I nuovi conquistatori dell’inutile
di James Plunkett
(già pubblicato l’11 luglio 2017 in www.mojagear.com, con il titolo New Conquerors of The Useless – The Role Of Achieving Nothing in a World Obsessed with Doing Everything)
Traduzione di Agnese Blasetti
Lettura: spessore-weight***, impegno-effort*, disimpegno-entertainment***
Uganda: mentre aspettiamo un autobus in ritardo stratosferico, un tipo del Kansas si gira verso di me con l’aria depravata tipica di quelli che si considerano di una casta superiore e mi fa: «Immagino sia vero quello che si dice… Un americano riesce a fare più cose entro le dieci del mattino di quante ne fa la gente del terzo mondo in un giorno!»
Reprimere un conato di vomito è stata la mia brillante risposta a quell’elitaria generalizzazione nell’interesse di un sereno viaggio in bus. Ma quel commento, o la visione del mondo che rappresenta, mi tormenta da allora. Sembra impersonare quella mentalità che ha identificato la felicità con il “fare” meglio, più velocemente e con più profitto.
Consideriamone i risvolti futuri.
Ho sentito una notizia l’altro giorno sull’importanza di auto senza guidatore per l’incremento della produttività. Ho parlato con degli insegnanti di scuola materna sui benefici di nuovi aree “naturali” che abbassino i livelli di ansia dei loro allievi attraverso “il gioco destrutturato”, cercando di capire la differenza con quello che chiamavamo semplicemente “giocare all’aperto”. Vedo schiere di giovani così disillusi e sopraffatti dal sogno americano (e non cito la montagna di debiti che richiede) per cui vivere in case minuscole diventa una sorta di ribellione e un modo di ottenere pace.
Sembra, ma è solo una mia ipotesi, che andando così di fretta non riusciamo nemmeno a tenere il passo con noi stessi.
In uno dei suoi sermoni pregni di magnesite, il guru dei vagabondi Yvon Chouinard suggerisce: “Surfare e arrampicare sono entrambi sport inutili. Si diventa conquistatori dell’inutile. In vetta ci si può arrivare da altre direzioni. È il come ad essere importante”.
L’efficacia di questa filosofia ad hoc potrebbe smorzarsi data la sua similarità con gli slogan che troviamo sugli adesivi in vendita negli headshop di quartiere, ma io vorrei insistere su questo punto per un minuto, se me lo permettete.
Il concetto schietto e radicale che l’arrampicata, per cui ci alleniamo e facciamo così tanto, sia essenzialmente una non-azione dovrebbe offenderci. Dopotutto, passiamo ore in palestra, mesi se non anni su un progetto, e vite intere a cazzeggiare su libri, riviste e video che celebrano la nostra storia d’amore con questo sport.
Comunque, se mettiamo da parte i nostri ego feriti e riflettiamo razionalmente sulla sua affermazione, sappiamo che Chouinard ha ragione: la vetta si può raggiungere da un’altra direzione (ovvio, non sempre, ma abbiate pazienza…). La famigerata risposta stile zen-koan dell’alpinista George Mallory, data a un giornalista nel 1923 quando gli chiese perché avesse tentato di scalare l’Everest, è altrettanto inutile: “Perché è lì”.
Ma è proprio questo il punto, no?
Possiamo vantarci all’infinito del nostro ultimo progetto o delle dita gonfie, ma alla roccia non importa nulla delle sessioni estenuanti al trave o di quante volte sei scivolato all’ultimo secondo da quello svaso. La roccia è lì. Non è una chiamata che aspetta una risposta o un messaggio che pretende una replica immediata. Non ti serve per ottenere una laurea o un aumento, una casa, un fondo pensionistico. Socialmente parlando, è del tutto improduttiva. Inutile. E allora perché è così importante?
In un vecchio video della Black Diamond, Life in the Gunks, la BD ambassador Whitney Boland parla così: “La cosa fantastica dell’arrampicata è che si tratta solo di un pezzo di pietra. L’unica cosa che ti fa sentire diverso è quello che ci proietti. Funziona come uno specchio, ti riflette. Cadi e ti dici “Argg… faccio schifo!” ma sei tu a portare quella negatività. Quella è solo una roccia immobile. E quando lo capisci, cambia tutto.”
La Boland aggiunge una sfumatura diversa ai concetti del monacale Chouinard e dell’elusivo Mallory. E, per portare avanti la sua teoria, io chiedo: cos’altro nella quotidianità delle nostre vite ci fornisce quell’unico genere di riflessione? I telefoni? Il computer? I tablet? Il rigore che ci imponiamo per essere sempre avanti e fare più soldi? La nostra fenomenale abilità di mangiare, pensare e arrivare in un posto sempre più in fretta?
