Postfazione a I falliti

Postfazione a I falliti (RE 003)
di Ugo Manera
(postfazione a I falliti, 2000)

Lettura: spessore-weight(3), impegno-effort(1), disimpegno-entertainment(3)

Sono passati molti anni dai fatti che mi accingo a ricordare, fatti legati a Gian Piero, alle avventure vissute insieme e alle nostre discussioni sull’alpinismo, ma il ricordo dell’amico non è sbiadito, anzi è più vivo che mai e spesso mi capita di pensare a lui. Tra le amicizie nate in montagna quella con Gian Piero è stata sicuramente la più importante, e me ne rendo conto riscontrando che il mio affetto per lui non è diminuito malgrado il tempo trascorso dalla sua scomparsa.

Gian Piero era molto sensibile, soggetto a grandi entusiasmi, ma anche a momenti di grandi crisi esistenziali. Nella sua visione della vita, allietata dall’elevata capacità di cogliere gli aspetti poetici dalla natura, si inserivano stati periodici di pessimismo. Io ero invece un consumista delle cose che mi appagavano, indirizzato sempre all’azione, poco incline alla riflessione, teso caparbiamente a rincorrere ciò che mi dava soddisfazione, anche a costo di enormi fatiche e sacrifici. Egli era animato dal desiderio dell’azione, ma con l’esigenza di interrompere ogni tanto per rivolgersi alla meditazione. Io ero invece insensibile a tutto fino a quando non riuscivo a raggiungere il mio obiettivo alpinistico: poi potevo anche distrarmi osservando il mondo che mi circondava, ma solo per il tempo necessario a riacquistare le energie per la salita successiva.

Malgrado la nostra diversità, è stata una grande amicizia; non abbiamo mai avuto contrasti: anche quando con sottile ironia sottolineava le mia esagerata foga nel praticare l’alpinismo, tutto si risolveva sempre con grandi risate. Ho subito anch’io il fascino della sua personalità, ma non mi sento in diritto né di indagare profondamente su di lui, né di cercare una spiegazione per quegli episodi della sua vita che appaiono enigmatici e che hanno originato spesso critiche e interpretazioni superficiali. Quando si autoisolava dall’ambiente dell’alpinismo, io accettavo le sue scelte senza porre domande né esprimere commenti; semplicemente aspettavo il suo ritorno.

Cercherò invece di raccontare fedelmente alcuni dei tanti fatti che mi hanno legato a Gian Piero e che sono tuttora vivi nella mia memoria.

Un sabato sera, verso la fine dell’agosto 1964, mi trovavo alla Muanda di Teleccio per trascorrervi la notte. Allora non esisteva il rifugio Pontese e gli scalatori trovavano riparo nelle grange abbandonate; una di queste era stata adattata alla meglio con un po’ di paglia e qualche tavola di legno. Ero lì con un amico per salire la via Leonessa-Tron della parete ovest del Becco di Valsoera e nel diroccato ricovero c’erano con noi altri scalatori. Mentre eravamo intenti nei preparativi per la notte, entrarono impetuosamente due ragazzi molto giovani; uno appariva del tutto normale, l’altro invece attirò subito la nostra attenzione: alto, capelli scuri e occhiali, si capiva che era il capo della piccola spedizione. Parlò dopo aver dato uno sguardo frettoloso al ricovero e all’umanità presente: ci disse che la loro meta era lo spigolo del Becco di Valsoera, la più difficile via esistente a quel tempo nel gruppo del Gran Paradiso.

Me lo ricordo molto disinvolto nell’effettuare i preparativi, dava l’impressione di essere determinato e molto concentrato nelle sue azioni, tanto da prestare poca attenzione agli altri presenti.

