventù era insolitamente matura e le avventure dei suoi primi tempi ebbero influssi fondamentali prima sui suoi compagni di cordata, poi su tutto il mondo dell’alpinismo. Eppure agli inizi non riusciva ad adeguarsi facilmente ai ben noti e prevedibili ecosistemi autoreferenziali degli scalatori. Quel ragazzino che viaggiava da abusivo sui treni merci e andava a rubar cerchioni faceva fatica a capire come poter rispettare la vecchia guardia. Alcuni veterani ben noti, come John Mendenhall, respinsero presto l’idea che la condotta di Royal fosse sovversiva e lo riconobbero come una figura emergente.

Ma più che emergente, la figura di Royal era in ascesa… Verso nuovi comprensori di difficoltà. Nel 1951, mentre saliva da primo sulla Higher Cathedral Spire, andò avanti ben oltre il normale traverso a sinistra creando così una “scandalosa” variante che Roy Gorin descrisse come “assolutamente non consigliata”. Nel 1952 Royal salì da primo in libera l’Open Book di Mendenhall, un 5.9 complesso in un periodo in cui i gradi superiori dovevano ancora arrivare. L’anno successivo guidò i suoi amici, in scarpe da ginnastica, sulla parete nord della Sentinel Rock, la seconda volta in cui quei seicento metri venivano scalati. Fiero di quell’impresa, Royal fu poi il pioniere di quel tetro e snervante strisciare nella via che in seguito ricevette il nome di Narrows (le Strettoie).

In effetti, era davvero un compito fuori dal comune quello che si era posto nel 1957, quando, ancora poco più di un ragazzino, decise di avventurarsi lungo i settecento metri della parete nord-ovest dell’Half Dome prima che altri potessero solo immaginare che quella parete fosse fattibile. Con chiodi fatti in casa e con delle scarpacce flosce, avanzi militari di vecchie marce invece di scarpette d’arrampicata finemente lavorate, trovò una via in quel regno di verticalità, assieme a compagni giovani come lui ma pronti a legarsi alla sua corda.

Royal aveva il senso dell’eccezionale orogenesi della Yosemite, dei millenni in cui la roccia è stata plasmata e sono state create le montagne. Non c’è nulla di arbitrario nella costruzione naturale dell’Half Dome che si innalza così evidente al fondo della Valle. Chi mai non lo vedrebbe come il posto più logico per sognare di aprirvi una via? Granito e luce sono lì, pronti, a portata di mano e in Yosemite c’è una così grande abbondanza di entrambi da lasciare senza parole anche gli stessi scalatori. E’ forse questa una delle ragioni per cui Royal era così austero e per lo più teneva ermeticamente sigillati i propri pensieri: cosa poteva essere detto di più di quanto la natura aveva fatto?

Sebbene la maggior parte delle sue scaglie più grandi fosse sul punto di staccarsi per andare ad esplodere e diventare polvere alla base della parete, l’Half Dome era la metafora dell’invariabilità. In mezzo a quella possibile esfoliazione c’era il rischio di restarci secchi, eppure avevamo la sensazione di essere in un posto solido. Il tempo, per un po’, si fermava. Già la Psych Flake da sola ti faceva fermare il battito cardiaco. Dave Rearick, che andò a fare assieme a Royal la terza ascensione della parete, ha raccontato di come Robbins salisse in opposizione il camino, creato da quella gigantesca formazione solo appoggiata, con la schiena alla parete principale e i piedi verso l’esterno a premere contro la scaglia. Rearick era terrorizzato e Royal disse: “Pensa alle centinaia di anni in cui il ghiaccio ha premuto contro questa scaglia. Non saranno due poveri mortali a disturbare il suo esserci”. Solo pochi anni dopo la Psych Flake si staccò della parete, presumibilmente per la sua stessa gravità.

Qualcuno di noi sapeva meglio di altri che un giorno era passato alla velocità del tramonto e che quello era il tempo a disposizione per arrischiare e per creare. In un giorno non c’era tempo a sufficienza per portare a termine tutto ciò che sembrava sgorgarci da dentro, non abbastanza per riempire l’eternità. Parte di quella grandiosità era data dal fenomeno mistico dell’amicizia combinata assieme all’avventura, un gioco così inebriante a quell’altezza trasparente. Il nostro sentire era potenziato. Royal scrisse che l’arrampicata “aveva risvegliato le nostre menti e i nostri spiriti a una brama di vita e a una migliore consapevolezza della bellezza”. Scalare, per noi, era un’identità e la roccia era il luogo in cui esprimerla.

