Ruchin

Nello scorrere delle numerose proposte che la nostra rivista (Uomini e sport, NdR) ci ha posto davanti perché non ci sfuggisse il ricordo di quegli alpinisti ai quali, per molti motivi, dobbiamo riservare ancora la nostra ammirazione e la nostra riconoscenza, abbiamo normalmente incontrato dei personaggi il cui solo nome bastava/ almeno vagamente, a procurarci un illustre richiamo. Diversa risulta invece la citazione di altri alpinisti che si sono presentati in forma più semplice e modesta, non avendo di mira nessun ambizioso riconoscimento, pur avendo scritto sulla roccia pagine altrettanto esaltanti, che possono venire lette ora nell’interpretazione di una qualsiasi via di arrampicata legata al loro nome, dove la ripetizione esige doti non comuni e notevole preparazione, offrendo, in cambio di aspre difficoltà, entusiasmanti soddisfazioni.

A questa categoria di personaggi appartiene evidentemente l’alpinista di cui qui viene tratteggiata una accalorata sintesi della sua intensa attività, che si è svolta con un stile del tutto personale e una bravura tale da attirargli ancora tanta simpatia e attaccamento, che purtroppo a lui si indirizzano ora tardivamente.

Pizzo Badile e Pizzo Céngalo negli anni Quaranta del Novecento si prestavano ai blitz di Ruchin, qui in un momento di pausa di fronte alla testata della val Porcellizzo, in val Masino.

Ma comunque anche questo articolo rappresenta quel riconoscimento che intendiamo volentieri tributargli per l’eccellenza delle sue prestazioni e per l’immensa passione che ha sempre riservato alla montagna e alla pratica dell’alpinismo (Renato Frigerio).

GognaBlog ha già trattato la figura di Ercole Esposito, vedi https://gognablog.sherpa-gate.com/ercole-ruchin-esposito/. Ma ritiene che nel caso di Ruchin non sia mai abbastanza…

Ercole Ruchin Esposito
(breve storia di un piccolo grande alpinista)
di Luca Rota
(pubblicato su Uomini e sport n. 32, maggio 2020)

A chiedere ai più cosa possa loro venire in mente, nominando “Ercole Esposito”, c’è da supporre che ben pochi sappiano dare qualche buona risposta, salvo quelli che hanno buona memoria e altrettanta buona cognizione della storia alpinistica lombarda. O forse nemmeno questi, se si identifica il personaggio, di cui vi sto per raccontare, semplicemente con quel suo nome e cognome. Eppure, da par suo, il soggetto in questione è stato tra i più forti arrampicatori italiani della sua epoca, un rocciatore (come si diceva ai tempi) riguardo il quale nel 1942 sullo Lo Scarpone, l’organo ufficiale del CAI, si scriveva che «non sono molti oggi, in Italia, coloro che nel regno del puro VI grado gli possano stare alla pari». Una fulgidissima stella dell’alpinismo su roccia, dalla parabola tanto luminosa quanto troppo fugace: “breve” come la sua corporatura, ma capace di rendersi grandissimo, quasi leggendario attraverso un soprannome per molti aspetti evocativo: Ruchin. E a sentir questo nomignolo, che tutt’oggi identifica molte delle sue vie e ne certifica le peculiarità “speciali”, sono certo che molti più di prima intenderanno di chi sto per raccontare: Ercole Ruchin Esposito. Uno dei più forti scalatori del suo tempo, appunto, un tipino da «Un metro e quarantasette, quarantaquattro chilogrammi, tutto qui. […] Muscoli, cuore e volontà temprati a tutti gli ardimenti e consacrati a tutte le vittorie. Camminatore, sciatore, scalatore di tutte le vette; instancabile, coraggioso, tenace fino alla caparbietà; modesto, umile, semplice come nessuno», per usare di nuovo le parole de Lo Scarpone, prese da un articolo redatto da colui che divenne il principale cantore delle gesta arrampìcatorie di Ruchin, il concittadino Italo Neri, il quale ha contribuito a tratteggiarne una storia che ancora oggi, nonostante i quasi 80 anni trascorsi, resta per molti aspetti intensa, coinvolgente ed emblematica.