Quel ragazzo mi incuriosì, provai per lui una simpatia istintiva, ma il suo fare spavaldo e la sua giovane età me lo fecero apparire un po’ presuntuoso nell’affrontare ascensioni di tale difficoltà. Mi informai nell’ambiente alpinistico: appresi che si chiamava Gian Piero Motti, che aveva appena terminato la Scuola di alpinismo Giusto Gervasutti, che era lanciatissimo nelle scalate difficili e che alcuni scalatori torinesi un po’ conservatori scuotevano la testa parlando di lui e presagendo che la giovanile esuberanza potesse portare a drammatiche conseguenze.

Le curiosità destate in me da quel primo incontro con Gian Piero erano destinate a essere presto soddisfatte; nella primavera successiva entrammo a far parte dell’organico istruttori della Scuola Gervasutti, io invitato come esterno per l’attività alpinistica svolta, Gian Piero promosso allievo istruttore per le brillanti attitudini dimostrate nei corsi. Altra opportunità di incontro ci venne offerta dall’ingresso di Motti nel Gruppo Alta Montagna dell’UGET, la seconda sezione torinese del CAI. Oggi il GAM non esiste più, ma allora era un gruppo importante che raccoglieva gli scalatori torinesi (e non solo) più bravi e più attivi.

Gian Piero Motti. Foto: Vincenzo Pasquali

Per un po’ le nostre attività alpinistiche si svolsero parallele senza molti punti di incontro: io avevo una spiccata preferenza per l’alta montagna e le scalate su terreno misto (ghiaccio e roccia), Gian Piero invece prediligeva la roccia e non aveva né timori né esitazioni nell’affrontare le scalate più difficili. lo, più condizionato dalla tradizione, ponevo come obiettivo primario il raggiungimento della vetta; egli collocava tale obiettivo in secondo piano anteponendo il piacere per l’arrampicata elegante, i gesti e le intense sensazioni vissute in parete.

L’alpinismo torinese in quegli anni stava vivendo un momento di transizione; la spinta del gruppo di scalatori di origine proletaria che si era sostituito nell’immediato dopoguerra ai “borghesi” Boccalatte, Gervasutti e Rivero si stava esaurendo, i protagonisti avevano cessato l’attività o l’avevano ridotta notevolmente. Un giovane si stava affermando, con una serie impressionante di scalate: era Gianni Ribaldane. Ma purtroppo questa giovane promessa dell’alpinismo torinese morì in un incidente sul canalone Gervasutti del Mont Blanc du Tacul durante un’uscita della Scuola di alpinismo, nel luglio del 1966.

Alla scomparsa di Ribaldone, Motti, che aveva vent’anni, apparve a tutti il candidato a rappresentare gli scalatori torinesi della nuova generazione. Percorreva le montagne delle Valli di Lanzo fin da ragazzino; nella Val Grande, che diventò la “sua” valle, saliva ai colli, raggiungeva le cime da solo e scalava con le scarpette da ginnastica i massi del fondovalle. I suoi genitori conoscevano Giuseppe Dionisi, il fondatore della Gervasutti, che, osservato nel ragazzo tanto entusiasmo per la montagna, lo avviò alla scuola. Si affermò subito come arrampicatore dotato ed estroso, con molta inventiva accompagnata da grande determinazione. Impostò presto un suo tipo di attività indipendente, in cui appariva come primo attore. Arrampicava prevalentemente da primo di cordata e i compagni fungevano quasi sempre da gregari. In quegli anni non mancarono salite con compagni alla pari, come la Ovest dell’Aiguille Moire de Peutérey o il tentativo alla Est delle Grandes Jorasses (in entrambi i casi con Alessandro Gogna), ma furono eccezioni. Se non cominciammo a scalare insieme fin dal nostro ingresso nella Scuola, cominciammo però a discutere spesso, di alpinismo e di altri argomenti. Iniziò la nostra solida amicizia e lo convinsi a iscriversi alla GEAT, gruppo molto attivo della sezione di Torino del CAI, animato dall’encomiabile presidente Eugenio Pocchiola. Sul bollettino di questa sottosezione Gian Piero ebbe modo di pubblicare alcuni dei suoi primi scritti di montagna. Sempre nell’ambito della GEAT pubblicò anche le guide della Rocca Sbarua e delle palestre d’arrampicata delle Valli di Lanzo, piccoli capolavori del genere monografico.

