Ruscello

Con enorme piacere vogliamo presentare il libro Claudia, una vita di corsa che l’amico Ugo Manera ha scritto con la storia e le opere di Claudia, sua figlia,  scomparsa a ottobre 2017 travolta a Londra da un camion mentre era in bicicletta. Il libro è stato realizzato da Fusta Editori ed è stato stampato nel mese di marzo 2020 in piena pandemia.

Per il momento ci accontentiamo di presentarvi uno dei racconti di Claudia Manera, scritto in prima persona al maschile: un’attenta esplorazione di se stessa e dei suoi alter-ego Èrcole e Vladimiro.

Ruscello
di Claudia Manera

Le nostre gite in montagna avevano sempre bisogno di una giustificazione, e noi la trovavamo attribuendo a ogni gita un tema. Ognuna di esse diveniva una specie di saggio, con tesi, sviluppo, digressioni e conclusione – non sempre, per la verità. Già, le nostre gite sarebbero state dei saggi un po’ incoerenti, poco dimostrativi, certamente non scientifici. La cosa non avrebbe preoccupato Vladimiro, il mio fedelissimo compagno di avventure, che mi seguiva per una strana forza d’inerzia lontanissima da qualunque idea di passività.

Claudia Manera

Io ero quello che si illudeva di affrontare la “lotta coll’Alpe” anche sui sentieri larghi come una strada asfaltata, per me le escursioni rappresentavano qualcosa a metà tra la fuga verso l’alto e… qualcos’altro che non sono ancora riuscito a spiegarmi con chiarezza. Vladimiro prima di ogni gita era inebriato dall’idea di tornare a casa e riscaldarsi il naso paonazzo con le esalazioni vapo­rose della pastasciutta cucinata ancora più amorevolmente del solito dalla mamma. L’eccitazione provocata dal piacere pregustato doveva essere davvero straordinaria, poiché Vladimiro non esitava a seguirmi, settimana dopo setti­mana, con qualunque condizione di tempo. Né va creduto che il ruolo di Vla­dimiro fosse secondario, o più facile del mio nell’economia delle nostre spedi­zioni. Era come in quei duetti comici dove la spalla nasconde un’abilità disconosciuta e persino maggiore di quella dello showman. Maggiore perché camaleontica, l’abilità di adattarsi alle stravaganze improvvisate dal comico. Vladimiro si plasmava e aderiva alle mie improvvisazioni con incredibile non-chalance, o almeno così sembrava. Ma, ripeto, il vero attore è la spalla e la bra­vura interpretativa di Vladimiro lo rendeva impenetrabile e apparentemente invulnerabile.

Avevamo diciott’anni, ma ne dimostravamo di più, entrambi. Per questo, o forse per altri motivi, non avevamo altri amici. Io del resto non avevo tempo per altre amicizie, non avevo tempo di convincere qualcun altro a seguirmi nelle mie imprese. Vladimiro era perfetto e affidabile, sempre presente e ade­rente. Quella sua non partecipazione nella scelta e nell’organizzazione delle gite non mi pesava per nulla poiché, credo di averlo già detto, la sua non era passività.

Diveniva sempre più difficile trovare dei temi per le nostre fughe, avevamo spaziato dalle venature colorate sulle pietre dei sentieri selciati all’analisi delle formazioni nuvolose ad alta quota, alle ipotesi sulla traiettoria di rotolamento dei massi minori delle morene. Ero arrivato al punto di passare i primi tre giorni di ogni settimana in una febbrile attività di ricerca. Se la ricerca era fruttuosa, il giovedì e il venerdì erano poi dedicati alla fase organizzativa vera e propria, ed il sabato, finalmente, c’era la partenza. Che Vladimiro non contribuisse per nulla alle due fasi di preparazione faceva parte del nostro tacito accordo. Avevamo entrambe ormai superato l’ipocrita necessità di giu­stificare la sua inattività e di produrre – da parte mia – lamentele per sovrac­carico di responsabilità. Così era perfetto, avevamo raggiunto l’utopica effi­cienza della divisione del lavoro: io organizzavo e lui veniva.