Esposito nasce il 30 marzo 1914 da una delle più conosciute famiglie di Calolziocorte (allora comune bergamasco) la quale, come tante altre, da tradizione locale, ha il suo bel pseudonimo: sono i Roch, in quanto la famiglia possiede una tornitura nella quale produce rocchetti di legno per filo. Da qui viene il suo soprannome Ruchin, con la forma diminutiva a segnalare la bassa statura e la corporatura apparentemente esile. Degli undici figli per i quali il padre Alessandro ha cura che imparino un mestiere “buono”, Ercole è forse il più vivace, tant’è che il suo maestro elementare lo rimbrotta spesso: «Sei alto come un soldo di cacio, e mi dai tanto da fare. Discolo come sei, non farai mai carriera!». I calolziesi di allora sono tutt’altro che gente ricca, e gli Esposito non fanno certo eccezione. Ma il borgo ha la paesaggistica fortuna di stendersi ai piedi di bellissime montagne, come il Resegone, Valcava, l’Albenza, con le Grigne poco oltre: “inevitabili” (anche perché pressoché unici) luoghi di svago domenicale. Ercole comincia dunque a frequentare le associazioni escursionistiche calolziesi, inizialmente da sciatore e poi cominciando ad affrontare le prime rocce, probabilmente da autodidatta, ovvero da spettatore delle cordate impegnate sulle pareti della Grignetta.

Ma se in questi primi momenti montani prende forma e acquisisce sostanza la sua carriera alpinistica, la relazione che da subito lega Ruchin con la montagna va oltre l’ambizione arrampicatoria e diverrà un legame emozionale profondo, per certi versi spirituale e mai disgiunto da una parte genuinamente ludica, di vivace divertimento, che farà sempre da base sentimentale non solo alle gesta in parete, ma per il suo rapporto con la montagna tout court. Ci tornerò a breve, su questo aspetto della sua vita, che invece nella quotidianità giovanile continua con la fortuna nel trovare un buon posto di lavoro a Milano, in qualità di tornitore presso l’Alfa Romeo. Nel frattempo ai Resinelli conosce Cassin e gli altri grandi rocciatori lecchesi, mentre a Bergamo ha l’occasione di ascoltare dal vivo Emilio Comici, il “mito” dell’alpinismo di quegli anni, un’esperienza molto importante per il consolidamento della sua passione per l’arrampicata. Il lavoro a Milano lo obbliga a fare il pendolare tra Calolzio e il capoluogo lombardo, a volte costringendolo a fermarsi in città per la notte e lasciandogli soltanto la domenica per poter salire sui monti.

Sul treno conosce Eva, una ragazza di Calco che diventa la sua fidanzata, ma è la montagna che ormai assurge a irresistibile orizzonte primario, finché nel 1939, dopo alcune ripetizioni di itinerari classici sulla Grignetta, Ruchin apre la sua prima via sul Torrione del Cinquantenario, insieme con Gino Valsecchi – uno dei suoi più fedeli compagni di arrampicate. Quella sopra la capanna Rosalba è una prima salita – la denominerà via Lucia, dedicandola alla gestrice di allora del rifugio – che tuttavia già rende evidente lo stile e le peculiarità alpinistiche proprie di Ruchin: innanzi tutto l’agilità felina, l’elasticità, la leggerezza che gli vengono garantite dal suo fisico minuto e che gli consentono di passare dove quasi tutti gli altri non riescono, per difficoltà oggettive o per caratteristiche della roccia. A tali doti fisiche si unisce un intuito fuori dal comune nel cercare e trovare il passaggio migliore in parete e i movimenti giusti per superarlo: ovvero una capacità di “sentire”, leggere e interpretare la roccia veramente sorprendenti, che tali appaiono ancora oggi, se non di più, a chi decide di affrontare una delle sue vie, al punto che viene inevitabilmente da pensare a cosa avrebbe potuto fare adesso, Ruchin, nell’epoca del free climbing estremo e dei contest di arrampicata!