Gian Piero parlava volentieri con me, mi confidava i suoi progetti di vita e mi esternava le sue opinioni critiche sugli scalatori e sulle loro imprese. Aveva da poco ultimato il liceo e si avviava agli studi universitari nella facoltà di Lettere; vedeva nell’alpinismo uno degli interessi primari e intendeva dedicare molto tempo alle scalate, ma senza diventare un professionista della montagna per non veder limitata la propria libertà decisionale. Contava invece di intraprendere la carriera di insegnante, professione che, almeno ai suoi occhi, gli avrebbe garantito tempo libero per un’intensa attività alpinistica.

Allora Gian Piero aveva una fidanzatina, Marina, e i suoi ottimistici progetti la coinvolgevano in una vita divisa equamente tra insegnamento, famiglia e montagna.

Con questi propositi si iscrisse a Lettere, ma la sua esperienza universitaria durò poco; approdò in un’università agitata dai movimenti che poi diedero vita al ’68, movimenti che non lo coinvolsero, ma che anzi gli impedirono di dedicarsi agli studi come avrebbe voluto. Deluso nel suo ideale di studio, abbandonò l’università e i progetti di insegnamento. Non smise di studiare, anzi studiò più di prima, ma da autodidatta, tanto da acquisire un bagaglio culturale di eccezione.

La sua era una famiglia agiata e non aveva problemi finanziari; quando abbandonò l’università si dedicò all’alpinismo quasi a tempo pieno, ma questa situazione, apparentemente privilegiata, generò in lui molti dubbi e diede inizio a fasi cicliche di crisi ampiamente descritte nei suoi numerosi articoli.

Fu tra i primi giovani ad avere un’auto per spostarsi (dapprima una piccola Fiat 500, ma presto una più consona Fiat 850 coupé, per poi passare all’elegante Lancia Fulvia coupé); possedeva sempre i materiali migliori e quando era in giro per arrampicare amava trattarsi bene, scegliendo buoni ristoranti per mangiare e alberghi anziché campeggi per dormire. Spesso, arrampicando, assumeva movimenti e pose plastiche che gli erano naturali, ma che a molti apparivano sfoggi esibizionistici. Se della cordata era il leader, a volte dava l’impressione di essere brusco con i suoi secondi. Per il suo modo di vivere, per qualche atteggiamento esteriore (egli stesso si definisce in un articolo superbo e ambizioso) e per una buona dose di invidia da parte di chi inventò l’appellativo, venne chiamato “il Principe”.

Sbarua (Pinerolo), via Gervasutti, variante del Tetto. Gian Piero Motti, 19 marzo 1972

Con Gian Piero gli osservatori superficiali hanno sempre sbagliato e non lo hanno mai capito. In montagna non era affatto spavaldo e, anche se determinato, era sempre prudente, sapeva valutare i propri limiti e non li superava. Non era né egocentrico né egoista, anzi era generoso e altruista. Se vedendolo arrampicare si poteva pensare a qualche atteggiamento esibizionistico, in effetti poi rifuggiva le manifestazioni che potevano farlo apparire protagonista di fronte al pubblico. Certe sue rinunce o assenze improvvise, che furono interpretate dai più come manifestazioni di superbia o di superficialità, furono invece delle decisioni sofferte, frutto di riflessioni e tormenti interiori che lo portarono ad agire in modo diverso da come l’opinione comune si sarebbe aspettata.

