Un approccio “wilderness” alla montagna

Un approccio “wilderness” alla montagna
di Saverio Indio De Marco
Foto di Saverio De Marco

Si possono concepire l’alpinismo ed escursionismo come sport fini a se stessi? Ecco, questo è il punto da cui voglio partire per una riflessione sul rapporto tra l’escursionista e l’ambiente naturale della montagna.

Lo sport, si sa, implica dei record, delle vittorie, delle performance. La mentalità sportiva di certo ha a che fare volenti o nolenti con la montagna, in quanto l’escursionismo e l’alpinismo implicano una serie di tecniche ed attrezzature per affrontare cime e pareti. Comportano lo sforzo, l’allenamento. In particolare l’alpinismo contempera la preparazione atletica volta ad affrontare ore e ore di lunghe salite, l’accuratezza delle tecniche e dei movimenti della progressione su neve e ghiaccio, o quelli che interessano l’arrampicata su roccia. La domanda che mi pongo è questa: si può avere unicamente un approccio sportivo alla montagna? La montagna può essere considerata solamente una “palestra naturale” per le nostre performance? E se l’escursionismo viene considerato uno sport, in questo sport si vince davvero qualcosa?

Pino loricato ricoperto di galaverna

Bisogna partire da un fatto: la rincorsa smodata al record, alla sfida, al raggiungimento della cima a tutti i costi o la scalata di pareti impossibili, l’accanimento nello spostare il limite sempre più in avanti fanno parte della storia dell’alpinismo e hanno seminato tra gli alpinisti una competizione che ha anche prodotto atteggiamenti meschini, bugie e rancori di ogni sorta. Io le chiamo “miserie dell’alpinismo”. Per citare Mauro Corona, può capitare che lo status degli alpinisti diventi quello di atleti “narcisisti” che mettono avanti soprattutto il loro ego personale e la collezione di imprese sempre più difficili. Altra questione riguarda quelle persone che si improvvisano escursionisti e alpinisti senza che abbiano conoscenza ed esperienza dell’ambiente alpino o appenninico. E si vede di solito come terminano le cose: gite e scalate improvvisate che mettono in allerta i soccorsi quando non vanno a finire in tragedia.

Sulla Via dei Lupi al Monte Pollino

Ma vengo alla domanda a cui voglio rispondere, che faccio anche a me stesso. Con quale approccio dovremmo vivere la montagna? Sono la conquista della cima, la tecnica, la competizione le cose più importanti oppure c’è qualcos’altro che nella montagna vale la pena di sperimentare? Parto da un’osservazione. L’escursione su un sentiero che conduce alla base di una cima viene detto nel gergo alpinistico “avvicinamento”, un concetto base dell’alpinismo ma che io ritengo banalizzi in qualche modo la realtà della montagna … Un sentiero, che per arrivare alla base di una parete attraversi una foresta selvaggia con alberi secolari, può valere più della scalata alla cima, indipendentemente dalla scarsa difficoltà che può presentare. Percorrerlo non rappresenta solo un “avvicinamento”, ma un’esperienza che può suscitare in noi profonde sensazioni. Ecco che arriviamo ad un punto chiave della questione: se lo scopo sia la difficoltà fine a se stessa o, come io invece sostengo, se la difficoltà della salita sia in realtà solo un mezzo per scoprire la bellezza di alcuni angoli incantati e selvaggi della montagna… se sia un mezzo cioè per entrare in sintonia con la natura.

Se consideriamo questo concetto l’escursione può diventare interessante e capace di suscitare emozioni intense anche se stiamo percorrendo quel comodo sentiero cui facevo cenno sopra, che attraversa una immensa foresta di faggi e abeti: lungo il suo percorso possiamo sentire per esempio lo scrosciare dei torrenti di montagna… se siamo fortunati incontreremo un piccolo scoiattolo che si arrampicherà furtivo per sfuggire alla nostra vista; ecco il cielo che diventa nuvoloso, si approssima un temporale e la foresta diventa scura, tenebrosa… direi misteriosa; ma magari rispunta il sole e mentre stiamo al tramonto la luce rossastra filtra tra gli alberi facendo brillare le loro foglie; e se ci sorprende il buio potremo ammirare la volta del cielo stellato, o la luna che fa capolino sulla foresta. Ecco, sono anche queste sensazioni belle da provare, oltre a quelle indubbiamente sublimi della scalata della vetta… e sono queste emozioni, nella loro totalità, che a mio avviso danno senso all’escursione…

Tramonto al Giardino degli Dei

Queste considerazioni sono importanti, perché si dà così valore alla montagna nel suo complesso, non solo all’ “altitudine” delle vette. La stessa cima non ha valore perché arrivando a 2000 o 3000 o 4000 metri abbiamo vinto o conquistato qualcosa. L’ascesa di una difficile cresta ghiacciata, ad esempio, ha valore non solo perché ci conduca alla cima tra tante difficoltà, ma per ciò che proviamo lungo il percorso della cresta; per quello che vediamo, che ascoltiamo; per la bellezza misteriosa e selvaggia che si rivela in questi momenti, per la sensazione che si prova di essere soli alla mercé delle grandi forze della natura… Lo dico per esperienza: lungo le faticose ascese invernali al Pollino non è la mia performance che mi interessa, non è dimostrare a qualcuno di essere un “duro”, ma il poter entrare in sintonia con la dimensione selvaggia della nostra montagna, con la sua solitudine, il suo silenzio, il suo ambiente primordiale. In parole povere con ciò che gli americani chiamano wilderness.

Sono queste le cose che ci rendono ricchi interiormente: poter ammirare i tesori naturalistici di una montagna non oltraggiata dai segni dell’uomo, poterla vivere in libertà e in silenzio, senza mete prefissate, senza catalogazioni, classificazioni o cifre… Certo, anche la conoscenza tecnico-scientifica è importante, a patto che non diventi una mania. Quando vado in montagna non voglio pensare ai numeri, non mi interessa il valore numerico di un dislivello o di una cima… Se dovessi ragionare come molti alpinisti ossessionati unicamente di arrivare sulle cime di 7000 o 8000 metri delle Ande o dell’Himalaya, dovrei considerare il Pollino, le cui cime superano appena i duemila metri, un massiccio quasi insignificante. Ma ragionando diversamente io considero il Pollino la montagna a cui sono più legato, perché è la “mia” montagna… Perché su questa montagna io sono vissuto e qui sono vissuti i miei padri, l’ho scoperta a poco a poco, fin da bambino, ho avuto la fortuna di poter ammirare i suoi angoli più suggestivi e selvaggi, sulle cime come negli anfratti più nascosti della foresta.

