Tre Ottomila di Sergio Martini
(due articoli pubblicati su Scandere 1986 e 1989)
Fotografie dell’autore (salvo diversamente specificato)
Lettura: spessore-weight(1), impegno-effort(1), disimpegno-entertainment(2)
Prima salita italiana al Makalu
di Sergio Martini
Agosto 1985. Ancora una volta, come già quasi un anno fa, percorro i sentieri assolati e polverosi della Valle dell’Amen, nell’Est del Nepal. Sono diretto, come allora, al Makalu, in compagnia di quattro amici. Che cosa mi abbia spinto a ritornare, è presto detto. La sconfitta subita nel 1984, nel tentativo di salire la montagna, ha lasciato tutti noi con l’amaro in bocca. Ancor più il fatto di essere arrivati così vicini alla cima, da sentirla, per un momento, ormai nostra. E invece l’imperversare implacabile del vento, che a stento ci ha permesso di ritrovare la via di discesa, nel mezzo di una violenta bufera, ci ha costretti a battere in ritirata. Era un conto che non si poteva chiudere così, semplicemente tornando a casa (dove, oltretutto, come sovente accade in casi simili, ci aspettavano polemiche spesso gratuite).
Makalu. Foto: Fausto De Stefani
Pertanto, prima di rientrare in patria mi sono recato, con Fausto De Stefani, al Ministero del Turismo nepalese per chiedere, quasi con insistenza, un nuovo permesso. Ci verrà confermato, definitivamente, qualche mese dopo. Nel frattempo non abbiamo smesso di organizzarci, di allenarci, di pensare al «ritorno». Questa volta però vogliamo, di proposito, essere in pochi. Oltre a De Stefani, compagno di cordata al K2 nel 1983, ci sono Fabio Stedile, un giovane arrampicatore ormai affermato e Almo Giambisi, tutti componenti della passata spedizione al Makalu. Ci raggiungerà a Kathmandu, per aggregarsi a noi, lo spagnolo Juanco San Sebastian.
Crediamo che la cosa migliore per realizzare il nostro progetto sia quello di fare in modo di non avere bisogno di sponsor «ufficiali», quindi ci organizziamo in economia, coprendo le maggiori spese con i nostri soldi e con qualche aiuto esterno.
Questo ci permetterà, fra l’altro, di non dover anticipare pubblicamente i nostri programmi.
Lunghi mesi di preparazione ed ecco quindi che ci ritroviamo, lungo il corso del fiume Arum, a camminare in un bagno di sudore per la grande umidità e il caldo e, più su, a combattere con le numerosissime sanguisughe onnipresenti che proliferano con le piogge monsoniche. Avanziamo comunque speditamente e senza grandi inconvenienti, anche perché i portatori al nostro seguito sono pochi. Molti di loro si ricordano del nostro precedente passaggio e si dimostrano felici di rivederci, come fossimo vecchi amici. Il campo base, sotto il versante ovest del Makalu, è posto in un luogo accogliente e sicuro nonostante i 5300 m di altitudine: qua e là ci sono ancora dei ciuffi d’erba e qualche fiore dal colore delicato. Più sotto si può attingere l’acqua da alcune pozze.
Il nostro ufficiale di collegamento ben presto ritorna a valle per dei malesseri dovuti alla quota, «aggravatisi» dopo il racconto della tragica fine di un suo collega, morto sotto i nostri occhi per edema polmonare, proprio in questo campo base l’anno precedente. Ancora nei primissimi giorni di settembre comincia l’esplorazione del ghiacciaio del Chiago, ricoperto, nella parte inferiore da detriti morenici. Un lungo corridoio di pietre instabili che penetra fra alte torri di ghiaccio, conduce all’apice di un roccione sgombro dalla neve dove a 5850 m sistemiamo il primo campo.
Frattanto il monsone continua a condizionare il tempo, per cui si susseguono spesso abbondanti nevicate. Questo clima instabile accompagna il resto della spedizione e ostacola notevolmente la nostra progressione.
