Il Nuovo Bidecalogo del CAI, approvato a Torino il 26 maggio 2013, dedica il Punto 13 all’alpinismo e all’arrampicata. Potete consultare il documento finale e la presentazione del past-president Annibale Salsa, i due documenti sui quali ho lavorato per esprimere un mio parere sul Punto 13.
Punto 13 (Alpinismo e arrampicata)
Questo punto (qui per comodità è il documento) è stato trattato dagli estensori con grande competenza e sufficiente aggiornamento di base nell’evoluzione contemporanea di alpinismo e arrampicata. Il punto di partenza sono stati le Tavole della montagna di Courmayeur (1995) e il Congresso Nazionale CAI di Pesaro (1997).
Diciamo subito che il punto afferma giustamente e con forza che “l’accettazione del rischio è parte integrante dell’alpinismo, che è una attività che presenta rischi, e chi la pratica se ne assume la responsabilità; sono soprattutto le competenze, le capacità e il livello di preparazione fisica e psichica che possiede l’individuo a stabilire il grado di prevenzione del rischio e a imporre le conseguenti azioni. La conoscenza e il rispetto della montagna uniti a un’onesta valutazione delle proprie capacità sono condizioni indispensabili per una pratica in ragionevole sicurezza dell’alpinismo”.
C’è poi un passaggio culturale di non poco conto quando si afferma che “il rischio assunto e condiviso nello spirito di cordata è un momento culturale essenziale nella pratica dell’alpinismo dove il confronto personale dell’individuo con le difficoltà opposte dalla natura ne costituisce il fascino”. Il valore dato allo spirito della cordata pone l’alpinismo a un livello superiore di quello della squadra sportiva.
Il richiamo all’autoregolamentazione deve basarsi sul riconoscimento di due differenti priorità:
– per ciò che riguarda l’arrampicata sportiva, la priorità è la performance tecnico-atletica ottenuta anche grazie alla limitazione del rischio soggettivo;
– per l’alpinismo invece la priorità “è la soluzione di un problema di scalata posto dalla morfologia stessa della montagna valendosi esclusivamente delle opportunità di progressione e di protezione che essa stessa consente”.
Questa distinzione è assai importante per tutta una serie di conseguenze, dalla classificazione di un’impresa fino alle complicanze giuridiche in caso d’incidente.
Infine merita elogio l’affermazione precisa che “l’apertura di nuovi itinerari di scalata dovrà basarsi sulla struttura naturale della montagna e sul rispetto delle vie logiche di salita”. E’ infatti importante che le nuove aperture rispettino la storia e i tracciati esistenti. Non si possono tracciare itinerari sportivi in prossimità di altri itinerari classici perché li snaturerebbero.
Più attenzione critica meritano invece queste affermazioni:
– sugli itinerari alpinistici iperfrequentati è giustificato che si intervenga in modo speciale ai punti di sosta per ragioni di sicurezza. Questo perché “si tratta di itinerari che, almeno temporaneamente, non consentono più una vera esperienza alpinistica“. Qui non siamo assolutamente d’accordo. Si può anche pensare a soste rifinite in modo definitivo, ma non certo per la ragione fornita. Gli itinerari disattrezzati che non siano al top dell’esperienza in realtà consentono vera esperienza alpinistica a cordate di livello inferiore. Non si vede perché l’esperienza alpinistica debba essere limitata ai migliori;
– giusto affermare “durante la ripetizione di itinerari di scalata saranno rispettate e/o ripristinate le protezioni disposte dai primi salitori, o quelle nuove riconosciute accettabili dopo un certo numero di ripetizioni”. Ma poi si conclude con “eventuali ulteriori protezioni, utilizzate durante la salita, dovranno essere rimosse”. E qui non si capisce chi dovrebbe farlo. I più classici “sesti gradi” delle Dolomiti (e non solo) dall’epoca della prima ascensione negli anni Trenta, subirono negli anni Cinquanta e Sessanta una regolare e continua iperchiodatura che poi si arrestò naturalmente. Non si può predicare un qualcosa che poi non verrà mantenuto. Nessuna amministrazione, nessun CAI sceglierà mai davvero la schiodatura di un itinerario. La schiodatura della Maestri al Cerro Torre dovrebbe insegnare che l’integralismo talebano non è necessariamente parte della nostra cultura;
– “l’uso dei mezzi artificiali che comportano la perforazione della roccia dovrà essere evitato o limitato a casi straordinari, simili a quelli in cui essi sono stati tradizionalmente tollerati, ossia ai casi in cui essi consentono il superamento di brevissime interruzioni della linea di salita naturale, e ai casi di emergenza”. Osserviamo che non si può regolamentare così un mondo così complesso. Le Alpi per fortuna non sono un unico Parco Nazionale dove dei legislatori si permettono di dare delle regole. L’uso degli spit limitato con la definizione di “brevissime interruzioni della linea di salita naturale” è ormai insufficiente. Ciò che per Huber o per Manolo è una linea di salita naturale per la maggior parte è un ostacolo insormontabile. Un aggettivo come “naturale” non tiene conto delle capacità, dunque è inutile sprecarlo. Non è alzando questo genere di soglie e di foglie di fico che si salva la naturalezza dell’alpinismo…
Da ultimo osserviamo che non si è fatto alcun cenno all’arrampicata trad, o meglio a quell’arrampicata che più si avvicina al concetto alpinistico. Le falesie oggi presentano migliaia di itinerari attrezzati in modo sportivo, non è stato lasciato spazio (se non su alcuni tracciati storici ed estremamente impegnativi) a percorsi sui quali si possa imparare l’arte di salire con i propri mezzi di assicurazione e in cui ci si debba costruire le proprie soste. Troviamo invece migliaia di catene, dalle quali, se si vuole diventare alpinisti, occorre liberarsi. Da qui l’importanza di riservare uno spazio trad in ogni falesia: e di questo, nel Bidecalogo, non v’è traccia.
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