L’autore in vetta alla Serra del Prete. Sullo sfondo è il Monte Pollino.

 Ciò che vale è la continua scoperta della natura, quello che la natura ci permette di poter vedere e ascoltare. Ciò che mi interessa è carpire il senso di un luogo selvaggio, è confrontarmi con la mutevole varietà della montagna nel corso delle stagioni, con la ricchezza di forme, di colori, di ambienti e di atmosfere… In montagna voglio sfidare me stesso e i miei limiti fisici, certo, ma voglio anche stupirmi di fronte alla bellezza della natura, voglio poter sorridere e voglio potermi commuovere. No, la montagna non si identifica solo con cime o pareti. La montagna è più di questo e va oltre concetti come tecnica, record, difficoltà… va oltre le categorizzazioni sportive. E la montagna è “vera” quando non è piegata alle necessità, alle stravaganze e alle comodità del turista. Quando è se stessa, quando non è addomesticata, quando non è svilita, quando si rispetta la sua natura, che è poi fondamentalmente la sua dimensione selvaggia. Ecco perché ad un approccio basato sulla “conquista” della montagna ne preferisco uno che faccia leva sulla pura contemplazione, che privilegi una “via interiore”… “Pensare come una montagna”, diceva Aldo Leopold. E’ necessario vedere la complessità della montagna. Tutta la vita che pullula e che si perpetua in simbiosi con la forza degli elementi: animali selvaggi, insetti, fiori, piante rare, alberi, rocce e gole scavate da torrenti, paesaggi geologici con le loro forme uniche… Tutto questo è “montagna”.

Per capirci, i miei maestri saranno quegli alpinisti che oltre a vivere la montagna si sono prodigati per conoscerla, proteggerla e tutelarne i suoi immensi tesori naturali. Ma non solo. E’ importante infatti considerare la cultura della montagna. Non si può dissociare la montagna dall’aspetto culturale, ovvero dalle tradizioni e dalla storia delle comunità locali che in montagna hanno da sempre vissuto e lavorato. La montagna è inseparabile dai montanari, da coloro che pur tra tante avversità e contraddizioni continuano a vivere nelle sue valli. Bisognerebbe preservare sempre la memoria dei nostri avi. Ecco allora che un semplice sentiero nei boschi oppure il rudere di un ovile di pastori acquistano valore anche per essere dei muti testimoni della vita delle generazioni passate, di contadini, cacciatori e pastori; di donne e di uomini. 

Serra delle Ciavole

Molte montagne italiane sono state piegate alle esigenze del turismo di massa e dello sport. E mi riferisco alla proliferazione dei rifugi d’alta quota, la costruzione di strade asfaltate, gli impianti di risalita, funivie e piste da sci, alberghi e strutture ricettive tipicamente urbane e meta di turisti ricchi e snob (modello Cortina, per intenderci), sentieri attrezzati, con staccionate, panchine e cestini… La cosa sconcertante è che tutto ciò sia stato permesso anche nei Parchi Nazionali, cioè in quelle aree montane di cui era stata designata la tutela proprio per preservarne gli immensi tesori naturalistici e paesaggistici… Lo spirito conservazionista con cui alcune montagne italiane si volevano tutelare è stato spesso soverchiato dalle esigenze economicistiche del turista sportivo, dello sciatore portato in cima con l’ausilio della ferraglia, dell’alpinista che vuole solo arrivare alla base della cima, magari in funivia, per poterla poi scalare e “conquistare”. 

L’ esortazione che mi vien di fare è perciò di preservare la montagna, diventandone i suoi custodi gelosi e non permettendo mai per nessuna ragione che venga offesa, danneggiata o banalizzata!
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Saverio Indio De Marco è Guida Ambientale Escursionistica e Consigliere Nazionale AIW (Associazione Italiana Wilderness).

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Un approccio “wilderness” alla montagna ultima modifica: 2024-02-10T05:23:00+01:00 da GognaBlog

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37 pensieri su “Un approccio “wilderness” alla montagna”

  1. Crovella, combattere? Sporcarsi le mani e infangarsi le scarpe o come sempre parole parole parole? Buttare all’aria i tavolini sabaudi o stare al calduccio bel sistema (che tu stesso apprezzi e dici che ci stai bene). Quindi, combatti poco mi sa, se stai con il sistema. Perché è quello con i suoi paradigmi che crea lo scempio. Mi pare che gli ultimi interventi te lo spieghino bene. Ma tu neppure accetti che esistano sociologi di portata mondiale e universalmente accettati che, ADDIRITTURA, capovolgono quello che TU pensi, piccolo genio incompreso e poco amato…
    PS – La TAV in Val di Susa serve alle merci, non ai passeggeri. Le merci sono quelle cose che alimentano il consumismo e il cannibalismo, no? 😀

  2. @30 Io sono uno che scrive tanto, non solo qui, ma in ogni risvolto dell’esistenza, perché mi piace scrivere e quindi scrivo testi lunghi per definizione. Non solo non li trovo una cosa negativa, ma anzi la trovo una caratteristica positiva. Ma, su questo punto, non vedo dove sia la differenza fra te e me: non è che i tuoi commenti, mediamente, siano striminziti…(cfr 27 e 32)
     
    Se il rapporto causa-effetto è davvero quello che sostieni tu (io non ci credo in modo indiscutibile, quanto meno non sul caso di specie, perchè c’è un effetto boomerang: la società plagia i beoti consumatori, alias cannibali, che a loro volta premono per avere certe rispeto dal sistema), ma assumiamo che sia indiscutiboilmente come hai scritto tu,  bhe allora c’è poco da fare. La completa distruzione delle montagne è già scritta, è solo questione di tempo.
     
    Per come sono fatto di carattere, io preferisco combattere piuttosto che assistere impotente alla rovina totale.