Manteniamo, come punto di riferimento per la salita, il Colle del Makalu quotato 7410 m ripercorrendo in alcuni tratti la Via dei Francesi del 1955, ma cercando il percorso più breve per raggiungerlo.
Poniamo il campo 2 a 6750 m ai piedi di un ampio pendio che conduce al colle stesso. In alto, dove il pendio si chiude in un ripido canalone, sistemiamo delle corde fisse per agevolare soprattutto la discesa in caso di cattivo tempo.
Nei continui andirivieni su e giù per il ghiacciaio siamo quasi sempre assieme, con il nostro unico sherpa al seguito. Possiamo così alternarci nel compito, spesso massacrante, di battere la pista.
Solo quando il tempo è decisamente brutto ci concediamo qualche giorno di riposo al campo base. Agendo in questo modo ho la sensazione di vivere più intensamente la spedizione, in quanto sono costantemente partecipe e protagonista in ogni situazione, cosa che, con il lavoro a squadre di una spedizione numerosa, difficilmente può avvenire. Quando poi, per un preciso calcolo, ci troviamo solo in due a tentare il balzo finale verso la vetta, saranno le condizioni precarie della neve a decidere il contrario. Così, qualche tempo dopo, nuovamente riuniti, partiamo dal campo base, nel cuore della notte, con la viva speranza che questa sia finalmente la volta decisiva. Un altro tentativo può essere difficilmente fattibile, perché già cominciano a scarseggiare i viveri.
In un unico giorno dal campo base raggiungiamo il campo 2 e il giorno successivo il campo 3. Al terzo giorno siamo a quota 7850 m dove, su un ripido pendio, riusciamo, con enorme fatica, a scavare un gradino di neve sufficientemente ampio per accogliere le due tendine che costituiranno il quarto e ultimo campo.
Dopo qualche ora di difficile riposo, incominciamo i preparativi per ripartire. Pare incredibile, ma quassù ogni operazione, anche la più elementare, diventa un grosso problema. Sciogliere la neve per bere, uscire dal sacco piuma ormai ridotto un pezzo di ghiaccio, infilare gli scarponi e mettere i ramponi, ci impegnano per lunghe ore.
Verso le sei del mattino lasciamo il campo nel quale diventa impossibile restare più a lungo perché la neve, portata dal vento, ha schiacciato a metà le tendine e la condensa, all’interno, è talmente abbondante da rendere i nostri ricoveri simili a un freezer.
All’interno il mio termometro tascabile segna 23 gradi sotto zero.
Risaliamo lentamente i lunghi pendii, a tratti molto ripidi, che portano a un ampio pianoro poco sopra gli 8000 m. Le soste sono frequenti, ma non lunghe, a causa del freddo intenso. Ho i piedi insensibili e mi devo fermare a massaggiarli, dopo aver levato gli scarponi. Le ore trascorrono veloci, mentre avanziamo ansanti nella neve che molto spesso è profonda e crostata in superficie. La respirazione richiede uno sforzo enorme poiché non usiamo ossigeno artificiale.
A circa 8300 m c’è una fascia di rocce che sbarra il cammino. Fausto sale per primo e fissa una corda. Sarà provvidenziale ritrovarla, in discesa, con il buio.
La cresta finale presenta ancora un’ultima impennata. Fausto e Fabio forzano un delicato passaggio su neve inconsistente e fissano un’altra corda. Passiamo con ansia e un po’ di timore: sotto i nostri piedi c’è un vuoto impressionante. Un attimo di scoramento ci coglie quando Fausto ci grida, dall’alto di una cornice, di non vedere ancora la cima. Ma, per nostra fortuna, è solo un effetto ottico dovuto alla residua luce del giorno che sta per terminare inesorabilmente e alle lenti degli occhiali incrostate di ghiaccio. Levarli sarebbe troppo rischioso per il vento e il freddo.
