Alpinismo: un gioco, ma non uno scherzo (1)
di Stefano Rellini
(pubblicato su Rivista della Sezione Ligure del CAI, n. 1-2021)
Ultimamente, sono stato cliente di un anziano barbiere di Milano, il quale mi ha confessato di essere in procinto di cedere la sua attività, avendo intenzione di continuare a lavorare, ma solo ‘per gioco’. Riflettendo su questa confessione, mi sono infine convinto di come il gioco sia la motivazione più libera e consapevole dell’uomo. Ed anche la componente che rende l’attività alpinistica così appagante, sebbene notoriamente ‘inutile’, nonché indiscutibilmente pericolosa.
Quanto sopra, purché non si confonda il gioco dell’alpinismo con lo sport dell’arrampicata. D’altra parte, l’arrampicata è ormai a buon diritto nel novero delle discipline olimpiche; ma altrettanto non è successo per l’alpinismo. Storicamente, è esistito un esperimento in tal senso nell’ex URSS; inoltre, in Italia abbiamo avuto un’epoca in cui si distribuivano medaglie al valore atletico anche agli alpinisti (la prima delle quali fu assegnata a Raffaele Carlesso, per la sua via di sesto grado alla Torre Trieste) con conseguente aspro dibattito interno al CAI (all’epoca “Centro Alpinistico Italiano”) per giungere alla definizione di una scala uniforme di valutazione delle difficoltà (2).
Lo sport, infatti (quantomeno nel senso più moderno e meno anglosassone del termine) vive di regole intese come convenzioni, di misurazioni, e conseguenti classifiche. Pertanto, è un’attività che si svolge in contesti tendenzialmente oggettivi e spiccatamente sociali, con chiara tendenza alla spettacolarizzazione. L’alpinismo, invece (come anche i giochi spontaneamente praticati dai bambini), credo viva di regole intese come convinzioni, di sfide con se stessi, e conseguenti esperienze di carattere più personale. È ben vero che tali esperienze si prestano ad essere comunicate e condivise, ma ciò di solito presuppone una certa elaborazione, di carattere per lo più letterario, con risultati che (almeno nelle intenzioni) vanno oltre il mero esibizionismo, oggi così tanto diffuso anche grazie ai social network (3).
Devo dire che la mia passione alpinistica è sbocciata come tante altre, e cioè con la voglia di confrontarmi con le grandi montagne, e l’ambizione di costruirmi un piccolo curriculum. E devo dire anche che, pur avendo iniziato a praticare l’alpinismo in età piuttosto tarda, avrò anch’io qualcosa da raccontare ai nipoti, sia per quanto riguarda un bivacco imbragato e appeso sulla cengia di Lotta continua (aspettando l’alba per completare la salita della parete nord del Pizzo d’Uccello) sia per quanto riguarda una notte in tenda sul ghiacciaio al Col du Midi (per riprendere le forze, e proseguire in traversata verso l’Italia, al rientro da un tentativo sulla via dei Trois Mont Blanc). Oppure come quando, con un compagno più giovane (ma inesperto tanto quanto me), decidemmo di salire in punta al Monviso in giornata, partendo all’una di notte da Pian del Re. A un certo punto, però, ho scoperto il gusto di questo alpinismo più in miniatura, e magari anche a due passi da casa. Così è stato che neppure un lungo soggiorno a Milano per ragioni di lavoro (con le storiche Grigne e le cattedrali di granito delle Alpi centrali più a portata di mano) è servito a distogliermi da questo eccentrico gioco.