Gian Piero si lanciò giovanissimo sulle celebri vie di roccia delle Dolomiti e del Monte Bianco, e contemporaneamente iniziò a tracciare nuovi itinerari nei luoghi di arrampicata classici per i torinesi: la Rocca Sbarua, il gruppo Castello-Provenzale, la Parete dei Militi. Fu la comune passione per la scoperta che ci portò ad arrampicare insieme. Anch’io nel 1967 avevo iniziato a rivisitare le palestre di arrampicata con l’intento di tracciare nuove vie. Al Plu, in Valle di Lanzo, ci incontrammo in mezzo al bosco diretti separatamente al medesimo obiettivo: una via diretta sullo Sperone Grigio. Senza nessun accordo preventivo ci trovammo a operare insieme, anziché in concorrenza, e fu l’inizio di una lunga collaborazione alpinistica caratterizzata dalla totale assenza di contrasti.

Poi venne il 1968, non quello ricordato per le contestazioni sociali, ma il nostro ’68 alpinistico, denso di esaltanti realizzazioni. Cominciammo, già durante l’inverno, con l’esplorazione del Bec di Mea in Val Grande di Lanzo: la sua amata valle. Lì Gian Piero era il padrone di casa, conosceva tutti gli angoli e, durante le pause nelle accanite lotte sulle pareti, mi raccontava dei suoi viaggi di fanciullo sognatore per sentieri e dirupi. Concludemmo con l’entusiasmante prima salita della Punta Castagneri, sempre nella sua valle, magnificamente descritta in Anatomia di una prima.

L’impresa della Punta Castagneri ebbe però per Gian Piero un risvolto negativo: nella discesa notturna dopo la scalata scivolò su una lingua di ghiaccio e si ferì abbastanza seriamente alle mani. Dovette interrompere l’attività per qualche mese, perse l’allenamento all’arrampicata e l’immobilità forzata lo portò a un momento di crisi descritto nell’articolo steso dopo la sua scalata solitaria al pilier Gervasutti del Mont Blanc du Tucul, nel luglio 1969. Proprio con la bella impresa del Tacul uscì, almeno transitoriamente, dal momento negativo.

Tra le belle realizzazioni di Motti nel 1968, c’è la prima ascensione della via di Guglielmo alla Torre Staccata del Becco di Valsoera. Proprio riguardo a questa via mi preme raccontare un piccolo fatto (tra i tanti) che dimostra come fosse radicato in lui il senso dell’amicizia. Nell’inverno successivo all’apertura dell’itinerario, con tre amici effettuai la prima salita invernale e Gian Piero, preoccupato della temperatura polare nella notte del nostro bivacco in parete, salì alla diga del Teleccio per chiedere al custode se aveva nostre notizie; alla risposta negativa si portò da solo fin sotto la parete nella speranza di scorgere qualche segno di vita. Non riuscì a vederci e ritornò a valle, ma restò vigile in attesa del nostro ritorno.

Da allora i momenti di riflessione e di crisi si produssero in lui con una certa periodicità, alternandosi a fasi di grande entusiasmo e di eccezionale vitalità. A volte sembrava che le conquiste che in me alimentavano ulteriormente la già esagerata voglia di scalare, in lui provocassero l’effetto opposto, inducendolo spesso a sospendere l’azione per rivolgersi alla riflessione e all’analisi critica di se stesso e del mondo dell’alpinismo. Quando si fermava, io aspettavo il suo ritorno senza commentare i suoi dubbi: troppa era l’amicizia che mi legava a lui per sentenziare. Semplicemente rispettavo le sue scelte di vita.