Stavamo quasi sempre fuori due giorni e ci era già capitato di campeggiare nella neve. Vladimiro accettava anche questo. Non era il caso di questa gita, era settembre ed un settembre insolitamente caldo e luminoso. Sabato mattina. Ritrovo alla stazione degli autobus alle sei e trenta precise. Questa volta avremmo seguito un torrente dal fondovalle lungo tutto il suo percorso tra vallette, prati, golette, cascatelle, fino a dove, secondo i miei calcoli, si sarebbe ramificato in minuscoli rigagnoli. A quel punto sarebbe stato necessario sce­gliere una delle ramificazioni e seguirla fin dove si sarebbe forse dileguato pe­netrando nel terreno, fino alla sorgente, in altre parole. Non ero stato in grado di stabilire quale dei rigagnoli dello stadio finale ci avrebbe condotto ad una vera e propria sorgente, lo avremmo appurato – o non appurato – sul posto.

Alcuni anni fa pensavo che la città fosse molto più bella e suggestiva al mattino presto. Non ricordo nemmeno più perché lo pensavo, adesso comun­que non mi sfiorerebbe per nulla al mondo una simile eresia. Questa stazione degli autobus, poi, è disgustosa. Lurida. Spoglia. Niente. Èrcole potrebbe al­meno decidersi ad usare la macchina che suo padre gli offre tutti i venerdì. Non me lo dice chiaramente, ma lo fa per non sminuire l’epicità dell’impresa. Salire e scendere da pullman e corriere fa parte del disegno globale. Quasi quasi ci credo anch’io. Cosa importa poi che ci creda o no, dal momento che lo accetto.

Ho portato solo due libri e per giunta tutt’e due sono romanzi, non mi basteranno, e poi? Se rimaniamo bloccati per una settimana da qualche parte, pensa solo il tedio mortale di restare a guardare il vuoto in una stazione di au­tobus. Cercherò di leggere lentamente. Ecco che arriva Èrcole, lo riconoscerei da un chilometro di distanza. E l’unico che ha ancora il coraggio di partire da casa con quegli enormi scarponi – deve averli ereditati da suo padre -, tanto più che finiamo sempre su sentieri che un bambino percorrerebbe tranquilla­mente in ciabatte da spiaggia. Avrà anche sicuramente la bussola, inservibile perché arrugginita, e l’altimetro, inservibile perché nessuno di noi due sa come usarlo. Anche la bussola non sapremmo come usarla, però tanto è arrugginita. La teoria di Èrcole in merito a quest’attrezzatura è che è meglio averne troppa che non averne per nulla. È una teoria piuttosto condivisa in altri campi, devo dargliene atto. Oggi ha anche il cappello da esploratore, probabilmente si ad­dice particolarmente alla ricerca del ruscello. Ma certo! I viaggi sui fiumi, lungo i fiumi, più esplorazione di così non è possibile. Niente da invidiare a Conrad o Twain. Chissà in quale cuore di tenebra mi vorrà condurre questa volta. Mi pare di sentirlo, adesso, appena arriva, i commenti sull’inadeguatezza del mio equipaggiamento, sulla mia pigrizia che mi impedisce di procurarmi un nuovo zaino capace di contenere dignitosamente i pali della tenda. In fondo ha ragione. Ma perché togliergli il piacere di quelle piccole lamentele mattutine, sarebbe come impedire a un guru di fare il saluto al sole.

Autoritratto, quadro di Claudia Manera

Quel sabato mattina, come sempre, Vladimiro era già là ad aspettarmi. Mi scrutava, mi aveva già sicuramente riconosciuto, anche se esitava a salutarmi. Strano che non stesse leggendo. Aveva un equipaggiamento escursionistico as­solutamente grottesco, però nello zaino 1940 non mancavano mai tre o quattro libri e talvolta anche un certo numero di riviste. La contemplazione inattiva sembrava non essere il suo forte. Si annoiava. Credo che la noia fosse un suo problema in generale, forse mi seguiva nelle mie “imprese” per noia e, nono­stante ciò, aveva una paura tremenda di annoiarsi, prendere coscienza di quella stanchezza endemica che caratterizzava la sua personalità. Non mi venne in­contro, aspettò che arrivassi a due metri da lui e poi mi gettò uno di quei suoi saluti distratti ma calorosi. Dalle pieghe del suo sorriso capivo che aveva utiliz­zato il tempo da me impiegato a raggiungerlo per tracciare nella sua mente una caricatura del mio personaggio. Avrei dato qualunque cosa per conoscerla.