Verso le sei di sera del 1° ottobre, ci ritroviamo tutti e cinque sulla piccola cima del Makalu a 8463 m stringendoci l’un l’altro per non cadere nel vuoto, primi italiani sulla quinta vetta del mondo.
Indescrivibile è l’atmosfera che ci avvolge in quegli attimi, gli ultimi raggi del sole ormai tramontato oltre un orizzonte più basso di noi lasciano una luce irreale e di noi stessi si intuisce solo un’ombra e vaghi profili. Fabio urla la sua gioia nell’immensità di quegli spazi. Almo appare commosso: a 47 anni ha salito il suo primo Ottomila. Possiamo concederci solo qualche breve attimo di sosta prima di intraprendere la discesa verso il campo lasciato la mattina.
Un ginocchio, dolente per una precedente caduta, rallenta la mia discesa, e solo verso mezzanotte raggiungo, con i compagni, le tendine.
Altri due giorni di discesa ci riportano, sfiniti e barcollanti per la fatica, al campo base. Tornare a Kathmandu in otto giorni di marcia è poi un vero calvario perché si ravviva il dolore causato da qualche principio di congelamento ai piedi. Ma non ci pensiamo più di tanto: il dolore fisico prima o poi passerà, ma ciò che rimarrà più a lungo, sarà certamente il ricordo di quel momento, alle 6 di sera, abbracciati in vetta al Makalu.
Versante nord-est dello Sisha Pangma
La Cresta sui Pascoli e la Dea delle Pietre Turchesi
di Sergio Martini
Shisha Pangma significa in tibetano «cresta sui pascoli». Ben gli si addice questo nome poiché è proprio questa l’impressione che si ha osservandolo dall’altopiano tibetano.
Con i suoi 8013 metri di altitudine è considerato il più piccolo dei 14 Ottomila. Alcune fonti, però, indicano in 8046 metri l’altezza della sua cima. È anche l’unica montagna così alta completamente in territorio cinese.
Fu proprio la Cina a inviare, nella primavera del 1964, una mastodontica spedizione per conquistarne la vetta. Fra alpinisti e scienziati furono quasi 200 le persone che si accamparono ai piedi della montagna fino a quel momento ancora inesplorata. Dopo due mesi di preparazione della via, il 2 maggio, dieci alpinisti raggiunsero la cima della montagna deponendovi, a ricordo di quell’impresa, un busto di Mao.
Cho Oyu, ossia «dea delle pietre turchesi»: è il significato del nome tibetano di questo monte alto 8201 metri. Fu salito per la prima volta nel 1954 da una piccola spedizione austriaca composta da soli tre uomini e uno sherpa (in vetta Herbert Tichy e Josef Jochler assieme allo sherpa Pasang Dawa Lama, NdR). La montagna, si trova a poche decine di chilometri in linea d’aria dal monte Everest. Il versante sud è nepalese, quello rivolto a nord è cinese.
I componenti la nostra spedizione: Patrick Berhault (F), Giorgio Daidola, Fausto De Stefani, Agostino Gentilini, Didier Givois (F), Giordano Longoni, Sergio Martini, Pino Negri, Enrico Rovelli.
Shisha Pangma e Cho Oyu, due nomi complessi per due montagne non particolarmente difficili da scalare. Naturalmente il «non difficile» è riferito alle difficoltà alpinistiche presenti lungo gli itinerari da me seguiti per raggiungerne la cima.
Qualche breve passaggio in roccia e alcuni tratti verticali in ghiaccio costituiscono i problemi tecnici maggiori, per il resto pendii di neve piuttosto lunghi ma non esageratamente ripidi.
Eppure, con il cattivo tempo e con la neve abbondante, anche queste montagne si possono trasformare in trappole mortali.