Nel più noto dei suoi scritti – I falliti -, apparso nel settembre del 1972 sulla Rivista Mensile del CAI, Gian Piero ci raccontò di una sua profonda crisi vista con gli occhi di chi faticosamente aveva raggiunto la verità. I dubbi che lo tormentavano non li rivolse solo a se stesso, ma li estese a tutto il mondo dell’alpinismo e ciò diede origine a un acceso dibattito e a qualche accenno di polemica, soprattutto da parte di chi credette di sentirsi chiamato in causa. A sentirsi toccati dall’articolo furono alcuni esponenti dell’alpinismo di origine proletaria che ha caratterizzato il “dopo Gervasutti” a Torino. Il loro era un alpinismo positivo, senza dubbi, vissuto anche come valvola di sfogo nella vita difficile del dopoguerra. Credendo di essere stati inclusi tra i “falliti” di Gian Piero, manifestarono nei suoi confronti un certo risentimento. Scrive 24 anni dopo Andrea Mellano, a commento di una riedizione dell’articolo: «… Allora fui tra i contestatori. Se sulle tesi di Gian Piero sull’arrampicata come esercizio ludico fine a se stesso ci trovavamo d’accordo, sulle riflessioni espresse in forma apodittica le nostre opinioni non potevano essere che diverse. Quelli della mia generazione, usciti giovanissimi dal periodo bellico e che avevano vissuto i duri ma esaltanti anni della ricostruzione, non si riconoscevano nel quadro generale dei “falliti” descritto da Gian Piero».

Sbarua (Pinerolo), via Gervasutti, 1a L. Gian Piero Motti, 19 marzo 1972

Quegli alpinisti scorgevano erroneamente in Motti, scalatore quasi a tempo pieno, un ritorno all’alpinismo borghese ed elitario, e reagirono criticando le sue tesi. A mio avviso non capirono molto di Gian Piero, e soprattutto non afferrarono la sua nuova interpretazione culturale dell’alpinismo rivolta a esaltare i grandi orizzonti offerti da questa attività, ma anche a sottolineare il rischio di emarginazione corso da chi in essa si identificava totalmente, perdendo di vista altri aspetti importanti della vita.

Gian Piero si colloca tra gli intellettuali dell’alpinismo, ma è diverso dagli altri che lo hanno preceduto. Dalla letteratura alpinistica apprendiamo che gli intellettuali che praticarono questa attività trovavano in genere nell’alpinismo un rifugio dai conflitti interiori riguardanti altri aspetti dell’esistenza. Motti invece rovesciò sull’alpinismo, inteso come attività fondamentale della vita, tutti gli interrogativi del suo intelletto. Quello di cui sono certo è che le sue riflessioni non erano indirizzate agli scalatori “proletari” che lo avevano preceduto, ma a figure più vicine a lui, forse ai suoi stessi compagni di cordata e comunque a personaggi che scorgevano nell’alpinismo l’unica realizzazione importante, insoddisfatti della propria vita.

Gian Piero accenna nell’articolo a un lavoro che gli dava soddisfazione e gli lasciava del tempo libero; si trattava di due rappresentanze nel campo dei materiali e degli indumenti per l’alpinismo. Mantenne tale attività per un paio di anni circa, e come sempre la svolse in modo esemplare. Mi capitò di accompagnarlo in qualche negozio sportivo ed ebbi modo di costatare quanto fossero apprezzate le sue visite: era prodigo di indicazioni utili e molti si affidavano ai suoi consigli per migliorare l’allestimento delle vetrine.

Come si evince anche da I falliti, il periodo a cavallo del 1972 è stato probabilmente uno dei più sereni e creativi nella vita di Gian Piero; quell’anno ci scatenammo a scalare le pareti delle Prealpi francesi che nessun italiano aveva ancora esplorato. Fu per noi una felice scoperta, che pubblicizzammo con numerosi scritti, tanto che in breve tempo molti altri seguirono le nostre tracce.

Nell’autunno dello stesso anno scoprimmo il Caporal e la Valle dell’Orco, e grazie allo spirito innovatore di Gian Piero si diede inizio all’era da molti mitizzata del Nuovo Mattino, che tanto ha fatto scrivere e parlare negli anni a seguire.