Non feci alcun commento sul fatto che anche questa volta non avesse con sé gli scarponi, ma soltanto le solite lacere scarpe da ginnastica. Ero felice di vederlo, gli volevo bene. Ci aspettavano tre ore di autobus e corriere con due trasferimenti da un mezzo all’altro. Per me era un divertimento non minore dell’escursione in sé e di tutti gli altri elementi della preparazione, come sarebbe stato un grande gioco montare la tenda, far bollire l’acqua, consultare le cartine a lume di… pila. Non credo che tutto ciò costituisse motivo di divertimento per Vladimiro, non sembrava capace di giocare con le cose, con le persone. Era sempre, a suo modo, presente, coerente, razionale. Anche se ero io ad occuparmi di tutti i dettagli e i calcoli organizzativi, lui sapeva che lo facevo per gioco e mi lasciava giocare. Mi accompagnava al parco dei divertimenti e, mentre io co­struivo castelli di sabbia e mi dondolavo sull’altalena, lui leggeva e di tanto in tanto sollevava il capo a guardarmi.

Settembre è un mese stupendo, si sta avvicinando l’autunno, che in mon­tagna è la stagione più camaleontica e colorata dell’anno, ma è ancora estate, la si sente ancora nell’aria. Il ricordo di agosto è ancora vivo e non è senza sollievo che si osserva il graduale dissolversi della vegetazione soffocante e dell’umidità che lo hanno accompagnato. Trovammo subito il torrente e cominciammo a se­guirlo, mentre facevo del mio meglio per interessare Vladimiro alla sorprendente corrispondenza tra i nostri passi e i centesimi di millimetro sulla cartina. Mi preoccupavo per le sue calzature inadeguate e lo sentivo continuamente scivolare sul terreno friabile e sulle pietre ancora un po’ umide per la rugiada. Lui sem­brava non curarsene, mi seguiva, osservava e mi osservava, impenetrabile. Del resto, lo avevo avvertito che forse questa volta non saremmo stati in grado di seguire continuativamente un sentiero, poiché il nostro scopo era la ricerca della sorgente. Come sempre aveva assentito ed agito di conseguenza: cioè non aveva fatto assolutamente nulla di diverso dal solito.

Èrcole non può certo immaginarsi quanto io mi diverta a vederlo saltellare qua e là, chinarsi ad annusare i fiori, fotografare quelle rocce che qui certo “as­sumono una posizione del tutto particolare”, preoccuparsi del mio stato psico­fisico. Varrebbe poi comunque la pena sopportare ogni disagio e fatica anche solo per lo spettacolo finale, il montaggio della tenda. Èrcole non mi ha ancora detto se intende montarla alla confluenza dei rigagnoli, forse perché deve prima studiare attentamente il terreno alla ricerca di un avvallamento riparato, che offra la possibilità di orientare l’apertura verso il sorgere del sole. Già, perché non portiamo mai una sveglia, sarebbe troppo reminiscente della corruttrice civiltà di pianura. Ci svegliamo grazie alla violenza mattutina del sole e quando non c’è il sole Èrcole non ha bisogno di fingere di dormire ancora dopo le cinque antimeridiane e può altresì fingere di essersi svegliato prima per cause imprecisate. Comunque vada, alle sei siamo in piedi, smontiamo l’arnese dopo una succulenta colazione lubrificata dal tè risultato dall’operazione di intingere la bustina nell’acqua poco più che tiepida. Èrcole crede che tutto ciò mi dia noia, in realtà lo trovo spassoso, la parte migliore della gita. La tenda non è che il surrogato della capanna di frasche e legna che ogni bambino che si rispetti vorrebbe costruire e che per la maggior parte rimane desiderio irrealizzato. Deve esserci da qualche parte anche tra i miei desideri irrealizzati, ne sono certo.