Odiavo la velocità con cui passavano le ore e cercavo di imprimere nella memoria ogni singolo gesto, ogni espressione dei volti, ogni cambiamento della luce o del tempo. Durante un corso di bio-psicologia imparai poi che la memoria si acutizza quando l’adrenalina è in circolo. Proprio quello che avvenne alla mia memoria, quasi-fotografica in quelle mie prime arrampicate. Là dove un occhio comune vedeva il granito come semplice massa priva di vita, noi vedevamo invece un organismo vivente. Lo sentivamo quando, dopo un tranquillo pomeriggio su una parete di granito, un crepuscolo leggero si posava sulla foresta e mentre una nuvola passava davanti al sole. Sentivamo il movimento dell’aria, il giorno che si faceva notte e la notte giorno. Una singola goccia di pioggia andava a colpire il granito. Una folata di vento scuoteva invece i rami degli alberi.

Chiunque abbia incontrato Royal da giovane sa che non c’erano dubbi sulla sua aggressività, sul suo coraggio e sulla sua sicurezza di sé. Nel giro di pochi anni assunse una tacita leaadership. Parecchi scalatori avevano più forza fisica, ma pochi potevano mettere assieme la sua stessa combinazione di creatività e di volontà. Amava i passaggi su roccia che richiedevano solo il giusto tocco, un attento posizionamento dei piedi, l’equilibrio, il giusto spirito oppure la volontà di superare un passo che fa paura. Gli piaceva il momento del calcolo, quando doveva trovare una combinazione di movimenti e realizzarla prima di esaurire la forza a disposizione. Aveva il senso dell’orizzonte, dello spazio e del proprio posizionamento al loro interno. Era uno che dava l’idea di conoscere la questione davvero a fondo.

Gli anni Sessanta ci avrebbero portati a ricercare l’avventura nelle verticalità dentro di noi e qualcuno si rivolse alla droga per rendere tutto ciò più semplice. Altri invece trovarono l’esperienza mistica più tranquillamente in ciò che le scalate potevano garantire in fatto di sensibilità, introspezione e illuminazione. Lì c’era una realtà assoluta, e noi ne salivamo le pareti. La metafora arriva solo fino a un certo punto, mentre noi ci muovevamo all’indietro come ragni appesi agli strapiombi. In certo qual modo, con alcune delle sue scalate più sensazionali, Royal ci insegnò a non disperare, nemmeno quando ci sembrava di non riuscire ad alzarci neanche più di un passo.

Jack Turner

Credo sia stato Schopenauer a dire che i primi anni sono quelli che fanno testo e tutto il resto della vita ci consegna invece note e commenti. Questo spiega la ragione per cui sono così verboso. Una parte di me, però, si chiede cosa dovrei condividere parlando di Royal. Chi lo conobbe ne seppe cogliere lo spirito, rimase ipnotizzato dalla sua serenità, si immerse con lui in quella che poteva paragonarsi, anche se non del tutto, a una società segreta.

Quand’ero un adolescente perso tra le nuvole, Royal mi dava l’aria di essere guidato direttamente dai corpi celesti. Era come se vedesse la sua vita dall’inizio alla fine. Io ho sempre avuto la tendenza a dipingere i miei amici con una magnificenza che loro trovavano lusinghiera ma al tempo stesso in un certo modo assurda. Anche Royal di tanto in tanto faceva un po’ di scena, fu lui stesso ad ammetterlo. Assumeva pose a effetto teatrale, con i pugni sui fianchi, il gomito all’esterno e un cipiglio strano, una sorta di ghigno. Eppure era come tutti noi, provava la stessa tortura ai piedi a causa delle scarpe strette, e aveva calli che gli davano fastidio! Nel corso di alcune scalate anche lui era arrivato a essere stanco. Gli piaceva l’allegria degli amici attorno a un focolare o a un falò da campeggio, dove poteva godersi la compagnia e bere birra o vino.

Come si può parlare della forza di un soggetto che nel contempo è anche fragile, complicato e non infallibile? Royal era stato un ragazzo tranquillo, un caso raro, mi disse sua madre in occasione di una telefonata da casa sua in California Meridionale ai tempi in cui stavo lavorando alla sua biografia. Mi raccontò di lui che ascoltava musica classica quand’era ancora un bambino. Abbandonato da un padre irresponsabile e fatto oggetto di abusi da parte di un patrigno alcolizzato, Royal creò per sé una sorta di solitudine. Il suo comportamento a volte cupo e compassato divenne leggendario quanto la luce della Valle. I regni del granito erano le fortezze protettive che lo circondavano e lo custodivano. Si ritirò verso l’alto su una parete distante dai mali del mondo.