Gian Piero compiva salite anche durante la settimana, reclutando studenti che potevano disporre di tempo libero. Dopo qualche scalata però sentiva la necessità di sospendere l’attività alpinistica e di allontanarsi dalla montagna. Per le vacanze estive avevamo grandi progetti e iniziammo bene con la parete ovest delle Petites ]orasses, ma all’appuntamento successivo, due giorni dopo l’ascensione, egli si presentò vestito elegante, con la nuova fidanzata e i genitori di lei, in partenza per un viaggio turistico in Europa (la storia con Marina, ricordata in alcuni suoi scritti, era da tempo finita). Mi pregò di scusarlo dichiarandomi che per il momento era sazio di montagna e sentiva la necessità di un’interruzione. Lo conoscevo bene e non rimasi troppo contrariato, anzi mi diedi da fare per trovare un altro compagno. Fui invece molto sorpreso nel vedere Gian Piero così inserito in un quadro di famiglia, ma quella condizione non durò molto.

Enrico Camanni e Gian Piero Motti. Foto: G. Rinaldi

Nella prima metà degli anni Settanta per Motti non ci fu solo l’alpinismo attivo: le sue attività professionali e culturali furono almeno di pari importanza. Fu tra i fondatori e i principali collaboratori della neonata Rivista della Montagna, collaborò a lungo con De Agostini per l’Enciclopedia della Montagna, collaborazione che culminò con l’edizione della migliore Storia dell’alpinismo mai pubblicata. Contemporaneamente iniziò il rapporto con la Fila di Biella, stringendo legami di profonda amicizia con Enrico Frachey, che ne era l’amministratore, e con Giorgio Bertone, la forte guida valsesiana consulente tecnico dell’azienda tessile. Gli impegni divennero tali che Gian Piero lasciò le rappresentanze di articoli sportivi. Malgrado ciò riuscì ancora a scrivere testi tecnici divulgativi di grande qualità, come le esemplari dispense per gli allievi della Scuola Gervasutti.

Venne invitato a far parte del Groupe de Haute Montagne francese, il celebre GHM, entrò in contatto con alcuni dei più noti scalatori dell’epoca e molto discutemmo delle loro imprese. Da buon storico era sempre obiettivo nel riconoscere l’effettivo valore degli scalatori di punta, di qualunque tendenza essi fossero, ma il suo favore era orientato maggiormente alle figure anticonformiste e in misura minore verso i rappresentanti del filone eroico-romantico della tradizione italo-germanica. Il suo interesse era rivolto soprattutto verso gli scalatori californiani, gli alpinisti del Regno Unito e alcune figure dell’alpinismo francese, primo fra tutti René Desmaison. Una particolare attenzione era poi riservata agli idealisti puri come Gaston Rébuffat, del quale divenne ottimo amico.

Come ho già accennato, operando con la Fila ebbe modo di frequentare Giorgio Bertone. I due si erano conosciuti alla Scuola Gervasutti, Giorgio nella veste di istruttore (prima di diventare guida) e Gian Piero come allievo. Dopo l’incontro in Fila effettuarono insieme alcune difficili scalate come lo spigolo degli Scoiattoli alla Cima Ovest di Lavaredo, e in Giorgio nacque una stima profonda per Gian Piero sia come scalatore che come persona. Quando Bertone, con Renzino Cosson, compì il giro di arrampicate negli Stati Uniti culminato con la prima salita italiana alla via del Naso al Capitan, affidò a Gian Piero l’onere di preparare una conferenza che risultò assai interessante e che diede risposta a molte nostre curiosità sull’alpinismo americano. Dietro la voce di Giorgio che commentava le immagini, era chiara la regia di Gian Piero nell’interpretazione dell’arrampicata californiana.

Sembrava che Gian Piero avesse raggiunto il proprio equilibrio: successo nelle attività professionali, stima da parte di tutti e attività alpinistica ad alto livello malgrado qualche interruzione. Quando si parlava di lui in sua assenza, qualche volta emergeva una traccia di invidia da parte di chi doveva strappare con i denti il tempo per le scalate a un lavoro poco gratificante.