Camminammo per molte ore, parlando come sempre molto poco. Io ero occupato nelle mie osservazioni e Vladimiro nelle sue, che certo non avevano molto a che fare con gli spigoli di roccia o i ciottoli del fondo del ruscello, o al­meno questa era la mia impressione. Si avvicinava l’imbrunire, e dopo un rapido consulto decidemmo di accamparci anche se non eravamo ancora in vista del punto di biforcazione, o “triforcazione” dell’acqua che avevamo inseguito. Sembrava un buon posto per montare la nostra casetta portatile, una tenda a cupola regalatami proprio da Vladimiro un paio di anni prima. Era stata una sorpresa, nonostante l’ovvia utilità che una tenda del genere rappresentava per il nostro duetto. Però ogni azione di Vladimiro mi sembrava una sorpresa, ogni cosa che faceva pareva fatta da qualcun altro, mentre lui manteneva la solita di­stanza da osservatore.

Fu una notte lunga perché gelida, dopotutto eravamo vicini ai duemila metri di quota e l’escursione termica dal giorno alla notte fu maggiore del pre­visto. Quel tè scolorito e tiepido del mattino agì da vero tonificante, lo rivelava l’espressione non disgustata di Vladimiro. Sarebbe stata un’altra giornata lumi­nosa, energetica, verde e azzurra, prima del ritorno all’ennesimo lunedì. Vladi­miro sicuramente pregustava il ritorno, e in un certo senso anch’io, perché ri­torno significava nuovi progetti, nuove cartine da consultare, un nuovo gioco da ideare, o forse semplicemente lo stesso gioco con illusioni di novità.

Non riuscimmo ad arrivare alla sorgente dove volevo arrivare, poiché la diramazione che scelsi non era evidentemente quella giusta. Non fu una grande delusione, né per me né tanto meno per Vladimiro, che ai miei cenni di sgomento rispose con un sospiro poco convinto e tirò fuori uno dei suoi libri. Questa volta ne aveva portati solo due, evidentemente il suo terrore patologico della noia dava segni di attenuazione. Stappammo comunque la bottiglia di birra che ci portavamo sempre per eventuali celebrazioni e ci ripromettemmo di ri­tentare una settimana a venire.

Povero Èrcole, posso certo immaginare la sua amarezza in questi frangenti, quando il suo alacre lavoro di una settimana non giunge a una conclusione definitiva. Non vuole darlo a vedere, sorseggia la sua birra con l’abbozzo di un sorriso, ma non riesce a nascondere la delusione. Dovrei forse dirgli qualcosa in più, complimentarmi più calorosamente per la bellezza dell’itinerario, sotto­scrivere immediatamente la mia partecipazione alla prossima gita. Lo farò sul­l’autobus, avremo tutto il tempo di ascoltarci, di interpretare i silenzi. Sarà come sempre triste, come ogni viaggio di ritorno, sarà ancora una volta la discesa dal nostro mondo a quello degli altri. Sì, ci scambieremo le impressioni positive e terremo per noi quelle negative, ma sapremo leggere la nostra angoscia anche al buio, quando l’ultimo autobus s’infilerà sulla strada grigia, sempre più larga e sempre più anonima. Poi il buio lascerà il posto alle luci delle insegne e dei lampioni al neon, ma la strada rimarrà anonima.

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Ruscello ultima modifica: 2020-08-04T05:17:18+02:00 da GognaBlog

2 pensieri su “Ruscello”

  1. Bel racconto. Mi immagino con quale desiderio Claudia sia stata attivamente e gioiosamente alla ricerca della propria sorgente attraverso un cammino solitario, ma spesso nella relazione con gli altri. Amicizia, solidarietà e amore per la natura vissuta pienamente i suoi valori? Credo di sì.

  2. Bellissimo racconto, coglie con grande sensibilità e leggerezza le aspettative, le speranze e soprattutto  il sogno di avventura che ci spinge verso l’alto, non importa come e dove.

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