Il tutto, ribadisco, senza mai tralasciare il puro divertimento dello stare in montagna, anche nei momenti più ostici in parete. Lo evidenzia bene Emilio Galli, un altro dei suoi più fedeli e validi compagni di arrampicate, in occasione dell’apertura della via sul Corno Centrale di Canzo nel settembre 1942: «Ercolino stava affrontando grandi difficoltà ma, come sempre, non dava l’impressione della tensione e della fatica, e anzi si preoccupava di tranquillizzarmi e ironizzava sulla situazione». La testimonianza di uno stile di livello eccelso non solo in quanto a doti fisiche e atletiche ma pure mentali: fattore oltre modo fondamentale nell’alpinismo, nonché di una cristallina e autentica passione per la montagna o, meglio, per lo stare in montagna.

Il particolare stile di arrampicata “ruchiniano” consente a Esposito, da quella prima via in Grignetta, di aprire una stagione intensa e fulminante di salite sovente divenute celeberrime tra gli alpinisti e in certi casi “epiche”: dalla via Locatelli sul Fungo del luglio 1939, forse il suo primo VI grado “acclarato”, alla via Italo Balbo sulla Nord della Presolana, alla Esposito-Butta sullo Spigolo Nord del Sassolungo dell’agosto 1940, che Alessandro Gogna, in Sentieri verticali, giudicherà la più importante salita italiana su roccia di quell’anno. E poi sulle Pale di San Martino, sulla Punta Fiorelli nel Masino-Disgrazia, in Civetta e in Bondasca con alcune prime ripetizioni. Ma pure su montagne e pareti meno famose, dove Ruchin intuisce linee di salita particolarissime e spesso assai delicate, sulle quali le sue doti vengono oltre modo esaltate. Basti ricordare la via Pietro Fiocchi, da tutti conosciuta come via Ruchin, sulla “famigerata” (per la scarsa qualità della roccia) parete Fracia del Monte Spedone, sopra la sua Calolzio, oppure la via Ferrari alla Torre di Boccioleto, in Valsesia, o ancora la via Paolo Cereda al Torrione di Valle Realba, ben visibile dalla SS36 poco prima dell’uscita di Abbadia Lariana. Tutte salite, inutile rimarcarlo, consolidate su difficoltà di VI grado e forse più, se non fosse che ai tempi la scala delle difficoltà lì si fermava.

In ogni caso l’elenco delle nuove vie e delle prime ripetizioni firmate Ruchin è parecchio lungo e sorprendentemente intenso, considerando che, come ho denotato, il lavoro a Milano e le difficoltà di quegli anni di guerra e di limitazioni delle libertà personali imposte dal regime fascista lasciavano ben poco tempo a Ercole e ai suoi compagni per salire sui monti. Al punto che, nel 1944, verrà nominato membro del Club Alpino Accademico Italiano, primo alpinista bergamasco a ricevere tale onore, ed è significativa la festa che per l’occasione viene organizzata ai Resinelli nella quale, per festeggiarlo, arrivano i grandi dell’alpinismo lecchese e milanese: Riccardo Cassin, Nino Oppio, Gigi Vitali, Vittorio Ratti, Mario Dell’Oro, a rimarcare la considerazione che tutti hanno per il personaggio e le sue ormai certificate capacità alpinistiche. Ma ugualmente sorprendente lo stile di Ruchin appare nella sua modernità, e nell’atteggiamento quasi “etico” – se si può parlare di ciò per quell’epoca ancora sotto molti aspetti pionieristica – con cui caratterizza le proprie salite. Esposito affronta le pareti nel modo più “pulito” possibile, quasi sempre lasciando ben poco materiale in parete (anche per inevitabili ragioni economiche, visti i tempi) e spesso recuperando quello lasciato da altri: come ad esempio sulla Torre di Boccioleto, dalla quale torna con la via nuova e «una trentina di chiodi, sette moschettoni e tre cordini lasciati in parete dalle cordate precedenti nei loro inutili tentativi» racconta Italo Neri nella sua puntuale cronaca. Ancor più di concezione moderna, e veramente precursore dei tempi, è invece l’atteggiamento di Ruchin verso l’uso di mezzi artificiali – un tipo di arrampicata a quell’epoca agli albori: ennesima peculiarità del suo originale stile di arrampicata.