Jerry Gallwas su un traverso della parete npord-ovest dell’Half Dome, 1a ascensione, giugno 1957. Foto: Archivio Robbins.

I ragazzi crescono con un’identità e Royal diventò quella personalità unica che conosciamo. Sapeva di avere a portata di mano qualcosa d’importante. In lui c’era uno sviluppo lessicale, si creavano nuovi termini, c’era un’analisi delle idee e dell’attrezzatura: alla fine in lui si stava creando una metodologia per la comunicazione tra uno spirito e l’altro. Con una seria intransigenza e un’etica rigorosissima, temperate dalla sua arguzia connaturata, Royal faceva tesoro delle esperienze nello stesso tempo in cui faceva in modo di padroneggiarle. Aveva una riserva enorme di determinazione, o forse dovrei dire che era implacabile. Rifletteva su cosa volesse dire andare al di là della paura e della debolezza, cercare un coraggio che desse valore alla vita.

Non credo che Royal fosse umile. Sapeva bene chi era e andava giustamente orgoglioso delle sue imprese. Era sprezzante verso chi gli sembrava non vivere l’avventura con la sua stessa intensità. Royal era in grado di distruggere la reputazione di una persona con una frase o con un gesto silenzioso. Rubò una prima ascensione a due scalatori perché aveva il presentimento che loro avrebbero messo troppi chiodi ad espansione oppure che sarebbero tornati all’uso delle corde fisse. A Royal piaceva la competizione. Se per caso esitavo a fare un passaggio passava subito avanti lui. Gli piaceva entrare in scena come un valoroso cavaliere, ma allo stesso tempo non esitava a lodarmi quando salivo da primo una lunghezza nella quale poi lui trovava impegnativo salire da secondo. Si faceva vanto della sua onestà e in effetti era una persona con dei principi e voleva avere una vita basata sulla verità: ma era pur sempre umano e si sentiva frustrato ogniqualvolta non riusciva a cogliere la verità. C’erano cose di sé che andava nascondendo a se stesso. Come molti di noi credo si fosse costruito l’immagine di chi avrebbe voluto essere.

Layton Kor su Exhibit A, Eldorado

Mentre alcuni vedevano Royal come un intellettuale snob, io invece sentivo che aveva una mente sportiva e sempre in ricerca. Poteva anche essere cinico, a sprazzi. Il suo gusto per il divertimento e il gioco spaziava dagli scacchi ai giochi di parole e alle bravate indotte dalle libagioni. Qualche volta si divertiva a spese degli altri e mi sono trovato a chiedermi se per caso quegli stati d’animo dipendessero da tensioni represse nei tempi dell’adolescenza. Col passare degli anni Royal divenne più cortese e gli amici lo videro pronto ad ascoltare, gentile e sempre incline a dare un consiglio. Aveva la capacità misteriosa di sentire quando un amico fosse giù di morale e parecchie volte mi capitò di ricevere da lui una telefonata o una lettera quando le cose non mi andavano per il verso giusto. Capitava altrimenti di vederlo comparire all’uscio di casa, silenzioso, imbronciato, con la corda in spalla e i pantaloni strappati, come un vagabondo smarrito voglioso di andare a scalare. In una di quelle occasioni credo che non ci siamo scambiati più di dodici parole in tutta la giornata. La comunicazione aveva luogo a base di sguardi e di rispetto reciproco.

Dentro di me gira ora il filmato pieno degli infiniti dettagli della nostra amicizia: La prima volta che ci incontrammo, fu nel 1963, al buio del rifugio dei Long Peaks con quel suo fare quasi minaccioso… RURP e gancetti fifi su una parete sopra il Chasm Lake… In Eldorado, sulla parete principale della Yellow Spire, illuminata dal sole ben sopra la cima degli alberi… A Castle Rock nel Boulder Canyon dove salì in libera una via cui diede il nome di Athlete’s feat… Una via che alla fine risultò essere uno dei primi 5.11 con un runout pericoloso sopra una lama rocciosa… Quando guardava diritto negli occhi mia madre, che aveva fiducia in lui, e mi invitava a un viaggio assieme: le trasmetteva audacia con la dolcezza di un sorriso… Le stelle sopra Shiprock quando io, lui e Liz ci trovammo a scendere tutte quelle centinaia di metri… Le doppie alla luce sempre di quelle stelle a Castleton…

Doug Robinson

Per la nostra ultima scalata assieme mi diede appuntamento all’Hotel Boulderado per colazione prima di partire per il granito del Boulder Canyon. Aveva ormai i capelli color argento. Più avanti negli anni iniziò ad avere lunghi periodi di silenzio e a dare molta più importanza a quello che gli veniva detto, allo sguardo sul volto di chi gli parlava. Invece di opprimere con la sua superiorità intellettuale tendeva all’essere conciliante, un progresso umano grandioso quanto le sue scalate.