Poi ci fu la sua scomparsa a Ceresole Reale nel 1975. Mi pare ancora di vedere la sua Mercedes abbandonata in una curva, sul bordo della strada. Seguirono cinque giorni di inutile ricerca, con decine e decine di amici e sconosciuti accorsi da ogni dove, sparsi a cercare tra la Valle dell’Orco e la Val Grande di Lanzo. Nulla, era sparito. Ogni tanto ritornavo a guardare la macchina abbandonata quasi per interrogarla, per cercare qualche ispirazione. Avevamo perso ogni speranza di ritrovarlo in vita quando al quinto giorno, mentre mi accingevo a salire con Bertone sull’elicottero per l’ennesimo giro di perlustrazione, arrivò la notizia: Gian Piero era ricomparso a Breno, il “suo” villaggio in Val Grande, stremato ma vivo. Tutti tirarono un grande sospiro di sollievo. L’angoscia svanì come per incanto, ma presto cominciarono gli interrogativi: cosa era successo? Dove era stato? Perché era scomparso?

Queste domande non ebbero mai risposta. Ho sempre rispettato la riservatezza del mio amico e non gli ho mai rivolto alcuna domanda su quell’avvenimento né allora né anni dopo, in un periodo di confidenza tra di noi, quando ritornò ad arrampicare con me accompagnato dai suoi giovani amici-discepoli.

Altri invece azzardarono delle risposte, avanzarono insinuazioni, espressero critiche. Gian Piero ne uscì profondamente amareggiato; in una lettera toccante che mi scrisse circa cinque anni dopo disse: «Discutere, spiegare, ribattere, non serve a nulla. Così già nel giugno del ’75 dovetti tacere in silenzio e subire con tanta amarezza insinuazioni, calunnie, cattiverie di ogni sorta. E poi via di seguito. Mi consola una cosa: che quando un giorno apparirà la verità (e apparirà) sarà la sua forza a tappare la bocca a tutti».

Anche se non lo dimostrava, Gian Piero era estremamente sensibile alle critiche; dopo la vicenda della sua scomparsa patì molto i giudizi un po’ maliziosi di alpinisti che egli considerava amici, ne uscì amareggiato e si propose di allontanarsi da quel mondo che era stato così importante per lui. Una sera a casa sua, dopo aver parlato di musica, di uomini e di scalate, mi disse di aver chiuso con l’alpinismo e regalò a Claudio Sant’Unione e a me il suo materiale d’arrampicata. Usai per un po’ il suo martello Chouinard che tanti chiodi aveva piantato, poi gli trovai migliore collocazione tra i materiali tecnici del Museo della montagna allora in allestimento.

Un giorno incontrai Gaston Rébuffat e parlammo di Gian Piero; il celebre scalatore francese mi disse che era preoccupato e dispiaciuto per una lettera del nostro comune amico nella quale gli scriveva che avrebbe distrutto tutte le sue fotografie di montagna. Per Gaston, grande idealista della montagna, era una grave decisione che lo rattristava molto.

Alessandro Gogna su la Via di Guglielmo, Becco di Valsoera. 19 ottobre 1969

In realtà Gian Piero non fu del tutto coerente nell’attuare il suo proposito di allontanarsi dall’alpinismo; per un po’ si isolò effettivamente e lasciò anche gli impegni di lavoro che da quel mondo traevano origine, ma poi, poco alla volta, ritornò. Riprese a frequentare alcuni dei suoi amici, ricominciò ad arrampicare e a scrivere di montagna. Senza neanche volerlo ricominciò a essere un punto di riferimento per molti giovani scalatori emergenti.

Collaborò con entusiasmo con Roberto Bianco, Corradino Rabbi e me a realizzare il rivoluzionario numero di Scandere 1979 (annuario della Sezione del CAI di Torino) e, stipati sul suo fuoristrada, girammo il Piemonte e la Lombardia a tenere conferenze per diffondere la pubblicazione e rientrare delle spese. Il bilancio si chiuse in utile e con il surplus festeggiammo con una grandiosa cena in un ristorante di lusso.