A giudizio di illustri sociologi, la nostra società si caratterizza ormai per la forte propensione a impiegare il tempo libero in attività che presuppongono un forte consumo di tecnologia, nonché un massiccio utilizzo di infrastrutture e attrezzature, anche di carattere comunicativo (4). Il tutto, ovviamente, con la scusa di difendere veri ‘Valori’, quali la sicurezza, l’inclusività, il diritto di auto-realizzarsi, il politicamente corretto, il religiosamente accettabile, e chi più ne ha, più ne metta…
Le attività sportive, naturalmente, spopolano, insieme ai nuovi strumenti digitali che assicurano riconoscimento sociale e ritorno d’immagine anche a vere e proprie ludopatie, purché nel rispetto del moderno slogan “Gioca responsabilmente”. In questo contesto, l’alpinismo autentico arranca, e chi lo pratica in forme minori nei fondovalle (in Liguria si direbbe ‘sui bricchi’) deve quasi vergognarsi e ritrarsi, incalzato da domande del tipo “Che grado fai”, o “Perché non sei mai stato in Himalaya?”. Nessuno, invece (con la significativa eccezione dei lettori di questa rivista) che abbia voglia di sentirsi raccontare le rocce del Beigua al tramonto d’inverno (che sembrano quasi prender vita e muoversi!) a meno che non lo si faccia ‘postando’ un’immagine di qualche migliaio di megapixel.
Di qui forse la mia ostinazione a relazionare le vie con una scala UIAA ‘semplificata’, che utilizza solo il mezzo grado superiore (certamente più adatta a raccontare un’emozione, piuttosto che a misurare una prestazione) per poi pubblicare i testi su una piattaforma on-line, che utilizza delle griglie molto simili agli antichi bollettini del CAI (con prevalenza quindi dell’aspetto esplorativo e tassonomico, su quello sportivo ed esibizionistico).
Ma che senso ha tutto questo? Invocare l’esigenza di avere anche voci fuori dal coro (sempre per spirito di inclusione, quasi fosse una specie di biodiversità) non mi soddisfa affatto giacché, anche chi canta fuori dal coro, alla fine, deve pur essere intonato…
Nel titolo, forse, sta già la risposta. Il gioco dell’arrampicata figlio dell’alpinismo, infatti, deve essere distinto non solo dall’arrampicata come sport, ma anche dall’arrampicata come mero divertimento o ‘scherzo’. lo non vado in montagna (piccola o grande che sia) perché mi diverto (o perché soffrire è il mio modo di divertirmi, come alcuni sottilmente arguiscono). Semplicemente non posso farne a meno. E non è la mia droga: è il mio ossigeno. È il mio modo di vivere; altro non ne conosco e non ne voglio conoscere. Anche i bambini, d’altra parte, non giocano certo per ‘divertirsi’; in effetti, non possono fare a meno di mettersi alla prova, e di confrontarsi con situazioni per loro chiaramente ostili o incognite (poco importa se si tratta di esercizi di realtà o di pura fantasia) per ricavarne semmai – ma solo alla fine – un certo sollievo (5).
Note
1) II titolo di questo articolo è ripreso dall’autobiografia di Roberto lannilli, morto assieme al suo compagno di cordata Luca D’Andrea nel 2016, nel tentativo di aprire una via sulla parete nord del monte Camicia, nel gruppo del Gran Sasso (Roberto lannilli, Forse accadde così. Alpinismo: un gioco ma non uno scherzo, Alpine studio, 2011).
2) In proposito, Vittorio Varale, La battaglia del sesto grado, Longanesi, 1965.
3) La distinzione è tanto chiaro in linea di principio, quanto confusa nella pratica, come dimostrano le imprese in free-solo di Alex Honnold (tradotte in opere cinematografiche di grande effetto) o ancor più discutibili esperimenti di reality-show, tipo la trasmissione televisiva Monte Bianco, condotta da Simone Moro.
4) Mi riferisco soprattutto al recente libro di Luca Ricolfi, La società signorile di massa, La nave di Teseo, 2019, alle pagg. 93 e 167.