Provate a immaginare di avere Royal come guida personale per un tour in occasione della vostra prima visita a Yosemite. Ecco che vedere la Valle porta in un mondo di immaginazione emotivo, primitivo. Ogni ascensione ha il proprio significato, bellezze nascoste e scoperte che condividevamo. Iniziai a imparare che quelle scalate sono in realtà una questione di carattere, un sentiero verso l’interiorità. Gradualmente arrivammo a sapere dove ci trovavamo, che quelli erano momenti sacri, mistici e fugaci. La vetta non era poi la vera meta, significava solo che la via era stata fatta e che per un po’ saremmo dovuti tornare agli affaracci nostri personali. Quando scalavamo potevamo vivere una qualità di partnership quale non è dato facilmente in altre sedi.

C’è un vecchio aforisma in base al quale i bambini non amano ascoltare altri bambini. Vogliono sentir raccontare di giganti e di castelli. Una parete era un gigante. Era un castello. E Royal era il nostro principe, colui che ci guidava nel cammino.

Trento, Filmfestival maggio 2008, casa Grunauer: da sinistra, Daniela Cecchin, Liz Robbins e Royal Robbins.

La Verità
di Tamara Robbins

La verità. Papà la usava come password per molte cose e quella parola va davvero bene per riassumere la persona. “Come ci si sente ad essere la figlia di Royal?” è una domanda che di solito ignoro fin dalla premessa, in quanto non ho punti di riferimento. E’ semplicemente mio padre. Adesso, comunque, sono arrivata a pensare che ignorando la domanda in questione posso non essere riuscita ad afferrare la rarità di quell’esperienza, la rara fortuna di poter testimoniare una vera crescita personale. Allora, come ci si sente? Solitari e premurosi, scomodi e avventurosi, forti e amorevoli.

Papà era preoccupato all’idea di avere un figlio e fedele a se stesso era stato onesto con la Mamma. “Va bene, fallo, Lizard (ovvero lucertola, diminutivo scherzoso usato con la moglie Liz, NdT)… Fai pure ‘sto bambino, ma io probabilmente sarò su qualche roccia”. Io nacqui il 20 settembre 1971 e il 26 settembre di quello stesso anno papà partì per una campagna di scalate in Europa. Nel corso del mio primo anno di vita papà viaggiò dalla Columbia Britannica a Lovers Leap, per poi andare a Queen’s Throne, Tahquitz, Yosemite, i Tetons e nelle Alpi, aprendo più di una dozzina di vie significative. Di me si occupò mia madre con l’aiuto di una serie di bizzarre figure dello Yosemite, di anziani vicini di casa di buona volontà, del nonno e di Mimi.

I timori di papà in merito alla paternità scemarono subito dopo il mio arrivo. Crebbi in un ambiente concentrato sull’arrampicata e abitato da scalatori, il che vuol dire che c’era una miscela di teppismo, serietà e intelligenza. In una foto ci sono io poco più che poppante intenta a portare una bottiglia di vodka (diamo per buono che fosse piena d’acqua) tra gli alberi in un’area campeggio. A tratti ho ricordi di papà come di una presenza amorevole e felice. Altre volte la sua energia mi metteva a disagio. A quattro anni d’età feci un ritratto di lui con chiodi ad espansione rossi che gli schizzavano fuori dalla testa e dalla bocca.

Royal Robbins impegnato in una delle tante discese in kayak.

Quando ero ancora giovane mio padre mi diede una delle tante lezioni su come fare le cose “nel modo giusto”. Un gruppo di scalatori stava giocando a carte o a dadi ed io stavo provando a prendervi parte. Qualcuno si offrì di spiegarmi come funzionasse il gioco. Mio padre disse: “Non stare ad aiutarla, è mia figlia, imparerà per conto suo”. Questo voleva dire che darmi un vantaggio alla fin fine voleva dire ostacolarmi. Nel corso degli anni fu sempre amorevole ma duro. Ricontrollava come avessi pulito il tavolo dopo cena piegandosi fino ad avere gli occhi a livello della tavola per vedere se per caso non mi fosse sfuggita una qualche briciolina.