  3. quanto ai rapporti di causa effetto, ma si fa per parlare eh, senza che riattacchi con frustrazioni et similia,  da quale  oscuro meccanismo sociologico deduci che orde barbariche di cannibali pressino per avere impianti e rifugi alla moda?.
    perché se tu leggessi Illich, bauman e latouche citati in altro post, nel quale hai more solito banalizzato e tirato la palla in tribuna, ma anche analisi più classiche, pare che il rapporto causa effetto sia l’opposto di quel che dici tu, è il capitalismo che crea orde barbariche di soggetti che sono incanalati nel solco del vivi, guadagna, consuma, muori,  al solo fine di ampliare i propri profitti.
    “«Il capitalismo genera bisogni artificiali sempre nuovi. Quello di acquistare l’ultimo iPhone, ad esempio, o prendere l’aereo per raggiungere la città accanto. Questi bisogni non solo sono alienanti per la persona, ma anche ecologicamente dannosi. La loro proliferazione è alla base del consumismo, che a sua volta intensifica l’esaurimento delle risorse naturali e l’inquinamento ambientale. Nell’era di Amazon, il consumismo raggiunge il suo “stadio supremo”. Questo libro pone una semplice questione: come mettere fine a questa proliferazione di bisogni artificiali? Come uscire, di conseguenza, dal consumismo capitalista? La riflessione si articola in capitoli tematici, dedicati all’inquinamento luminoso, al consumo compulsivo e alla garanzia dei beni, per elaborare una teoria critica del consumismo. Essa fa dei bisogni “autentici” definiti collettivamente, in rottura con i bisogni artificiali, il cuore di una politica dell’emancipazione nel xxi secolo. Lungo il percorso, il libro evoca la teoria dei bisogni di Karl Marx, André Gorz e Agnes Heller. Per questi autori, i bisogni “autentici” hanno un potenziale rivoluzionario. Come diceva Marx, “una rivoluzione radicale può essere soltanto la rivoluzione dei bisogni radicali”. “Chiamo ‘artificiali’ i bisogni che, da un lato, non sono ecologicamente sostenibili, che danno luogo a un sovrasfruttamento delle risorse naturali, dei flussi energetici, delle materie prime; dall’altro, i bisogni che l’individuo o la collettività sentono che in qualche modo danneggiano la soggettività, i bisogni che non danno luogo a forme di soddisfazione duratura. Bisogni alienanti, in un certo senso. L’ossessione per l’ultimo ritrovato della tecnologia, per l’ultimo capo di abbigliamento, per l’ultimo modello d’auto, questa ossessione per la novità insita nel sistema capitalista è una delle dimensioni del carattere artificiale dei bisogni”» (Razmig Keucheyan)
    anche un tale Chomsky dice cose interessanti.
    L’eventuale cannibale decerebrato che consuma è il prodotto di questo sistema, non la causa.   
    Ammesso che abbia un senso definire cannibali consumisti individui che da decenni sono oggetto di una terapia feroce di condizionamento dalla nascita  e non tutti hanno le risorse o gli strumenti per aprire gli occhi.   

  4. Crovella, il tuo ultimo commento (26) gira completamente a vuoto. Ti richiami ai “bisogni dell’umanità” per difendere l’indifendibile, e posso concederti che non c’è paragone tra la costruzione di una nuova linea ferroviaria e l’ampliamento di un comprensorio sciistico, ma è solo una questione di dimensioni: il principio è lo stesso ed è il bilancio di valori economici, sociali ed ambientali, a cui non è sottratta neppure la più mastodontica delle infrastrutture del mondo (del resto, cosa sono i “bisogni dell’umanità” se non una somma di tutte queste cose: altrimenti uno potrebbe dire ma chi se ne frega della wilderness, no?).
     
    Curioso, infine, che dei politici tu riesca solo a scrivere che “ne cavano tornaconti sotto banco”, lungi da me infatti l’avere insinuato una cosa del genere: quando parlo di politica lo faccio senza dietrologia, sostenendo semplicemente che sono proprio i politici ad avere la possibilità di fermare lo scempio dell’ambiente. In presenza di ragioni di opportunità, di sfruttamento dell’ambiente, vanno sempre incontro a queste ultime, dimenticandosi regolarmente delle ragioni opposte, di sensibilità e di conservazione. Non so perché lo fanno ma so che non votarli, per quel che mi riguarda, è l’unica cosa da fare.
     
    Tu però ci sei dentro, dici di fare parte di circoli di scambio (di informazioni, favori, opinioni) e di gruppi di lavoro legati a un partito. Se lo dici tu che i politici fanno certe cose… io cosa vuoi che dica? Amen. Però sei tu che lo affermi, non io. E te la prendi coi runner. Boh?

  5. ipse dixit. 🙂
    non sono inacidito, Crovella, trovo semplicemente i tuoi interventi privi di alcun senso, tautologici  e decisamente straripanti, come in molti altri hanno rilevato (diamo per letto che nei tuoi circoli sei the best) e  tali da divenire fastidiosi e rendere spesso inutile seguire una discussione.
    Non ho alcun frustrazione da scaricare, tranquillo, leggo il gogna blog per diletto e talvolta quando mi va , etc, dico la mia.
    Caso vuole che le poche volte che mi vien voglia di intervenire  siano i non sense che scrivi abbinati a temi che mi appassionano (poi se vuoi disertiamo sulle frustrazioni e le valvole di sfogo di chi da anni inonda questo spazio con il proprio ego…).  
     
     

  6. Sulla TAV, che qui non c’entra un cappero (non sono io che l’ho tirata dentro), c’è stato un nutrito scambio di commenti qualche tempo fa, a naso direi introno a novembre 2023, agganciati a un articolo che parlava proprio di TAV: gli interessati facciano ricerca appropriata.
     
    La correlazione fra cannibali consumisti e sfaceli ambientali (che io sostengo che arrivano in risposta alla domanda consumistica dell’attuale modello turistico), sfaceli fra cui, a titolo di esempio, l’attacco la Vallone delle Cime Bianche, l’ho spiegata almeno una decina di volte nei commenti precedenti (oltre al fatto che tale collegamento è chiarissimo). I cannibali consumisti non sono esclusivamente dei climber o dei rider o dei runner o degli skialper, ma sono trasversali a tutti i settori: la stragrande maggioranza dei pistaioli dei nostri giorni ha un approccio consumistico ed edonistico.
     
    Per cui come c’è una domanda cannibalesco-consumistica che “richiede” il rifugio con SPA e apericena anche a 4000 metri , altrettanto sicuramente c’è una domanda cannibalesco-consumistica nell’ATTUALE mondo dello sci di pista che richiede tutte le cose citate. Il modello turistico della montagna (più in generale dell’outdoor) è lo stesso in maniera trasversale fra le discipline.
     