5) In proposito, così ricorda il più conosciuto alpinista genovese, ormai quasi al termine del suo notevole percorso: “Ero un bambino di quattro-cinque anni, vivevo in una casa di campagna dove c’era un muro a secco alto approssimativamente 8 metri. Sentivo l’impulso di salire questo muro, non so per quale ragione. Non certo per fare alpinismo, ma forse perché lo sentivo come un confine o forse come una cosa proibita… in poche parole [l’avventura in montagna] è ritrovare il bambino che è nascosto dentro di noi. Altrimenti, ragionando freddamente su questo problema, nessuno di noi andrebbe a ficcarsi a 30 gradi sotto zero, con il respiro corto e con uno zaino di 20 chili sulle spalle, rischiando la propria pelle, il proprio corpo, la propria vita, se non per ritrovare le sensazioni che provava quel bambino a salire quegli 8 metri di un muro di casa propria solo per vedere un orizzonte un pochino più ampio” (Pietro Tarallo, Gianni Calcagno, Tormena Editore, 1994, pagg. 168-169).
L’arrampicata tradizionale, secondo me
di Giovanni Pizzorni
(pubblicato su Rivista della Sezione Ligure del CAI, n. 1-2021)
Prima di iniziare questo articolo, per non rischiare inesattezze e, più che altro, per non generare un polverone fra le varie interpretazioni che si possono dare all’argomento, ho pensato bene di documentarmi per cercare di chiarirmi le idee e affrontare la trattazione con cognizione di causa. Il risultato che ne è scaturito è desolante dal momento che, anche sui siti specializzati, le differenti interpretazioni sono alle volte chiare ed evidenti ma, molto più spesso, subdole e fuorvianti. Per questo motivo citerò integralmente la descrizione del termine arrampicata tradizionale tratta da un articolo scritto da uno dei migliori arrampicatori anglosassoni: Steve McClure. Poi, libero da vincoli, vi racconterò che cosa è la mia arrampicata tradizionale.
L’arrampicata tradizionale (di seguito trad) può essere definita come “Salire vie protette da attrezzature posizionate nelle strutture naturali offerte dalla roccia“. Quindi, per esempio, i friend nelle spaccature, i nut nelle fessure, i chiodi a infissione nelle fessure più profonde. Poi, ovviamente, fettucce e cordini attorno a spuntoni, sassi incastrati, clessidre. Se ci pensate bene, non c’è molto di nuovo poiché è quello che si è sempre fatto arrampicando in montagna sulle vie a più tiri. In sostanza è quello che i francesi chiamano “terreno d’avventura” e, con questa terminologia, a mio parere hanno trovato il bandolo della matassa.
“Gli ostacoli vengono affrontati man mano che si incontrano, decidendo quali protezioni usare, calcolando la misura necessaria, andando a piazzarle (male) e poi dovendo lottare per riprenderle visto che le stesse, si sono incomprensibilmente incastrate. Dobbiamo tirarle? Ne abbiamo portate a sufficienza? Così tante domande e tutte che ricevono risposta man mano che ci si muove. Ecco, questa è per me l’arrampicata tradizionale nel suo senso più puro: tutta la sfida offerta dalla via e tutte le sue difficoltà vengono affrontate nello spazio di tempo tra il momento in cui si abbandona il terreno alla base e quello in cui si arriva alla cima“. Parola di Steve McClure.
Questo modo di affrontare la montagna mi piace perché non c’è nulla di scontato, nulla di sicuro. È una ‘battaglia’ leale dove hai speranza di vittoria solo dando il meglio di stesso nel rispetto di regole che tu stesso hai stabilito. In altre parole, ognuno sceglie lo stile seguendo il limite del proprio istinto di sopravvivenza.
Appare chiaro che l’avventura, nella sua accezione più pura, si manifesta nella sua travolgente bellezza nel momento in cui ti cimenti nell’apertura di una nuova via. Un percorso che hai avuto modo di vedere da molte angolazioni ma che cela in sé la primaria domanda circa la possibilità di percorrerlo. Soltanto la sua percorrenza permetterà di svelare il mistero, e allora non resta che indossare l’imbragatura, selezionare il materiale e incominciare la scalata.
Questa è l’etica, adesso occorre definire le regole di ingaggio. Non c’è niente da fare, le regole di ingaggio sono le dirette conseguenze di quello che in precedenza ho definito il limite del proprio istinto. Tanto più si è bravi e tanto più rigorosi saranno i paletti che ci imporremo. Queste sono le mie regole:
1) Nella ricerca delle linee di debolezza della montagna, cercare di tracciare percorsi lineari.