Ercole Ruchin Esposito

Ricorda Gentile Butta, un altro fedele compagno di salite, in occasione della nuova via sullo Spigolo Nord del Sassolungo: «Esposito ha un’antipatia speciale per le staffe, non ne ha voluto mettere nessuna in nessuna via finora fatta, nemmeno sulla Cassin del Sasso Cavallo, e nemmeno sulla via Dell’Oro Boga all’Ago Teresita, al riguardo della quale una relazione sul libro Le Grigne dice: “si vince con l’impiego di numerosi chiodi e numerose staffe”». Di contro, Ruchin è sempre tra i primi a sperimentare nuovi materiali per l’arrampicata: ad esempio il cinturone artigianale che lui e i suoi compagni indossano per assicurarsi alla corda, il quale può essere considerato un’anticipazione delle moderne imbracature, oppure le scarpe leggere con suola “morbida” (generalmente di stoffa, canapa o feltro rinforzato con pece greca), a loro volta antesignane delle attuali scarpette d’arrampicata. È anche tra i primi a utilizzare le nuove corde sintetiche in teflon e nylon al posto di quelle in canapa: da poco inventate in America, Ruchin decide di portarsele appresso per il progetto di salita sul Salame del Sassolungo che ha in programma per il settembre 1945. Se le fa appositamente confezionare da un compaesano amico, Riccardo Proserpio, che gestisce una piccola torcitura a Calolzio e che è primo vicepresidente della neonata sezione CAI locale (dal 1972 intitolata proprio a Ercole Esposto), la quale annovera proprio Ruchin tra i suoi ispiratori e fondatori. Prima di portasele in Sassolungo, però, le vuole testare su una parete di casa, in un’uscita col fedele Emilio Galli, che rapidamente individua il loro maggiore difetto. Le nuove corde reggono benissimo lo strappo, molto meglio che le precedenti corde di canapa, ma appaiono parecchio vulnerabili allo sfregamento, per come l’attrito della corda sulla roccia rapidamente logora e spezza i trefoli uno dopo l’altro, inesorabilmente. Tuttavia Ruchin vuole dare fiducia alla nuova tecnologia, e decide comunque di utilizzarle sulla Torre Salame nella salita che intende compiere con Gino Valsecchi (lo stesso con cui aveva aperto la sua “prima via sul Torrione Cinquantenario) e il milanése Bruno Ceschina. Proprio una delle nuove corde sintetiche, tranciata di netto, terminerà drammaticamente la sua vita e quella dei due compagni, il 23 settembre 1945: una tragedia terribile e priva di testimoni, sconcertante perché, per certi versi, mai del tutto spiegata, se non soltanto dallo spezzone di corda tranciata, ritrovato ancora legato al suo cinturone. È un epilogo drammatico, questo, non solo per le circostanze in cui si manifesta, ma pure per come appaia così dissonante rispetto al rapporto che, l’ho accennato poco fa, ha sempre legato Ruchin alla montagna. Una relazione realmente “amorosa”, mi viene da dire, di quell’amore genuinamente appassionato che è sempre andato ben oltre la prestazione fisica e tecnica, la difficoltà, la dimostrazione di forza e di coraggio, e ben oltre quella tipica retorica alpinistica, ancora molto presente ai tempi, anche perché coltivata dall’ideologia del regime fascista, che identificava l’alpinismo nelle definizioni della “lotta con l’alpe”, della “conquista” della vetta, di matrice quasi bellicosa e così via. Invece, se pure Ruchin andava alla ricerca delle più alte difficoltà, dei passaggi più ostici da superare ove altri non ce l’avevano fatta, a volte della montagna e della parete di prestigio, in senso alpinistico, il suo rapporto con i monti era veramente completo e umanamente profondo, frutto di quell’andare in montagna per svago “sociale”, certamente, ma anche per sollievo da un’esistenza quotidiana non certo agiata come quelle contemporanee, alla ricerca di una dostoevskijana bellezza alpestre (per parafrasare la celebre massima del Principe Myskin ne L’idiota) che poteva ben “salvare” un mondo quotidiano altrimenti reso difficile dal Fascismo, dalla guerra e dalle condizioni di vita in un piccolo paese di provincia, ribadisco, assai meno confortevoli di oggi. In effetti Ruchin non parlava mai troppo delle sue imprese sui monti se non agli amici più intimi, seduto «Sui gradini del Piazzòl – una piazzetta nel centro storico di Calolzio – nei cui pressi Ercolino abitava: si faceva cerchio attorno a lui, che se pur di modesta statura emergeva coi racconti di montagna facendo conoscere a noi giovincelli la Grignetta, descrivendo e mostrando fotografie del Fungo, Ago Teresita, Angelina, eccetera, dove in domenicali arrampicate si cimentava», come ricorda l’amico calolziese Alberto Amigoni. E forse per questo Ruchin non è assurto alla fama alpinistica di altri scalatori di quell’epoca, oggi ancora noti e celebrati: se non fosse per gli articoli di Italo Neri, molte cronache delle sue ascensioni non sarebbero mai state lette da nessuno. Ma anche per questo, in unione alla grandezza alpinistica delle sue salite, la storia di Ruchin appare ancora oggi così coinvolgente ed emblematica: è la storia di una relazione profonda con i monti, di una fusione tra l’anima dell’uomo e quella dei luoghi, del Genius Loci alpestre, una relazione da sempre fondamentale e necessaria per chiunque frequenti le montagne, sia esso alpinista provetto o semplice camminatore della domenica. «Le montagne sono solo un cumulo di sassi senza l’uomo che le sale» ha scritto il grande Walter Bonatti: d’altro canto, pochi ambiti come la montagna sanno fare che l’uomo non generi in sé un “cuore di pietra”: e Ruchin, con la sua grande umanità, fremente d’una passione assoluta e genuina per i monti, ne è tutt’oggi una dimostrazione incomparabile.