    Perché sei sempre così inacidito? L’impressione che dai è che scarichi frustrazioni che non c’entrano nulla né con il tema, né con il sottoscritto, né con la montagna… 

  7. sul tema dell’articolo, che nontrovo di particolare acutezza o impegno filosofico, ma che rappresenta uno spunto èperosnale di riflessione, che può indurne altri identro di noi, mi limito ad osservare che dal dizionario di gogne (oxford languages) esce questa definizione:” Attività che impegna, sul piano dell’agonismo oppure dell’esercizio individuale o collettivo, le capacità fisico-psichiche, svolta con intenti ricreativi ed igienici o come professione.”
    Mi pare un’ottima sintesi che consente di definire sport anche l’approccio alla montagna che, più o meno sportivo, più o meno atletico, più o meno ricreativo, volto a salire quella determinata via o semplicemente a farsi una bella pellata è comunque e sempre una attività fisica che implica un confronto psichico (quantomeno con noi stessi).
    Alla faccia dei cannibali, siamo tutti un po sportivi :o) 

  8. ed anche il post sulle motivazioni dell’andar per monti è finito triturato nel gigantesco frullatore le cui tre lame arrugginite sono “meno montagna per pochi”, “i cannibali”, “noi sabaudi che abbiamo educato gli scislpinsiti meglio dei giovani balilla” e “leggi meglio che io scrivo bene sei tu che non capisci”.
    sia mai che so possa riflettere  senza giudicare, catalogare e distribuire patenti di cialtroni a chiunque abbia una visione diversa.
    Il cannibale crovelliano è lo sportivo consumista che bada solo alla prestazione, senza contare che aldilà della teoria di cominetti, che condivido, è plausibile che ogni persona che si rapporta ai monti abbia una propria modalità di approccio e che è possibile che il fighetto iperallenato che corre sino in cima al monviso con la tutina magari abbia una sensibilità tripla del romantico scialpinista allevato a pane e crovella, perché come sempre alla fine conta l’uomo e io in quaranta e rotti anni di frequentazione dei monti non vedo tutte queste orde barbariche.
    I coglioni sono sempre esistiti, ora come allora e forse vedo più consapevolezza oggi fragile ragazzi in gamba che trenta anni fa nelle gite  caiani retorici
    quindi ogni etichetta è, di per se, stupida e inutile. 
    Sarebbe tuttavia curioso comprendere come si possa ammassare una certa tipologia di persone in una categoria da avversare e a cui accomunare tratti comuni a caso, e – su quella base – imputargli tutte le colpe del male,  se non in un ottica oltremodo pericolosa che Genoria ha opportunamente definito in altro commento.
    MA soprattutto, sarebbe curioso comprendere cosa c’entrino i cannibali con la funivia delle cime bianche, che è plausibilmente volta a soddisfare esigenze di profitto di soggetti finanziari che gestiscono l’indotto dello sci, offrendo un panorama più ampio e appetibile (ammesso che nevichi) all’ utente.
      More solito si viaggia per postulati (e speso per solenni fesserie) come quello che la tav è utile all’umanita e la funivia no. quando qualunque seria analisi del trasporto merci  indurrebbe a ritenere il contrario e quando è facilmente intuibile che sono iniziative economiche che fanno gola a chi le realizza non a chi le utilizzerà.
    La compulsiva e onanistica veicolazione del proprio io e la profonda ignoranza (nel senso letterale) sono decisamente un mix letale.

  9. Non intendo dilungarmi, ma mescoli due cose che non c’entrano nulla l’un con l’altra, specie a corollario dell’articolo principale, che riguarda la ricerca della wilderness o l’approccio sportivo all’andar in montagna di ogni singolo. Fra un’opera di trasporto internazionale come la TAV e una funivia inutile come quella del Piccolo Cervino (a puro titolo di esempio) c’è un abisso concettuale, indipendentemente dall’eventuale solido piano industriale e dalla dichiarazione di impatto ambientale. La prima è una delle infrastrutture di cui l’umanità ha cmq bisogno, la seconda è la risposta alla domanda consumistica del modello turistico. che a monte di tale funivia ci sia un solido piano industriale non rileva nulla. Gli imprenditori si gettano a pesce su queste opere, così come i politici che ne cavano tornaconti sotto banco, ma lo fanno sulla base di una preesistente domanda consumistica, non viceversa.

  10. Crovella, se dietro alla costruzione di un’infrastruttura ci sono un solido piano industriale ed una valutazione d’impatto socio ambientale positiva, non c’è motivo per non procedere. Tu stesso usi questo argomento a favore della costruzione della TAV.
     
    Ovviamente l’argomento non vale quando si tratta di rinnovare o potenziare stazioni sciistiche in luoghi dove oggi, Febbraio 2024, sta piovendo a dirotto, e dove nel corso dell’inverno 23/24 ci sono stati non più di 10 giorni con temperature sotto lo zero, un paio di nevicate e il resto pioggia o giornate di sole primaverile. In questo caso si costruisce solo per aggiudicarsi un finanziamento.
     
    Simile ragionamento si può fare per il concerto di Jovanotti in spiaggia, quando stiamo parlando di un’iniziativa che, a differenza dell’impianto sciistico di cui sopra, ha certezza di successo, ma anche certezza di far pagare all’ambiente un prezzo altissimo. 
    in entrambi i casi il problema non sono i consumatori (i “cannibali”), il problema sono quelli che avrebbero la possibilità politica di fermare tutto, e non lo fanno. Non è una questione di causa-effetto perché non c’è nessuno che va a sciare sui prati, anche se serviti da una nuovissima cabinovia, così come non ci sarebbe nessuna cabinovia in territori vergini di alta montagna, a servire gli appetiti di tanti (consumisti, conformisti, cannibali), se i progetti di costruzione venissero fermati in sede politica, per motivi di scempio ambientale.
     
    prendersela con i runner cannibali non serve a niente, fa anzi il gioco delle stesse cricche predatorie. Prenditela coi politici, visto che li conosci da vicino (così sostieni).

  11. mah… temo che  spesso sfugga la direzione in cui agiscono rapporti di causa-effetto. L’aggressione degli imprenditori “affaristi” alla montagna per nuovi progetti consumistici è la conseguenza (e non la causa) della domanda consumistica del modello in essere, modello che è a sua volta alimentato dalle esigenze consumistiche della stragrande maggioranza dei suoi componenti. Se non ripuliamo il modello da tale criticità, è complicato combatterele iniziative affaristiche.
     
    Se i frequentatori della montagna avessero, tutti, lo spirito espresso dall’autore dell’articolo (e da me condiviso), a nessun imprenditore verrebbe in mente di costruire, puta caso, la demenziale funivia del Piccolo Cervino o perpetrare l’aggressione all Vallone delle Cime Bianche: semplicemente non ci sarebbe la relativa domanda e quindi non ci sarebbero spazi apprezzabili di profitto. Che sono la variabile chiave nell’ottica degli imprenditori.
     