Papà credeva che una buona vita dovesse implicare anche dell’avventura, ma combatteva anche con i suoi istinti, preconcetti, desideri e priorità. Negli anni Ottanta iniziò ad usare quotidianamente dei taccuini per annotarsi di tutto, dalle liste di cose da fare ad affermazioni e citazioni. Depennava poi ogni singolo punto subito dopo essersene occupato. Nel 1996 mi scrisse un’e-mail con il seguente oggetto: “Scopo – Vita – Amore – Autocontrollo – Felicità:
Un inizio semplice ma non facile è essere decisi a FARE SEMPRE CIO’ CHE DITE DI VOLER FARE. Mantenere la parola è l’elemento basilare dell’integrità. E l’abitudine di mantenere la parola dà un grande potere alle vostre parole. E questa è di per sé un’eccellente disciplina. E ti aiuterà ad essere consapevole di come appaiano le tue azioni se paragonate alle tue parole”.

Quello stesso anno, in un’altra e-mail, mi scrisse:
“Intendo vivere quest’anno come se fosse l’ultimo (e che Dio faccia sì che ciò non avvenga) e odierò tutti quei momenti in cui scenderò al di sotto di quello standard e mi troverò a sprecare i secondi, i minuti e le ore (molti giorni in meno!) per sciocchezze, risentimento, debolezze o uno dei sette peccati capitali. Sono sempre stato pieno di buone intenzioni. Guarda e osserva cosa accade quando le azioni prendono il sopravvento sulle intenzioni”.

Royal Robbins sembra darci l’addio.

Quel suo approccio disciplinato non vuol necessariamente dire che lui osservasse scrupolosamente tutte le “regole”. In realtà aveva disabilitato la spia della cintura di sicurezza e i fari di posizione da usare durante il giorno perché non doveva essere la sua automobile a dettare quanto ”sicuro” fosse. L’autogoverno era fondamentale. Di tanto in tanto mi firmava giustificazioni per la scuola (con scuse false e senza che la mamma lo sapesse) per andare a fare un giro sugli sci o con il kayak. Mantenne quello spirito allegro e malizioso anche per tutta l’ultima fase della sua malattia e fino alla fine, cercando di muoversi senza aiuto e rubando cioccolata ogniqualvolta gli fosse possibile. Ciò che realmente lo interessava, però, non era la cosa buona da mangiare, bensì il rimprovero della mamma o di chi lo stava assistendo. Era quello che gli faceva venire un bel sorriso sulle labbra.

Coraggioso, gentile, sincero, profondo, curioso, dotato di humour e umile, papà era un esempio vivente di come andare da un posto all’altro. Ci ha lasciato una mappa del viaggio della sua vita composta da un mucchio di fotografie e una pila di innumerevoli e meticolosissime note. Il filo che corre attraverso il tutto è quello dell’integrità, del suo impegno a vivere bene nelle intenzioni e nella grazia.

Ovviamente il mantra che Papà ci ha lasciato (è sempre stato un passo avanti) riepiloga in sé la maggior parte di quanto ho scritto finora: “Continua a scalare!”.

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Nel mondo del granito e della luce – 2 ultima modifica: 2020-03-15T05:40:00+01:00 da GognaBlog

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7 pensieri su “Nel mondo del granito e della luce – 2”

  1. @Roberto Bozzo: temo ahimé che tu stia facendo confusione… non mi sono mai tenuto una cippa.

  2. @Battimelli: devo averlo visto in azione a Ferrentillo o al Gabbio – no prigione eh!-  ed ho capito cosa significa tenersi..

  3. Non sono ancora riuscito a sapere con precisione l’anno dal quale aveva cominciato a portare sulla testa una coppola bianca.

  4. @Roberto Bozzo: eh già, era proprio Batman…
    Ci sono vie più o meno belle, e che ti segnano di più o di meno. Per alcune di loro il più è legato a un nome e una storia. Robbins è uno di questi nomi.

  5. Letture che fanno riflettere e sognare. A fine anni 90 quasi al termine di un lungo coast to coast arrivavi sotto a El Capitan e provai pura meraviglia. Di Royal Robbins avevo letto biografia e scalate sul libro ed.Vivalda (prefazione di Batman?) e fu emozionante poter ammirare quel grandioso scenario di granito. Un saluto a tutti.

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