2) Sfruttare al massimo le protezioni veloci.
3) Se questo non è possibile, usare chiodi a infissione.
4) Se la sicurezza lo impone, essere disposti anche a installare chiodi a espansione (spit)
5) Il tutto si fa rigorosamente dal basso.
Compatibilmente con le mie capacità arrampicatone, queste sono le regole che mi sono imposto. Se ne può sicuramente discutere ma, prima di lanciarsi in discorsi avventati, è meglio valutare sul campo ciò che ‘realisticamente’ si può attuare. Faccio un esempio chiarificatore: durante l’apertura di una nuova via, a un bel momento mi sono trovato nella situazione di avere l’ultima protezione a due metri sotto i miei piedi e constatare amaramente l’impossibilità di installare una protezione veloce. Unica alternativa un chiodo. La tragica sequenza di cercare quello giusto, posizionarlo nella fessura (ovviamente era talmente precario da non rischiare di perdere l’unico chiodo giusto per quella fessura), tenerlo con una mano e martellarlo con l’altra è finita con il piede che è scivolato e una violenta martellata sul dito invece che sul chiodo! La via si chiama Dito nero, la falange risultò sfracellata e tutto per un misero passo di 5b… Provare.
Da questa simpatica storiella si deducono una serie di assiomi che dovrebbero farci riflettere sul definire regole di ingaggio e parametri etici molto rigorosi, a meno di non essere dei fuoriclasse e avere margini sul grado molto ampi. Quello che voglio dire è che fare i puristi a Finale continuando a tirare voli su di un chiodo resinato, anche se stiamo provando un grado elevato, è relativamente semplice. Cosa ben diversa è muoversi avendo alle spalle la consapevolezza di aver piazzato due o tre protezioni ‘aleatorie’ e davanti agli occhi l’incertezza di un percorso inesplorato. Se ci sfiora anche solo da lontano la cruda realtà di un volo che ci porterà al suolo, è meglio correre ai ripari molto prima.
Attenzione, a scanso di equivoci, ho il massimo rispetto per l’arrampicata libera e ammiro con una punta di invidia gesti che non sarò mai in grado di replicare. Quello che voglio far capire è che stiamo parlando di gesti apparentemente uguali separati da una invalicabile barriera culturale. Cito un commento che mi pare quanto mai chiarificatore: “Il trad è solo un modo diverso di approccio alla scalata che allena quella parte di noi (cervello) che non viene ottimizzata con elevate percentuali come avviene invece per il resto del nostro corpo (muscoli)“. In definitiva mi pare che McClure ci inviti ad esplorare le nostre capacità psichiche attraverso la conoscenza dei nostri limiti.
Non sono un amante della cultura anglosassone ma ne ammiro immensamente lo stile. Stile che cerco di replicare durante le aperture di nuove vie, ahimè, alle volte, scendendo a compromessi non molto edificanti. È il prezzo da pagare se si vuole elevare il grado di difficoltà e, in termini arrampicatori, si è delle ‘mezze pippe’. Fino a quando ci si muove sul 5b/5c (è il grado dove mi muovo con relativa tranquillità – per un arrampicatore da falesia, questo è un grado ridicolo…) riesco a fare tutto dal basso. Quando il grado sale mi vedo costretto a calate dall’alto per andare a mettere protezioni (chiodi, cordini, ecc.) che altrimenti non sarei in grado di installare. Altre volte faccio un uso ‘violento’ di artificiale per poi riprovare, una volta installato un chiodo più in alto, in libera. C’è da dire, a mia parziale discolpa, che in molte delle mie aperture mi sono cimentato in solitaria e questo, in termini di difficoltà, mitiga un poco le ‘bassezze’ in altri contesti.