Un bellissimo ricordo accompagna il periodo seguente alla mia spedizione al Changabang del 1981. Gian Piero era sempre circondato da un gruppo di giovani amici che lo seguivano e ammiravano come un maestro. Ricordo che una sera, ritornando a casa sua dopo una cena, trovammo una delle ragazze del suo gruppo seduta sui gradini del portone; era lì da molto tempo ad attendere Gian Piero, salì con noi e poi, mentre i nostri discorsi spaziavano su vari temi, stette a lungo, seduta sul tappeto, a seguire in silenzio ammaliata dal “Principe”.

Nell’inverno e nella primavera che seguirono portammo spesso questi ragazzi ad arrampicare; erano alle prime armi e Gian Piero quasi sempre affidava alla mia cordata le ragazze del gruppo.

Continuammo a sentirci e a vederci fino alla sua morte nel giugno del 1983. Io lo informavo delle mie salite, commentavamo gli avvenimenti alpinistici e ogni tanto arrampicavamo insieme a Caprie e in altri luoghi a bassa quota. Quando mi trovavo a scalare nel Vallone di Sea, in Val Grande di Lanzo, passavo sempre dalla sua casa di Breno e se c’era si beveva un bicchiere di vino, si parlava e spettegolava del mondo alpinistico: a volte scherzosamente, altre in modo molto serio. Tutto questo fino a pochi giorni prima della sua morte.

Un giorno ero al lavoro nel mio ufficio quando un amico al telefono, con voce rotta dai singhiozzi, mi comunicò che Gian Piero si era tolto la vita. Lo aveva fatto lontano dai luoghi abitati, lungo una sperduta stradina della Valle di Lanzo. Il mio primo sentimento fu di dolore, poi provai sorpresa e incredulità: per me gli stati d’animo alterni di Gian Piero non erano una sorpresa, ma, pur avendolo visto poco tempo prima, non mi ero reso conto della drammatica decisione che stava maturando in lui.

Quanto ho scritto è solo una parte di ciò che è stato il personaggio; altre cose mi vengono in mente, anche se non sarei comunque in grado di spiegare gli aspetti più misteriosi che avvolgono la sua figura. Le sue stesse parole saranno più chiarificatrici. Sono lieto che i suoi scritti siano stati finalmente pubblicati in un’unica raccolta: chi non lo ha conosciuto ora ha modo di rivivere le emozioni dell’avventura umana di un protagonista di eccezione.

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Postfazione a I falliti ultima modifica: 2019-03-13T05:40:33+01:00 da GognaBlog

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8 pensieri su “Postfazione a I falliti”

  1. Grazie a questo blog e dei suoi scritti bellissimi.

    L’articolo di Manera su G.Piero Motti è meraviglioso,in alcuni passaggi commovente.

    Grazie a questo blog……non perdo una sola riga.

  2. Sono grato a gogna che col suo blog importantissimo, a dato voce ai mille ruscelli, estuari dell’immenso Lago di cultura montana che ci bagna a fasi alterne. In realtà il tuo contributo Ugo , (Manera) è stato nella fattispecie per me estremamente coinvolgente. Oltre che chiarificatore per certi versi.

    Chi ha avuto la fortuna di conoscere i grandi attori dall alpinismo di quell’epoca può dare , come stai facendo tu un significativo contributo ai giovani scalatori d’oggi. Scrivendo qui. Grazie

  3. Ugo , sei proprio come i grandi vini : invecchiando migliori !

    C’era bisogno di questo articolo e tu eri l’amico più idoneo a scriverlo.

    Amico leale e quasi innamorato hai saputo usare le giuste parole per sottolineare i talenti culturali ed alpinistici di Gian Piero , lasciando però intuire con delicatezza anche le sue debolezze umane. Bravo , un buon ritratto veritiero !

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