    Se non risolviamo il problema “a monte” (scusate il gioco di parole), strozzando la domanda consumistica nella platea dei fruitori della montagna, è arduo pensare di combattere le iniziative affaristiche, una volta che emergono, proprio in risposto a detta domanda. Quanto meno ci si trova a combatterle nuotando controcorrente… con minori chance (e molta maggior fatica) di riuscire a bloccarle.

  12. Premetto che non ho nessun problema con quelli che si vantano dei propri record – solo, mi annoiano un po’, ma posso conviverci – però se si deve parlare della componente sportiva in alpinismo, allora io ho un’opinione diametralmente opposta a quella di molti. Io dico: ma ben venga un po’ più di trasparenza, così che a brillare siano solo le imprese vere e non anche (o soprattutto ?) le gesta di quelli che godono di migliore copertura mediatica. In alpinismo ci sono ancora troppi misteri e troppi risultati “certificati” da personaggi improbabili. Le classifiche, in alpinismo, le fa Instagram (per numero di like o follower). Non stupisce che, in un mondo così, vi siano poi quelli che si sentono in diritto di promuovere le proprie mediocrità come se fossero record del mondo. Basta una foto ben fatta (e l’eco del Gognablog, in qualche caso).
     
    Poi magari i cannibali di questo mondo sono anche i romantici, quelle anime belle che si dilungano in descrizioni noiosissime delle loro passeggiate nel bosco. Magari i cannibali di questo mondo sono quelli che lo prendono come un palcoscenico dal quale martellare gli zebedei con le proprie idee balenghe. E non ci sarebbe niente di male, per carità, se non si volesse poi anche sostenere che il problema è la libertà eccessiva delle persone, arrivando ad argomentare che la difesa dell’ambiente montano dovrebbe cominciare propri da una limitazione di queste individuali libertà, perché “ci sono troppi cannibali che in montagna ci vanno solo per sport”. 
     
    Ma per favore! L’ambiente montano va difeso soprattutto dagli interessi industriali predatori-  a me pare una cosa ovvia, ma evidentemente non lo è per tutti – per cui servirebbero politiche serie e politici credibili impegnati ad attuarle. Il problema non sono quelli che usano la montagna per promuovere le proprie piccole cose e, come ho detto all’inizio, se questo è il vostro problema, allora ben venga un po’ più di trasparenza sportiva, ché si farebbe piazza pulita di tanta mediocrità.

  13. Ho esplicitamente scritto mille volte (e qui nell’intervento n. 18) che il CAI è, purtroppo, infarcito a dismisura di quelli che io chiamo i “falsi soci”. Sono in genere dei cannibali, nella versione moderna (cioè atleticamente e tecnicamente molto “vispi”) che si associano al CAI non per condividerne lo spirito e l’ideologia, bensì per usufruire dei servizi offerti (sconti, coperture assicurative, ecc). In effetti è un problema nel problema, ma non credo sia ipotizzabile una scrematura qualitativa dei soci CAI all’interno di un modello che rimane inalterato nelle sue attuali caratteristiche “consumistiche”. O si riesce a scremare la folla che aggredisce le montagne (e, di conseguenza, si ridurrà anche il numero dei soci CAI, perdendo i cosiddetti “falsi soci”), oppure entrambi i fenomeni aumenteranno di dimensioni e, purtroppo, di effetti nefasti sulle montagne.

  14. 18. punto 1: ennesima castroneria che non merita commento, merita solo un  altro prrrrrrrrrr.
    Volevo invece consigliarti, se veramente hai a cuore l’interrompere questa proliferazione di attrazioni acchiappa utenti, di andare nella tua sede CAI e chiedere ai soci di attenersi scrupolosamente a quanto stampato sul nuovo Bidecalogo, ed in modo particolare al punto 12.
    E’ infatti al di fuori di ogni dubbio che i principali fruitori nonchè pubblicizzatori delle nuove vie ferrate siano gli stessi soci CAI, che non perdono istante per condividere sui social le foto sul ponte tibetano o sulla scala verticale, quegli stessi soci che non sanno che l’associazione alla quale sono iscritti (ci metto la mano sul fuoco da quanto sono sicuro di questa affermazione!) ha messo nero su bianco la seguente frase:  il CAI è, e resta, contrario all’installazione di nuove vie ferrate e/o attrezzate. SI ADOPERA, OVUNQUE POSSIBILE, PER DISMETTERE LE ESISTENTI (il maiuscolo è mio), con la sola eccezione di quelle di rilevante valore storico.
    Avete mai visto qualcuno del CAI promuovere nella realtà questo condivisibilissimo punto? Perchè invece di rompere il cazzo a chi si muove in libertà, magari con approccio sportivo ma in punta di piedi, non rompi il cazzo a chi ha dimostrato negli anni nei fatti di essere il vero nocciolo del problema?
     

  15. Io invece rilevo che nessuno si è mai soffermato sul reale significato di “sport” ma solo sulla sua degenerazione.
    Sport non significato competizione, record, conquista, superamento ecc. ecc. Semplicemente sport significa divertimento, utilizzata in Inghilterra fin dal 1500, e derivante dall’antico francese desport (spagnolo deporte, italiano diporto) che significava divertimento, svago, ricreazione. Solo successivamente è stato modificato nell’accezione moderna di attività codificata, con competizioni e premi.
    Io personalmente, sono sempre stato più “attaccato” alla versione originale, per me più vera. E se mi chiedi se faccio sport, la risposta è sì, faccio sport…
    E’ ben buffo che nonostante l’attuale significato imperante, si usi ancora il modo di dire “lo faccio per sport”, quindi lo faccio per svago o divertimento, riallacciandosi così all’origine…

  16. direi che due sono i punti cardine emersi in questa riflessione.
     
    1) tutti i veri appassionati di montagna hanno a cuore la montagna, ovvero l’ambiente naturale e tutto ciò che le ruota intorno sul piano culturale, storico, etico ecc. Il punto cardine che chi ha un approccio sportivo NON ha questa impostazione, perché “vede” la montagna né più né meno di come guarda una pista di tartan su cui “correre” e quindi non capisce neppure le considerazioni che esponiamo.
     