La nostra società non è una di quelle che enfatizza o loda questi deliziosi e inutili “veicoli” che inspirano questo genere di riflessione o di introspezione. Sicuro, ci sono altre strade e mi rendo conto che il pensiero di andare a scalare per alcuni servirebbe solo per aggiungere altro stress al weekend invece che fornire il genere di meditazione introspettiva suggerita dalla Boland.
Ma noi arrampicatori conosciamo questa sensazione perché l’abbiamo sperimentata in un modo che è tangibile e allo stesso tempo etereo in maniera straziante. Abbiamo uno dei più grandi privilegi della vita: poter guardare indietro e vedere quel cavolo che stavamo facendo con una parvenza di lucidità.
È difficile non sentirsi accondiscendenti scrivendo dell’importanza del non far niente in un momento in cui c’è così tanto da fare politicamente, socialmente ed economicamente. Mi sento lo stesso di controbattere che la polarizzazione, le discussioni e la violenza palese presenti nella nostra cultura odierna sono il risultato di troppi individui e istituzioni incapaci di trovare per se stessi uno specchio del genere. Sì, c’è tanto da fare, ma un volume esagerato di azioni non supererà mai la profondità di un pensiero consapevole.
E a quell’uomo del Kansas incontrato anni fa, vorrei dire questo: Mentre lei si affannava alle dieci di mattina nel “primo mondo”, le vedove sante dell’Uganda mi offrivano rifugio, dei monaci himalayani un tè meraviglioso e del pane, ho ricevuto cibo dagli eroinomani nelle campagne degli Appalachi e riposo tra i bambini di Port-Au-Prince. Questi sono i suoi soggetti improduttivi, signore. E li porterei a scalare uno per uno prima di lei.
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Per molti la felicità è fare meglio, più velocemente e con più profitto. E se non ci riusciamo? Allora siamo dei mesti infelici? Mi rifiuto di credere che per essere contenti bisogna essere belli, sani e ricchi, anzi, ci sono i meno belli come me, c’è chi si ammala e inevitabilmente prima o poi muore, infine ci sono gli indigenti, i bisognosi e i poveri.
Qualcuno ha scritto che non bisogna darsi un obiettivo, bisogna superarlo. Non sono d’accordo perché il successo non deve essere un obiettivo, ma la conseguenza.
Scalare una montagna non è “la conquista dell’inutile”, anzi.
Qualunque obiettivo, progetto, ideale, qualunque sogno ci stimola e ci da felicità nel raggiungere la nostra meta, ma non dobbiamo dimenticarci che non tutti i traguardi sono raggiungibili. A mio parere ciò che conta è non sentirsi dei perdenti, degli insoddisfatti o addirittura dei frustrati quando dobbiamo abdicare. Perché il rinunciare, in certe situazioni, è fonte di saggezza.
Anch’io tanti anni fa ho lasciato l’alpinismo per accompagnare mia moglie Serenella nella malattia; ho lottato come don Chisciotte contro i mulini a vento per sconfiggere il terribile male che l’aveva colpita, ce l’ho messa tutta, ho dato tutto quello che avevo dentro, ho sofferto pene inimmaginabili. Insomma, al di la di quello che potevo fare ho tentato l’impossibile. Un amico, in quel periodo di grande angustia, mi ha scritto: “Sei stato con Serenella a pochi metri dalla cima dell’Everest e mi dispiace che non ce l’avete fatta a raggiungerla. Ti sono vicino…”. Gli ho risposto: “Caro Fabio, non ce l’abbiamo fatta perché ci siamo volati oltre”. Quell’alpinista era l’indimenticabile amico Fabio Stedile caduto sul Cerro Torre.
Lottare per una scalata non è la conquista dell’inutile, ma un modo per fortificarsi, per imparare a gestire emozioni: soffrire, lottare, sognare e molto molto di più. Non dimentichiamoci che l’arte della vita sta anche nel provare dolore: è difficile ma ci rende più forti, migliori! Ed è un privilegio poterlo fare, perché purtroppo nel mondo troppe persone devono lottare, subire e penare per ideali ben più umili altro che crozare.
