Oltre il colle
Se guardiamo al colle e al valico come vie di collegamento, come percorsi di passaggio ritroviamo inevitabilmente delle suggestioni antiche. Che cosa può rappresentare oggi il colle? Credo che ci sia sempre stato l’interesse da parte dell’uomo di vivere ciò che si trova dall’altra parte, come si sentisse l’esigenza di investigare un mondo che non era il proprio. Anche oggi esploriamo gli altri pianeti e vorremmo andare nelle altre galassie per capire se esiste un’altra forma di vita più o meno simile alla nostra. Questa esigenza c’è e c’è sempre stata, come la ricerca di una dimensione in più. Se noi siamo abituati, ad esempio, a vivere in una valle, proprio per il fatto che è una valle, percepiamo che al di là ci deve essere qualche cosa. Ad esempio, la ricerca della «Valle perduta» ha portato alla scoperta che vi era una regione ricoperta solo da ghiaccio e questa è diventata una leggenda bellissima. Credo che nella mente dei viaggiatori, non tanto del pastore che vede il colle come una distanza geografica dove portare le mandrie, ci sia il bisogno di andare e di vedere cosa si può trovare dall’altra parte. È l’esigenza, che proviamo tutti noi, di conoscere l’ignoto. Anche perché dall’altra parte ci sono popolazioni che hanno altre lingue, altre culture e altri modi di pensare. È sufficiente considerare la dicotomia che ancora oggi percepiamo tra il mondo latino e quello tedesco, c’è un’esigenza di conoscersi che va al di là di tutti gli interessi commerciali.
Annibale attraversa le Alpi con gli elefanti. Dipinto di Nicolas Poussin.
I colli che rimangono su uno stesso versante hanno sicuramente delle valenze diverse rispetto a quelle dei colli di spartiacque. Se prendo ad esempio il Passo del Tonale che collega il mondo trentino con il mondo lombardo, la Val di Non con la Valcamònica, trovo due dialetti diversi che però si rifanno all’italiano. Sono convinto che rimanga soltanto il discorso della seconda dimensione: vale a dire se io adesso ho una dimensione di valle, arrivando al colle mi approprio di un’altra dimensione che mi manca. E questo può essere valido anche per le valli che fanno capo al Monte Rosa. Sto pensando ai colli secondari rispetto ai primari. È vero però che a volte, tra una valle e l’altra, ci possono essere delle differenze maggiori di quelle che si possono riscontrare tra due valli appartenenti a nazioni diverse. Vale a dire, se prendo un colle qualunque, tra l’alto Cadore e le Dolomiti di Sesto, trovo due mondi differenti, il mondo veneto e il mondo sud-tirolese, e non è un colle di spartiacque. Se valico un colle posto tra il sud e il nord Tirolo, ad esempio il Pfitscherjoch, trovo minori differenze. Quindi non devono essere necessariamente di spartiacque per creare delle differenze nette.
Nel colle c’è sempre la salita e la discesa e in ogni caso è un momento della nostra vita, un momento importante che ripetiamo continuamente. Lo stesso alpinismo è una salita e una discesa: al posto del colle abbiamo messo la vetta. Però, anche nell’alpinismo c’è il concetto di traversata nel senso che si fa la cima e poi si scende dall’altro lato, si fa la traversata del Cervino, del Monte Bianco, le grandi traversate con gli sci in cui si toccano delle vette: ma ciò è diverso, è un motivo più complesso che non quello del salire, arrivare in cima e poi scendere che è la base dell’andare in montagna.