    2) si è parlato di dare l’esempio. Ottimo, e chi non lo fa? Con interventi, conferenze, scritti e soprattutto all’atto pratico. Io da solo ne ho educato centinaia, forse migliaia. E tutti i miei colleghi altrettanto. Solo che l’esempio risulta efficace se i destinatari ti vedono sistematicamente. Batti oggi, batti domani, alla fine li forgi. Ma purtroppo non siamo più nel quadro storico in cui si passava attraverso il CAI, le sue scuole, le sue commissioni gite per approcciare la montagna. Sempre più numerosi sono quelli che vanno in montagna del tutto al di fuori del CAI (o, in subordine, vi sono altri che io chiamo i “falsi soci”, cioè quelli che si iscrivono al CAI, ma solo per utilizzare i servizi come se fossero distribuiti da una qualsiasi piattaforma commerciale: sconti, coperture assicurative, informazioni ecc). Spannometricamente, guardandomi in giro e leggendo i vari interventi (su ogni tipo di spazio web, non solo qui), mi pare di poter concludere che l’approccio “sportivo” si collega in genere ai “non CAI”. Conclusione: complicato che il proprio esempio, nobile, faccia davvero presa su individui che, per prima cosa, ti ridono in faccia dandoti del caiano… alla fine fine, il problema irrisolvibile è proprio questo qui.

  17. Ogni alpinista, ogni arrampicatore, dovrebbe avere a cuore la presenvazione  dell’aspetto naturale e selvaggio, dell’ambiente in cui pratica propria attività? Io dico di SI! Dovrebbe essere una sua prerogativa, un suo dovere, un valore da rispettare. Questo non solo per quanto riguarda l’aspetto della pulizia, ma anche nel cercare di NON trasformare i luoghi, in luna park per soddisfare il proprio egoismo arrampicatorio, o per incentivare il turismo verticale. Ci si dovrebbe sforzare a mantenere i luoghi più aspri possibile, per non cambiarne l’anima,  mettendo in secondo piano gli aspetti tecnici.
     

  18. Splendide foto e altrettanto le riflessioni che l articolo propone.
    E’  nella solitudine che misuriamo chi e quanto  siamo noi stessi.
    La falsa sicurezza che da’ il gregge aiuta il lupo a sbranarti meglio.
    Sport equivale a regole  a giudici e arbitri, quindi l alpinismo non vi può appartenere…
    È stato un piacere leggerti e condividere i tuoi pensieri e domande.
     

  19. Quelle que soit l’approche de la montagne,
    toujours rester humble et respectueux.
    Et, éduquer, éduquer, car cette attitude s’apprend.

  20. Io sono convinto che siamo giunti ad un livello quantitativo che rende impossibile coniugare “libertà” e “rispetto ambientale”. Vale ben al di là dell’alpinismo e della montagna. I numeri umani sono tali che l’ideale della libertà (intesa anche come rispetto dei comportamenti altrui, seppur diametralmente opposti a quelli personali) non convive più con il sano rispetto dell’ambiente, e inoltre del passato (storico) e del futuro (per le prossime generazioni).
     
    L’attuale modello consumistico di approccio alla montagna è fondamentalmente alimentato da quelli che, d’ora in avanti, chiamerò i “cannibali di oggi” (spero con tale definizione di aver aggirato le precedenti incomprensioni terminologiche). Questi ultimi, salvo eccezioni che per carità esisteranno anche per singoli individui, sono sostanzialmente animati dall’approccio “sportivo” alle varie discipline della montagna. La loro “cissa” sta nel registrare costanti miglioramenti personali, o tecnici (es grado in arrampicata) o atletici (quanto dislivello e in quanto tempo). Il tarlo di fondo di tale approccio è che riduce la montagna a un qualsiasi spazio in cui praticare sport, come un palazzetto o un parco cittadino. Nelle mia visione a corrisponde lo “sputtanamento ideologico” della montagna.
     
    Ma il vero danno è ben altro. Un modello costituito da innumerevoli cannibali di oggi, inevitabilmente “consumisti”, è affamato di nuovi spazi da conquiste: nuovi impianti, nuove strade, nuovi rifugi. Se sosteniamo tale modello, non stracciamoci le vesti se, a puro titolo di esempio, detto modello consumistico tenta di sbancare il Vallone delle Cime Bianche: è inevitabile, nella mentalità che lo anima. Eppure io registro che, anche in questo blog, spesso i commentatori sono estremamente incoerenti fra un giorno e l’altro. Se c’è un articolo (puta caso) sulle Cime Bianche, allora tutti a far grandi proclami di difesa della biodiversità e di accusa ai soliti politici avidi di soldi ecc ecc ecc. Ma il giorno dopo, a fronte di un articolo come quello odierno, gli stessi commentatori si ergono a paladini delle libere scelte individuali, senza rendersi conto che l’attuale mercato è ormai inquinato dai “cannibali di oggi” e quindi spinge verso quelle azioni (nell’esempio: Cime Bianche) che i commentatori stessi vogliono osteggiare. Delle due l’una: o si sta sempre dalla parte del modello o si sta sempre contro. Non si può stare con un piede dentro e un piede fuori. Per me questo  è incomprensibile.

  21. L’andare per i monti è un fatto molto personale, la aspirazioni , le sensazioni, le emozioni, sono diverse per ognuno di noi. Per indole personale ho sempre preferito l’aspetto avventuroso a quello della pura difficoltà, cercando anche pareti e vie dimenticate non alla moda.  Aprendo vie che sapevo benissimo non avrebbero incontrato il favore dei ripetitori, ma che a me intrigavano assai.  Ma non posso negare che se mi riusciva di fare una determinata difficoltà, un particolare tiro con un certo stile in falesia,  non ne fossi orgoglioso. Anche le stagioni della vita incidono sulle aspirazioni e sulle scelte. Nei frenetici anni giovanili si spara grosso, si mira in alto.  Non c’è bisogno di gran recuperi, bastano poche ore di sonno e si riparte come nulla fosse. In questi anni l’aspetto sportivo, tecnico, della ricerca della difficoltà , prevale.  L’attività e frenetica. Gli anni passano e le scelte si fanno più meditate e selettive. Inutile negare che dentro di noi non ci sia l’aspirazione  ai  traguardi, ai primati: prime solitarie, prime salite, prime invernali.  Dire che lo si fa solo per noi stessi, non so quanto sia sempre vero. Queste gare, con noi stessi ma anche con gli altri, a voler essere primi,  fanno parte dell’ appagamento personale ma anche  della voglia di poter dire sono stato il primo, ho alzato l’asticella. Come giustamente scrive Ugo Manera, l’alpinismo è simbolo e sinonimo di libertà. Alle giuste condizioni del rispetto dell’ambiente e di chi verrà dopo,  aggiungerei il rispetto di quello e di come  è stato fatto prima,  perchè la storia sulle pareti va rispettata e non cancellata dalla mania della fruibilità che pretende il turismo.