“L’occidente ha indubbiamente lusinghe consumistiche che mirano al profitto di alcuni, ma basta poco per starne sufficientemente discosti, appreso questo e cambiato approccio mentale la scala di un tribunale può non essere diversa dal supercolouir…”
mi sa che la scala di un tribunale possa essere assai più dura del supercolouir…
Andiamo in montagna da uomini. Quindi perchè dovremmo essere migliori…?
trovo questa tendenza dell’uomo montano a sentirsi sempre un pò sciamano e un pò conquistatore dell’inutile veramente senza senso.
così come trovo l’articolo di una banalità sconcertante.
qualunque attività, portata ai massimi livelli e non ancorata a un fine meramente utilitaristico può portare ad una coscienza personale diversa e a trovare un senso alla vita che prescinda dall’accumulo.
vado in montagna da decenni con grande piacere e vi ho trovato spesso rifugio e introspezione, ma alla fine mi sono accorto che certi momenti intensi di lavoro o di approfondimento scientifico, in cui si da tutto se stessi per un fine ideale o per un compito che non abbia risvolti meramente patrimoniali portano comunque ad una autocoscienza diversa.
per molti anni il mio motto è stato la meta è il viaggio.
oggi quel viaggio lo vivo ovunque non solo sui sassi e posso assicurare che impegnare mesi per scrivere un libro di diritto processuale (quanto di più inutile vi sia) non è da meno, quanto a illuminazioni, spunti di pensiero, intensità e piacere che allenarsi per salire un tiro di 8a o la Bonatti al capucin.
allora il punto non è che siamo ganzi perché andiamo in montagna e siamo più illuminati di altri, chè pure sui monti ci sta pieno di cialtroni.
il punto è che ciascuno ha il proprio approccio e forse il vero senso della vita è trovare il bello in ogni momento, che si stia salendo verso l’alto, che si stia sciando, che si stia scrivendo, che si stia semplicemente guardano un bel sole al pomeriggio da una finestra, che ci stia lambiccando dietro a qualche strano problema scientifico, che si stia correndo su una volante o si stia passando due giorni a cercare di scrivere una sentenza decente o una notte in sala operatoria.
L’occidente ha indubbiamente lusinghe consumistiche che mirano al profitto di alcuni, ma basta poco per starne sufficientemente discosti, appreso questo e cambiato approccio mentale la scala di un tribunale può non essere diversa dal supercolouir…
Si, rileggendo l’articolo penso che abbia ragione Fabio.
Tutto sommato non so nemmeno se valga la pena di mettersi a commentare le considerazioni di Plunkett.
Forse, sotto sotto, anche a lui giravano i coglioni per il ritardo stratosferico del bus e allora ha colto al volo il commento dell’americano per sfogare il suo malcontento dando la colpa a chi non c’entrava una mazza e ricamandoci sopra un po’ di filosofia spicciola e qualunquista.
La corsa a denaro è negativa (molto negativa) quando per giustificarla si è disposti a calpestare gli altri, a diminurne i diritti, a minare la salute del nostro pianeta, e quando è sempre di più concentrata in mani di pochi.
Migliore la ricchezza per stare meglio ben venga. Ma quando è per tutti. Non mi sembra che negli ultimi anni si stia andando in questa direzione.
Al contrario vedo sempre più ricchezza e potere concentrati in mano di POCHI che fanno CORRERE sempre di più i MOLTI per raggiungere i loro scopi.
Purtroppo i MOLTI spesso e volentierei sono complici di questo, forse inconsapevoli o forse abbagliati dagli specchietti per le allodole a cui abboccano/abbocchiamo senza renderci conto che dovranno/dovremo correre sempre di più.
L’aumento della popolazione è sempre sinonimo di aumento del benessere? Non ne sono convinto. Spesso e volentieri i poveri, gente che non ha lavoro, hanno un sacco di figli.
Un signore del Kansas si lamenta del ritardo di una corriera in Uganda. Tutto qui.
E James Plunklett ne approfitta per imbastirne una dissertazione filosofica. O forse addirittura una nuova filosofia.
Plunkett dice anche che non porterebbe l’americano a scalare con sé. Ma forse a quest’ultimo non interessa: non tutto il mondo ha la visione del mondo di Plunkett.
Un po’ di apertura mentale sarebbe la benvenuta, soprattutto da parte di chi ci vuol far credere di essere di mente aperta.
Forse, lo dico anche io mentre rifletto, il benessere, raggiunto e in continua evoluzione, ha come contropartita l’ignoranza sempre più profonda della maggioranza delle persone e il loro disinteresse alla comprensione, se non per le “cose” quasi sempre inutili che vengono loro propinate di continuo.
Io credo che ci si dovrebbe sforzare di limitare la corsa a fini elevati e che si potrebbero sicuramente fare delle rinunce.
Il punto della questione, ed è ciò su cui spesso rifletto, è quanto sia possibile uscire dagli schemi senza compromettere ciò che degli schemi risulta essere positivo.