Già la rapida marcia di avvicinamento allo Shisha Pangma è causa di qualche malessere dovuto allo scarso acclimatamento. In un solo giorno il camion sul quale, oltre a me, prendono posto Fausto De Stefani e Patrick Berhault, sale all’accampamento cinese a 5000 metri di altitudine. Il dislivello superato è di 3000 m. Inevitabili, per qualche tempo, gli inconvenienti causati da un simile sbalzo di quota.
Dal campo cinese al campo base avanzato, posto cinquecento metri più in alto, sono necessari due giorni di cammino.
Poiché in Tibet non esistono portatori, per trasportare i carichi vengono utilizzati gli yak. Questi animali, robusti e con un folto pelo che permette loro di sopportare le basse temperature dell’altopiano tibetano, sono allevati dai pastori nomadi. La loro indole non è molto docile e per farli camminare bisogna continuamente incitarli con fischi e cantilene.
Il tempo, che per tutto il mese di agosto è stato perturbato costringendo al ritiro, dalla stessa montagna, di una spedizione abruzzese, nei primi giorni di settembre migliora consentendo un rapido allestimento dei campi in quota. De Stefani, Berhault ed io formiamo la prima cordata che tenta di scalare la cima.
Dopo il campo 1 a 6400 metri è la volta del campo 2 a 6900 metri.
Fra i due campi c’è una lunghissima valle quasi pianeggiante. Il giorno in cui la percorriamo con gli sci ai piedi i raggi del sole sono talmente forti da riflettersi sul ghiacciaio come su di un immenso specchio mentre l’aria è quasi ferma. Neanche la neve che metto in continuazione sotto il berretto, riesce a darmi un po’ di sollievo. Fausto trascina dietro a sé una slitta nella quale ha posto lo zaino mentre Patrick, oppresso dal calore insopportabile, sta pensando alle arrampicate sulle ventilate falesie di fronte al mare di Montecarlo.
Il desiderio maggiore, non appena è sistemata, a sera, la tendina del campo 2 nei pressi di un colle, è quello di bere, bere e ancora bere. Di lì ci rendiamo conto dell’abbondante innevamento che persiste alle quote superiori. Il progetto iniziale di salire il canalone Messner viene accantonato. Rimane la possibilità di seguire la via aperta nel 1964 dai cinesi, primi salitori della montagna.
Nonostante qui i pendii siano meno ripidi ed esposti al sole, la quantità di neve è tale da rallentare decisamente la scalata. Il salire non è più un’azione fluida, controllata dalla mente, in cui ogni movimento trova la giusta sincronia con la respirazione. Tutto diventa affannoso e non solo per l’aria sempre più rarefatta. C’è il pericolo incombente che quel mare di neve verticale si metta in movimento con conseguenze catastrofiche.
In quei momenti non devo pensare alla cima: è ancora troppo lontana, anche se è lì a portata di mano. Devo pormi un punto di arrivo più vicino per trovare la volontà e la forza di proseguire. Nel primo pomeriggio del 5 settembre, dopo otto ore di scalata dall’ultimo campo a 7300 metri, raggiungiamo il punto più alto di una affilata cresta nevosa che segna la sommità dello Shisha Pangma.
Un forte abbraccio è di rito in queste circostanze anche se rappresenta solo un fugace gesto in cui si presta un po’ più di attenzione alla presenza dei compagni di cordata.
Ma è pur sempre un momento poiché è laggiù, con il ritorno al campo base, che si può dire conclusa una spedizione non qua, dove la nebbia ora toglie anche il piacere di vedere ciò che sta attorno. Non fa molto freddo e questo permette una sosta più prolungata.
Qualche ora più tardi, verso sera, raccolgo il sacco piuma e altre cose lasciate al campo 3. Giorgio Daidola, Pino Negri e Didier Givois, componenti della seconda cordata, hanno già occupato il campo per tentare domani la cima. lo, Fausto e Patrick scendiamo al campo 2 per passare la notte. All’indomani una fantastica e rapida discesa con gli sci, ci permette di raggiungere, infine, il campo base.