  22. Al di là del fatto di avere trovato l’articolo un po’ ingenuo e banale, pur condividendone i propositi, i commenti mi hanno fatto pensare alle origini del mio andare in montagna.
    Non ho mai amato lo sport fine a se stesso pur avendone praticati moltissimi da giovane. Proprio l’avere fatto tanto sport mi ha reso chiaro quello che non mi piaceva, mettendomi in grado di fare delle scelte. 
    L’alpinismo, fin dall’inizio, aveva per me una forte componente sportiva molto varia, assieme al fascino di conoscerne piano piano la storia e i personaggi, collegandoli alle ascensioni che facevo. Il tutto era immerso in un ambiente naturale che trovavo bellissimo e giusto. 
    Il doversi allenare costantemente sul piano fisico può fare assomigliare l’alpinismo a uno sport ma il livello di pratica sul terreno richiesto per limitare i rischi e magari goderne, lo rende unico e slegato dalle regole degli sport. Ho sempre pensato che un alpinista deve tendere a pensare come un camoscio e come un camoscio a sentire quello che l’ambiente naturale gli trasmette. Solo una buona simbiosi tra il proprio corpo, la mente e l’ambiente circostante ci può fare portare il più delle volte la pelle a casa e farci provare piacere.
    Un approccio solo sportivo all’alpinismo lo trovo rischiosissimo,  nonostante essere veloci sia una condizione di sicurezza insostituibile, ma non basta.

  23. Da appassionato di montagna e di “cultura montana” non posso che condividere la visione romantica e, purtroppo, oggi sempre più utopistica di Saverio.Ma il mondo è vario, come lo è il genere umano, ed è naturale che ci sia un’ampia gamma di approcci, da quello più consapevole, responsabile e intimamente interessato fino a quello del mero “fruitore”, o del “record-man”, per cui stare nella Natura equivale a un parco giochi o a una palestra all’aperto. Legittimo anche questo, purché non sia irrispettoso dell’ambiente… Tecnologie e “passaparola informatici” di ogni tipo portano sempre più gente (anche qui, “di ogni tipo”) tra la natura e i monti e il guaio è soprattutto che, oltre all’affollamento fine a se stesso, con il dilagare dell’ “escursionismo/alpinismo/ferratismo … di massa” le amministrazioni e gli enti sono pronte ad assecondare o promuovere queste forme di turismo (e accesso) a tutti i costi … Così si stravisano ancor di più l’ambiente con la solita scusa della valorizzazione, aprendo sempre più strade, mettendo cartelli ovunque, inaugurando eco musei (che diventano ruderi dopo pochi anni), ponti tibetani e “macroattrattori” vari. Con tanti saluti alla  wilderness!Si cerca di facilitare sempre di più la mera fruizione, e di servire “pacchetti” a masse di camminatori, tra i quali solo solo pochi sono realmente immersi nella cultura montana e darebbero il proprio tempo per la tutela dell’ambiente naturale. Abbiamo già visto nel boom del dopoguerra come la politica e l’economia italiana reagiscono alla forte “domanda” (in quel caso relativa agli sport invernali): strade, alberghi e impianti ovunque… Montagne e natura sono, per lo Stato italiano e per le altre istituzioni, una “posta in gioco” che si fa sempre più alta con l’aumento dei camminatori. Muovere soldi e investire, conta solo quello e il resto (boschi, lupi e orsi e tutto il resto) è solo uno specchietto per le allodole postato sul web e i social.

  24. l’articolo propone una riflessione sull’andar per monti, condivisibile o meno e offre spunti su una approccio all’ambiente montano più meditato.
    Ognuno di noi nel corso della vita ha probabilmente mutato (per fortuna) vedine e approccio a seconda del sentire del periodo, dell’età, della crescita interiore…
    MAnera (che apprezzo e stimo per le riflessioni sempre garbate e per l’imponente attività montana , che ho avuto come istruttore a un corso istruttori molti anni fa e che saluto), ne ha dato sintesi mirabile, cercando di sopire l’ennesima tirata  sui cannibali.
    Si potrebbe rimanere in tema evitando l’ennesimo concionamento ipertautologico.
    Del resto con chi dice che lui scrive chiarissimo ed è l’interlocutore a non capire mi pare inutile ogni riflessione.
    Dato per assodato che secondo il sabaudo il male sono i cannibali e i numeri (sono un pò tesi da wef de noialtri, ma tant’è) potremmo andare oltre?
    io penso che in montagna, come nella vita, l’unico senso sia trovare il bello in quello che si fa, che è uno dei tanti modi per capire chi siamo (che è poi lo scopo del percorso su questo pianeta).
    A volte accadrà rincorrendo la prestazione sul monotiro e altre camminando da solo in un bosco. Ognuno avrà il proprio modo, finché non leva qualcosa agli altri, perché giudicare? 
     
     

  25. @7  Guarda che la mia affermazione “forti atleticamente e tecnicamente” va sempre e solo riferito alla “massa”, non ai top. intendo dire che, oggi come oggi, i cannibali non sono solo quelli che si imbranano sul II grado. Anzi. I cannibali moderni sono forti, paradossalmente è questo il guaio. Magari fanno 3000 m di dislivello e 7o arrampicano su gradi elevati, ma lo fanno con un approccio “sportivo”.  I problemi derivano dalla massa non dai pochi alpinisti di vertice. La logica e i comportamenti degli alpinisti di vertice (nel cambiamento dell’evoluzione tecnica, ovviamente) non sono vistosamente cambiati nella storia dell’alpinismo. La grossa differenza degli ultimi 25-30 anni è nella tipologia dell’approccio alla montagna da parte della massa. 50 anni fa, nella massa degli amatoriali della domenica, l’approccio sportivo c’era, ma era limitato ad una minoranza pressoché irrilevante, oggi è invece il dato maggioritario. E’ questo il problema. Da qui le conseguenze….

  26. @7 Scusa, ma tu hai fatto un esempio di un “alpinista di punta”, quando io esprimo considerazioni (condivisibili o meno) sulla “massa”. Stai parlando di una cosa completamente differente rispetto al campo delle idee  che esprimo io. E’ ovvio che l’alpinismo di punta, per andare “avanti” nella sua evoluzione, deve obbligatoriamente avere al suo interno una componente “sportiva, in ogni tempo, quindi anche oggi.
     