La corsa al denaro, per es., viene vista come negativa, soprattutto in presenza di grossi accumuli di capitale, però ha costituito anche un motore per lo sviluppo della tanto criticata società in cui viviamo. Senza soldi non ci sarebbe una grande ricerca scientifica, non sarebbero stati costruiti nuovi prodotti (anche in ambito alpinistico) che ci hanno consentito e ci consentito di vivere tutto sommato meglio, ecc..
Che poi questo meglio abbia un sacco di risvolti negativi e discutibili siamo tutti d’accordo ma sta’ meglio l’aborigeno australiano o l’operaio della FCA? Mah.. difficile dirlo.. Bisognerebbe prendere l’aborigeno e sbatterlo in fabbrica con uno stipendio fisso e prendere l’operaio e sbatterlo in mezzo al deserto. Forse alla fine morirebbero entrambi (l’operaio credo sicuramente) perchè scaraventati fuori dal loro ambiente.
Però la speranza di vita, a livello mondiale non solo nazionale, è aumentata, la povertà, sempre a livello mondiale, è calata, il numero degli abitanti, sempre a livello mondiale è più che raddoppiato dagi anni settanta ad oggi (!!!).. Un motivo ci sarà. Quindi questo correre, a volte disumano, e nemmeno da parte di tutti (perchè c’è ancora chi se la prende molto comoda), a qualcosa di complessivamente valido forse ha portato.
Cmq le mie sono sono delle mere riflessioni tese non tanto a trovare delle soluzioni che non sarei nemmeno in grado di trovare (al massimo posso fare qualcosa nel mio piccolo) ma per riflettere sul fatto che ci troviamo di fronte a fenomeni estremamente complessi che non si possono liquidare in maniera spicciola.
E’ chiaro che ci sono attività umane in cui bisogna ed è giusto correre. Quando ero nel soccorso alpino e si veniva chiamati per un soccorso, si correva. Si corre per un fine superiore: salvare una persona.
Ma il correre della nostra attuale società non è sempre per un fine superiore. Anzi , spesso e volentieri e solo per fare soldi (per alcuni – minoranza) e per altri invece è, purtroppo, per sopravvivere (maggioranza).
E’ vero che poi questo correre ti da la possibilità di permetterti cose, spesso molto futili, a cui invece potresti tranquillamente rinunciare. Molti si indebitano per avere cose di cui potrebbero fare traunquillamente a meno. Poi devono correre per poterle mantenere. Alla fine non ce la fanno e diventanto schiavi di un sistema che li strozza.
Ma ne vale sempre la pena?
Oppure sarebbe meglio saper fare delle scelte, che magari ti fanno fare delle rinunce, ma ti regalano più tranquillità e libertà.
Tutto bello ma la realtà è un pochino (solo un pochino…) più complessa.
Il modo di vivere di molti occidentali, e ormai anche di molti orientali, presenta innumerevoli problemi però è difficile avere la botte piena e la moglie ubriaca.
La rappresentazione bucolica del finale dell’articolo, quasi da paradiso terrestre, dimentica che non esiste solamente un correre verso l’inutile o il superfluo ma esiste anche un correre verso qualcosa di più alto.
Come lo consideriamo il correre degli addetti al pronto intervento di un ospedale o il correre di tutti coloro che fanno parte della filiera dei trapianti? Come lo consideriamo il correre dei soccorritori, il correre della protezione civile, il correre delle forze dell’ordine, ecc. ecc..?
Sicuramente chiunque potrà, per mero gusto della polemica, sconfessare gli esempi di cui sopra, trovando una sfilza di malfunzionamenti, interessi vari ecc., ma il problema è che quando poi ci si trova in mezzo (es. malattia) un certo tipo di corsa, anche contro il tempo, è assolutamente desiderato.
Ovvio che in un mondo idilliaco la cosiddetta “civiltà” porterebbe solo cose buone e nulla di cattivo ma purtroppo le cose non funzionano così e se molti occidentali oggi si possono permettersi il tè meraviglioso e il pane dei monaci himalayani è perchè vivono in una società che gli consente di andare in Himalaya.
Poi, che certe riflessioni possano essere utili per migliorare ciò che non funziona va benissimo, però, insomma, cerchiamo di non vedere, come sepsso accade, tutto biano o tutto nero.
Nell’inutile dell’alpinismo si può essere solo se stessi, non si riesce ad essere altro, solo se stessi, come dei bambini impegnati a giocare.
Il bello è che lo si vede benissimo, si capisce subito con chi siamo, non come in altre attività dove ci si può camuffare.
Ma lo stiamo insegnando anche ai bambini.