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Ruchin ultima modifica: 2020-08-08T05:42:19+02:00 da GognaBlog

9 pensieri su “Ruchin”

  1. 9
    sdt says:

    Il cinturone erano almeno 20 anni che girava..

  2. 8
    grazia says:

    Grazie per questo racconto entusiasta!
    L’unico passaggio per me dissonante, dopo aver più volte lodato il rapporto speciale tra Ruchin e le montagne, è la frase di Bonatti, con cui non circondo in assoluto. 

  3. 7
    Davide says:

    Una quarantina di anni fa ero stato con un amico al Fungo, eravamo appena maggiorenni e abbiamo sbagliato l’attacco della via che avremmo voluto salire. 
    In tasca portavamo uno schizzo fotocopiato dalla famigerata guida delle Grigne di Claudio Cima e ci siamo accorti di essere sotto la via Ruchin Butta.
    Pareva impossibile poter salire da quella parte…..
     
     

  4. 6
    Fabio Bertoncelli says:

    Gli articoli interessanti del GognaBlog sono innumerevoli. Tra i miei preferiti figurano le avventure e le biografie degli alpinisti del tempo che fu.

  5. 5
    Luca Rota says:

    Grazie, Michele! Vero, Realba è una delle pareti ruchiniche per eccellenza, nel bene e nel male!

  6. 4
    Luca Rota says:

    Grazie di cuore, Giorgio e Carlo! Sono onorato e felice del vostro apprezzamento.

  7. 3
    Michele Comi says:

    Bello! Basta toccare con mano il fragile ed esposto conglomerato del torrione di Realba per rendersi conto della genialità del piccolo grande Ruchin.

  8. 2
    Giorgio Daidola says:

    È piaciuto molto anche a me. Grazie di avermi  fatto conoscere Ruchin ed il suo  amore schietto per la montagna.

  9. 1
    Carlo Crovella says:

    Bello, mi è piaciuto molto.

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