Concludo con due ulteriori giustificazioni al mio operato sulle vie aperte negli ultimi anni. La prima riguarda le soste che, in tutte le mie vie sono realizzate con un doppio ancoraggio a espansione. Su questo fatto non transigo. Lungo la via, la collocazione dei punti di rinvio impone quasi sempre la padronanza del grado ma, una volta in sosta, il recupero del secondo (che potrebbe non avere le stesse caratteristiche del primo di cordata) deve essere fatto su ancoraggi affidabili. La seconda riguarda le vie che, ormai, potremmo definire delle classiche. Facendomi non poca violenza su ogni tiro ho installato almeno un ancoraggio a espansione per garantire quella ‘tranquillità’ che, altrimenti avrebbe garantito una scarsissima percorrenza.
Dobbiamo rassegnarci al fatto che siti di arrampicata come il Finalese hanno creato una sudditanza da ancoraggio ‘a prova di bomba’ che difficilmente potrà essere scalzata. Come ho detto in altre occasioni, prepariamoci a generazioni di fantastici arrampicatori e di mediocri alpinisti.
Buone salite.
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Personalmente mi stanno un po’ sulle balle tutte le classificazioni e sopratutto la proliferazione di categorie e sottocategorie che ormai pare diventata ineluttabile.
E che è perlopiù inutile, come appare nel bel articolo di Cominetti sul “vero” freeride.
Su una cosa però potrei essere d’accordo con Pizzorni: “prepariamoci a generazioni di fantastici arrampicatori e di mediocri alpinisti.”
Riflessione che mi è venuta in mente passando sotto le nord di Lavaredo senza vedere una solo, singola cordata in una giornata perfetta e ricordando di aver rinunciato ad attaccare la Cassin 3 volte negli annio ’90 perché c’era troppa gente davanti…non so se e come le cose siano correlate, ma è evidente che in montagna c’è sempre meno gente che arrampica mentre le falesie o le vie “multipitch” e “plaisir” (altre categorizzazioni deprecabili!) sono sempre più frequentate.
Ciò non significa che l’alpinismo sia morto, visto che si succedono realizzazioni quasi fantascientifiche, ma che agonizzi un certo modo di vedere, frequentare e “perdersi” in montagna
Dedicarsi all’alpinismo tecnico di oggi senza “usare” l’arrampicata sportiva è praticamente impossibile. Senza la base tecnico-fisica che l’arrampicata, su muro artificiale e/o in falesia, si corrono molti più rischi, specialmente su vie facili. Facendo la guida mi capita di vedere quasi ogni giorno cordate su vie facili (fino al V grado) che si capisce che i componenti non arrampicano mai anche solo per prepararsi/allenarsi e si muovono su quello che è il loro limite a ogni passaggio. Una caduta su una via facile (cosa che può capitare a chiunque, sia chiaro) può avere conseguenze molto più gravi che su una via più difficile e quindi verticale e con chiodatura più ravvicinata. Anche l’uso delle protezioni veloci richiede scaltrezza, occhio e grande manualità, tutte caratteristiche che l’arrampicata sportiva allena a meraviglia.
Poi ci sarà chi si allena sotto al pergolato con i tutorial di youtube anche all’alpinismo free solo ma lì siamo nell’onanismo fantascientifico- casalingo- sabaudo-multiletterario-metalmeccanico-corazzato-protoviaggiante-visioncozzante e compagnia cantando, paraponziponzipò.
Sono in gran parte in disaccordo con Pizzorni, oggi, anche grazie alla arrampicata sportiva vedo e incontro giovani alpinisti che non hanno nulla di mediocre, ma che si allenano anche mentalmente su grandi pareti proteggendosi con mezzi tradizionali, praticano un alpinismo moderno che è l’evoluzione di quello classico. È certo che per fare questo si allenano con costanza e dedizione, praticano un gioco che a volte è fatto di spensieratezza e diverte a volte fa soffrire così come la vita.
Purtroppo scrivo di fretta e spesso troppo sintetico colpa del poco tempo per poter esser chiaro e capito da tutti.
Ho forse alimentato la confusione che mi pare regni da illotempore nei modi e metodi più o meno etici dell andare in croda ,come diciamo quassù insomma arrampicare.Intendevo solamente essere d accordo con il commento nr 6 nella totalità e che vi leggevo cose nate con il più ovvio modo di frequentare vie nuove o già aperte nel mio passato ,grazie della precisazione ci vuole chiarezza e se non servono anche meno spit che creano sudditanza e a quanto pare dipendenza. Con simpatia un saluto dal Cadore.