Prima di lasciare l’Italia avevo chiesto e ottenuto il permesso di scalare anche il Cho Oyu, altro Ottomila al cospetto dell’Everest.
Ora, 11 settembre, all’interno di una grande tenda militare, discuto a lungo con l’ufficiale di collegamento cinese prima di poter ottenere una jeep. Da dove mi trovo, devo percorrere infatti 250 chilometri di piste dissestate per arrivare alla base di quella montagna.
Versante nord-ovest del Cho Oyu
Con me rimane Fausto De Stefani, compagno fidato di tante scalate, mentre gli altri componenti della spedizione allo Shisha Pangma tornano a Kathmandu. L’appuntamento con loro è per il 25 settembre all’aeroporto di quella città per tornare assieme in Italia.
Non abbiamo, in effetti, molto tempo da dedicare alla scalata ma in due si è più rapidi negli spostamenti e nelle decisioni. Anche l’acclimatamento, ormai perfetto, ci consente di raggiungere, in soli due giorni, un piccolo ripiano a 7400 metri di altitudine, luogo abitualmente usato per il campo 3.
Attraverso questo stesso itinerario è salita, in precedenza, una spedizione francese molto numerosa che ha abbandonato viveri e materiali lungo i fianchi della montagna. I corvi, alla ricerca di cibo, ne hanno fatto scempio spargendo un po’ ovunque quanto trovato. Non c’è traccia invece di un alpinista morto in primavera al campo 3. La neve evidentemente ha già coperto la sua tendina.
Quando lasciamo il campo 3 nelle prime ore del 17 settembre, alcune stelle sono già velate dalle nubi. La tenue luce delle pile frontali ci illumina il cammino ancora per qualche ora finché, con l’arrivo del giorno, risulta più evidente il peggioramento del tempo. Il vento, da sud, assume una forza tale da compromettere lo stesso equilibrio sulle punte dei ramponi, mentre la visibilità si riduce a pochi metri.
Solo seguendo la vecchia traccia indurita dei francesi ci è possibile l’orientamento sul vasto pianoro sommitale.
In quella situazione la cima raggiunta comunque con decisione, rappresenta null’altro che il giro di boa per un ritorno immediato. Senza togliere lo zaino dalle spalle, fotografo Fausto col viso e gli indumenti ricoperti di ghiaccio e con la punta del naso semicongelata. È un momento drammatico, sarebbe un errore fatale perdersi nella nebbia. Perciò usiamo la massima concentrazione per trovare anche la più piccola impronta che ci indichi la via da seguire.
Dopo molte ore di incerta discesa, troviamo finalmente riparo dal turbinio del vento, nella tenda del campo 2 a 6800 metri.
La notte trascorre interminabile e nella più completa insonnia per il dolore provocato da una grave oftalmia. Di giorno, infatti, non abbiamo potuto usare gli occhiali perché erano continuamente impiastrati di nevischio. Gli occhi di Fausto sono in condizioni anche peggiori dei miei e solo con il rientro al campo base, nella giornata successiva, può avere un po’ di sollievo grazie alle cure prestategli da un medico. Ma ormai le preoccupazioni maggiori sono finite. La scalata dal campo base, cima e ritorno è durata solo quattro giorni, un vero record e, a parte gli inconvenienti, anche una grande soddisfazione. Ora siamo sicuri che non mancheremo all’appuntamento con i compagni di spedizione che, a Kathmandu, ci aspettano per tornare a casa.
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Grande Persona..! al di fuori..dai media”…Un immensa stima.! per Sergio..e anche Fausto…….! Il nostro Alpinismo….Saluti.. G.C.
Alpinisti di valore assoluto che senza grandi proclami hanno realizzato un sogno!
Ho avuto il piacere di conoscere sia Sergio Martini che Fausto De Stefani, in questo racconto ritrovo la semplicità e la modestia degli uomini e degli alpinisti, grandi comunque.
Silenzioso, umile, determinato,forte alpinista.