Passo Pordoi: il monumento a Fausto Coppi
Credo comunque che, anche se non andiamo a toccare la dimensione fisica e geografica dell’altra parte, nel nostro moto di conoscenza tramite il colle sia coinvolta l’altra parte nostra, quella inconscia, e quindi l’intera nostra forza motrice. Ciò è esaltato dalle massime altezze. I colli dove è passato sempre l’uomo hanno una valenza storico-culturale, di migrazioni, di transumanze. Gli altri colli, quelli sopra i 5000 o 6000 metri, non possono avere quel significato anche perché non si possono valicare se non con le moderne tecniche alpinistiche. Ne viene amplificato il significato materiale di utilizzo per il raggiungimento della vetta, sempre più lontana. Un utilizzo concreto e senza rispetto, basta pensare al Colle Sud o al Colle Nord dell’Everest. Siamo sugli 8000 metri, a quella quota si monta l’ultimo campo per il lancio finale. Da lì si parte per la vetta con tutto ciò che ne consegue. È un luogo di sofferenza, ma se invece di un colle fosse una spalla sarebbe sicuramente la stessa cosa. Nessuno è mai andato dall’altra parte. Prendiamo la cresta del Lhotse: fino ad ora non è mai stata fatta. È uno dei grandi problemi alpinistici. C’è la Nord del Lhotse e questa cresta. Ma chi è arrivato al Colle Sud ha sempre mirato all’Everest, mai nessuno ha pensato di scendere dall’altra parte o di traversare la cresta del Lhotse. Ma un giorno faremo anche questo. Se prendiamo il K2 non c’è un colle alpinistico. L’ultimo balzo lo si fa da una spalla, da quota 8000. Qui il colle è soltanto strumentale e la sua presenza ininfluente. Perché chi va a fare qualcosa in Himalaya, nel Karakorum, nelle Ande o in altre zone disabitate è costretto a pensare in termini di esplorazione o di sport, non può riallacciarsi ad una tradizione, non esistono tradizioni per il Colle Sud dell’Everest, c’è solo la tradizione di sporcarlo, abbandonando rifiuti e basta. Nella mentalità dei primi che l’hanno raggiunto era un punto, importante, ma solo questo, perché in quel caso mancava la libertà: il loro obiettivo era la scalata dell’Everest, tutto il resto non era assolutamente importante. In Alaska, ad esempio, non c’è niente. C’è soltanto freddo e gelo: collegare la valle dello Yukon con i Territori del Nord Ovest canadese che significato potrebbe mai avere? Non l’ha avuto nemmeno in passato, sono zone disabitate senza tradizioni. Senza cultura stanziale e senza storia il colle è uno spazio come un altro, è un’espressione geografica: come l’Italia di Metternich. Per valorizzare un colle ci deve essere della gente, della gente che vive lì intorno. Altrimenti rimane solo il fatto che è una depressione in una cresta. Non sarebbe molto di più di un punto qualunque.
È importante che un luogo, o se vogliamo un luogo molto particolare, un «non luogo», come il colle acquisti significato e venga vissuto in un certo modo, allora deve essere inserito in un ambiente con certe caratteristiche, deve avere una cornice di cultura intorno. Tradizioni patrimonio di genti che devono essere stanziali, visitate dal singolo viaggiatore che non vede solo l’aspetto culturale. Un viaggiatore che sia intraprendente e che possa cogliere l’essenza delle cose, che possa dare valore al colle. Per il pastore il colle non può avere la stessa valenza. Per lui il colle è un posto come un altro, non credo che possa avere un valore specifico. Nello stesso tempo non si può fare a meno del pastore perché altrimenti verrebbe meno la dimensione culturale, umana e non rimarrebbe più niente. Quando il nostro moderno trekking riconsidererà tutte queste componenti?
Per la maggior parte degli alpinisti il colle è un incidente di percorso. Se c’è, bene! Se non c’è, va bene lo stesso! Una salita di cresta può partire dal colle ma ci sono salite che non iniziano dai colli: ascensioni di pareti, di versanti o anche di un canalone in cui non figura alcun colle. Invece per gli escursionisti potrebbe assumere maggiore rilevanza. Oggi c’è il trekking anche se non ovunque praticato nella sua accezione e significato originari. Nei paesi nordici fanno invece il vero trekking, guarda caso su territori quasi collinari dove i valichi dovrebbero essere meno significativi. L’«alta via» è il classico collegamento dei colli di passaggio di una volta, rivisto in chiave moderna, in chiave di itinerario che ti permette di avere belle vedute, di attraversare bei posti, di collegare una valle con l’altra. Nella mente degli alpinisti questo aspetto non è più valorizzato. Se due valli fossero confrontate per le loro differenze allora il colle avrebbe una maggiore rilevanza; appiattendo tutto questo nella dimensione sportiva e nella dimensione delle traversate, questa cultura si perde ed è un peccato perché ci sono sempre meno cose da raccontare, meno cose da dire. All’inizio dell’alpinismo c’era poca differenza tra vette e colli tant’è vero che fu pubblicato un libro dal titolo Picchi, colli e ghiacciai. Oggi, chi intitolerebbe un libro così? Nessuno. Se dovesse proprio assomigliargli, sarebbe «Cime e ghiacciai». Oggi il colle ha perso quell’importanza soprattutto culturale che nel XIX secolo invece era ancora ben presente nella mentalità del viaggiatore.
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