Non è proprio così dal momento che gli spit stanno fiorendo oramai da anni sulle vie classiche
@6 il Sig. Cominetti mi trova super d’accordo.Trad potrebbe stare per Tradimento,Traduzione, ,Tradizionale o Tradotto anche con;…”tu giri con le tette al veeentooo,io ci giravo già 20 + 20 anni fa!
@6: forse il termine Trad e’ nato quando soprattutto in Inghilterra alcuni hanno iniziato a salire con protezioni tipo dadi e friend vie monotiri di alta difficolta’, ma per il resto concordo che non vi sia differenza con il salire proteggendosi come si e’ sempre fatto.
Come spesso mi accade, comincio a leggere articoli su questi argomenti pieno di aspettative che rimangono poi disattese. Nulla che non si abbia già letto, pensato o vissuto. Molti arrampicatori sentono il bisogno di esplorare le ragioni del proprio modo di arrampicare, dimostrando infine che si vuole personalizzare e complicare quello che invece è condiviso con tutti ed in realtà più semplice di quanto si voglia far credere. Ma ci sta; è comunque giusto farci domande su quello che la nostra passione ci porta fare non senza mettere a rischio la nostra incolumità
Primi tentativi in pianura, ne ipressi della casa dei nonni.
https://rovigo.italiani.it/il-metano-in-polesine/
in alterenativa abbondano pure oggi vecchi silos in cemento, quasi pronti, con scalette e parte interna ed esterna.
A proposito della nota 4, mi vien da confrontare l’attrezzatura per sci fondo di seconda mano usata da giovani amici del mio giro in anni 70 e quella moderna per ski alp,usate negli stessi percorsi classici, l’abbigliamento e pure la ferramenta. Mi ricordoquando di riotornao da spesa in citta’ esibbi il primo dissipatore a 6 fori .Persino reflex ed obbiettivi totale 1,5 chili a fronte di gadget tutto fare entrouno o due etti.Un buon fisico in salute ed allenato e’sempre una buona base di partenza.
Il Trad è uno stile che si è sempre praticato. Ma spesso per moda, per ignoranza, per usanza, si tende a distorcere la storia e il vero significato delle cose. Oggi si definisce così uno stile che se fatto nel vero senso del termine, andrebbe invece chiamato Clean climbing
A parte il nome esotico qualcuno può spiegarmi cos’è l’arrampicata trad? O meglio, se c’è qualche cosa che non faccio già quando scalo una classica o meno classica via su roccia dove aggiungo protezioni amovibili laddove lo ritengo necessario. L’alpinismo su roccia non è da secoli “arrampicata trad”?
Sull’articolo mi viene da pensare che sarebbe come se mi mettessi a discutere di calcio senza averne capito mai un cazzo, ma avendo dato in gioventù pochi (ma proprio pochi) calci a una palla.
Da mediocre arrampicatore, e altrettanto mediocre alpinista, mi sento di dire che se l’articolo è in parte condivisibile per quanto riguarda l’allenamento mentale e le motivazioni della pratica dell’alpinismo, lo è un po’meno per il resto. Certo non tutti i climber da grado alto troveranno le motivazioni interne per trasferire la loro tecnica sui monti, ma ci sono diversi esempi anche recenti di personaggi usciti dall’arrampicata sportiva che hanno fatto in montagna cose impensabili fino a qualche anno fa… bisogna solo accettare che i tempi cambiano, un po’come quando i ragazzi in sneakers che passeggiavano sul VI° erano mal visti dai “vecchi” che salivano il IV° scarponi
Concordo con Enri. Questi discorsi mi sembrano quelli dei preti della mia giovinezza sul sesso. 😁 C’è un’unica attività moralmente superiore: il rapporto sessuale completo a fini procreativi nell’ambito del matrimonio nella posizione del missionario. Rispose in modo definitivo e ineccepibile Woody Allen all’Imperatrice che lo lodava per le sue prestazioni: Maesta’ mi alleno molto da solo. Ogni attività ha un suo significato, risponde a bisogni diversi, genera sensazioni diverse e sviluppa capacità specifiche. È vero che ci sono individui che si specializzano, ma molti fanno cose varie, senza per questo cadere nella patologia denominata “polimorfismo perverso”. Sarebbe come dire che solo le regate d’altura o le grandi traversate oceaniche sono degne di bravi marinai, non le regate a triangolo in un golfo protetto. Intanto bisognerebbe provare a vincere una regata a triangolo con le barche moderne e sentire cosa si prova, poi molti si ingaggiano su fronti diversi e una parte delle capacità tecniche che si acquisiscono sono assolutamente trasversali e trasferibili, come disse Woody Allen appunto. Anche i preti moderni, peraltro, hanno modificato il loro punto di vista sullo spettro delle pratiche sessuali moralmente accettabili, modificando in modo flessibile la tradizionale graduatoria. Forse qualcuno si trova ancora in certe sezioni del CAI ? Amen.
E da alcuni anni che al monte Procinto in Apuane mi diverto a salire le vie in stile TRAD.
Non è una novità, i primi esempi sono già degli anni 80, ma forse i tempi non erano ancora maturi, non si disponeva di tutta la varia e sofisticata attrezzatura che abbiamo oggi per proteggere la scalata, o forse non si pensava che la bella e forte roccia del monte Procinto fosse adatta a questo stile di scalata.
Invece lo è eccome! La roccia è decisamente articolata, ricca di buchi, fessure e ottime e robuste clessidre. Basta avere un buona scelta di frends, nuts e cordini da infilare e la robusta roccia calcarea del Procinto da sicurezza.
Le vie salite e risalite tante e tante volte fino ad impararle a memoria: la Dolfi-Rulli ; Tropicana, Gamm; Confessioni di una Strega; Effetti Collaterali Vertigine; Dolfi Melucci, regalano in questo stile un sapore diverso.
Mi spiace ma questa persona non ha capito nulla. Innanzitutto si puo’ essere dedicati a piu’ specialita’, io ho fatto alpinismo su calcare granito, ghiaccio, vie in artif, poi dedicato all’arrampicata sportiva senza perdere le altre specialita’ citate. Secondo leggo che e’ facile volare a Finale su un chiodo resinato e difficile salite un 5b proteggendolo? Ma che vuol dire tutto cio’?
Il signore in questione si metta sotto una trave ore al giorno per anni, faccia gentilmente qualche miglioramento rispetto al 5b di cui parla, perche’ se no nemmeno sappiamo cosa sia l’arrampicata sportiva, poi vada a Montecarlo al settore Jacob o a Ceuse o in Verdon e poi mi viene a dire se e’ cosi facile tirare voli su chiodi resinati. Per arrivare a moschettonare solo uno di quei resinati di cui parla sara’ stato necessario un percorso non solo fisico ma anche mentale che allo scrittore e’ sconosciuto. Tra l’altro, come molti di coloro che scrivono qui sanno benissimo, avere “nelle dita” certi gradi in arrampicata sportiva permette di muoversi piu disonvoltamente ed in modo piu’ sicuro su vie in montagna dove devi proteggerti. Mi chiedo come un articolo simile possa ancora uscire nel 2021…
Credo che i mediocri alpinisti di cui parla in chiusura dell’articolo non stiano fra gli “atleti” di cui parla…
Proprio oggi leggo di soccorsi ad alpinisti precipitati..in modo non letale ma con fratture e dolore atroce nel recupero e trasporto non ostante materassini speciali a vuoto-vacuum.In palestre indoor le pareti sono strapiombanti e se si cade non si sbatte su rocce , ma si rimbalza ad elastico smorzato e si viene calati. A meno che il trattenitore non si sia distratto.In gare viste in tv, l’assistente nel primo tratto prima di un aggancio a rinvio, fa da “portiere”, caso mai l’atleta cadaa nei primi metri.