    I grossi problemi dei giorni nostri non derivano dai pochi top climber, ma dalla grande massa di illustri sconosciuti che affrontano la montagna con mentalità “sportiva” (applicata ad attività della domenica). Tutto ciò alimenta un modello turistico dal taglio molto consumistico, da cui derivano le conseguenze che vediamo ogni giorno: impianti a manetta, strade, proliferazione di rifugi/bivacchi, apericena con cubiste, ecc ecc ecc. E’ un modello espressamente costruito sulla base delle esigenze dei cannibali e quindi con caratteristiche chia piacciono a quel tipo di utilizzatore.
     
    C’è un corollario. Non si può avere la moglie ubriaca e la botte piena. O si accetta (convintamente o supinamente, poco rileva) il modello che ha preso il sopravvento o ci si oppone. Io m i oppongo, perché sono convinto che comporti lo sputtanamento della montagna. A chi invece piace il modello attuale, sarebbe meglio che esprimesse però coerenza: se vi schierate su quel fronte, allora non urlate allo scandalo, nei commenti di altri articoli, per la pista da bob, per gli ennesimi impianti burla, per l’affollamento all’Hillary Step. Sono inevitabili conseguenze proprio del modello consumistico, cucito sulla base delle esigenze dei cannibali.

  27. Carlo, dato che ti conosco, ho preso l’abitudine di far precedere ai miei commenti le tue parole testuali, in modo che tutto sia chiaro come la luce del sole – incontestabile – e a scanso di obiezioni prive di fondamento.
     
    Purtroppo ora non basta neppure quello.
     

  28. Oggi vediamo in giro troppi “sportivi” (parlo degli illustri sconosciuti) per i quali i dati salienti sono il dislivello della giornata, il tempo impiegato, il grado superato ecc ecc. Oltre a ciò non c’è “nulla” e questo rappresenta la desertificazione ideologica dell’andar in montagna.
    “Non ho mai sopportato moralismi di nessun tipo, alpinismo e montagna sono per me sinonimo di libertà ad una sola condizione: quella di non arrecare danni all’ambiente e conservalo per se stesso e per chi verrà dopo”
    Che dire! Un bel prrrrrrr al primo e grande ammirazione per i contenuti del secondo, un intervento da conservare nella memoria. 
     

  29. L’articolo in oggetto ha senza dubbio dei nobili propositi che é quasi impossibile non condividere. A mio avviso ha però il difetto di voler indicare una scala di valori che in qualche modo mette quasi sotto accusa la componente sportiva dell’alpinismo e dell’arrampicata.
    Scalo dal 1957 ed ho attraversato credo tutte le componenti che spingono a praticare l’alpinismo. Dall’incanto dell’ambiente alla ricerca dell’avventura, dalla spinta sportiva verso le difficoltà ed al superamento dei miei limiti all’altrettanto sportiva ricerca di arrivare per primo a risolvere il problema di una via mai salita o di una prima invernale. A 85 anni non rinnego nulla del mio alpinismo e rifarei tutto. provo rimpiango per gli ambienti di alta montagna che non sono più in grado di raggiungere, ma lo stesso rimpianto lo provo nel non andare più oltre il 6a su di un monotiro. Non ho mai sopportato moralismi di nessun tipo, alpinismo e montagna sono per me sinonimo di libertà ad una sola condizione: quella di non arrecare danni all’ambiente e conservalo per se stesso e per chi verrà dopo. Accanirsi nella condanna dei così detti “cannibali” credo serva molto poco, chi non ha la cultura del rispetto se ne frega di tali condanne. Cosa fare per salvaguardare il più possibile quel pezzo di mondo che amiamo, già tanto provato dai cambiamenti climatici? Difficile indicarlo, forse con l’esempio, forse attraverso la cultura alpina ed alpinistica sostenendo e diffondendo la letteratura relativa. Non a mio avviso attraverso filippiche moralistiche o mettendo all’indice la componente sportiva di alpinismo ed arrampicata, tendenza conservatrice di un antico passato ormai obsoleto. Certo bisogna impegnarsi contro proliferazioni di nuovi impianti, nuove strade, nuovi rifugi (o ampiamenti sconsiderati), manifestazioni di massa in alta quota, mezzi motorizzati sui sentieri, regole anche per su sentieri delle MTB (specie quelle elettriche) e chi più ne ha più ne metta.
     

  30. Non mi riferisco ai top climber, i quali per loro natura sono animati da una componente “sportiva”. Mi riferisco alla massa informe, che oggi è in gran parte di tipo “sportivo”. Lo si deduce dall’implicito discorso “numerico”. Guarda che il discorso è molto chiaro (peraltro espresso più volte, non vedo cosa ci sia da cadere al pero dopo tutti questi anni… te ne accordi solo adesso?), mentre la confusione la crei tu nell’interpretare male i  concetti che sono espressi con chiarezza.

  31. ———  REPETITA IUVANT  ———
    Io ho sempre considerato l’alpinismo una meravigliosa avventura dello spirito, non un’avventura dello sport.
     
    Mi dispiace che qualcuno lo tratti alla stregua di una mera attività sportiva (anche perché, cosí facendo, si perde tutto il resto!). Però, per questa differenza di concezione, non gli “sparo”.
     

  32. Il problema attuale non è solo l’enorme numero di fruitori della montagna, ma il fatto che essi, in enorme maggioranza, abbiano un approccio sportivo. Sono quelli che io chiamo i cannibali, i quali possono anche essere forti atleticamente o tecnicamente, ma che sputtanano la montagna, abbassandola al ruolo di semplice palazzetto dello sport o parco cittadino dove fare jogging.
     
    Ueli Steck privilegiava l’approccio sportivo, ma non credo proprio che fosse un “cannibale”! Definiscilo “alpinista sportivo”, se vuoi, ma di certo non “cannibale”.
    Ciò vale per innumerevoli altri alpinisti che scelgono un approccio sportivo e che tuttora sono in attività sulle Alpi, in Himalaya, in Karakorum, in Pamir, in Tien Shan, in Alaska, in Groenlandia, in Patagonia, in Caucaso, ecc. ecc. e aprono vie di eccezionale difficoltà. 
    La loro è un’altra concezione dell’alpinismo, diversa dalla tua e pure dalla mia. Ma non merita la tua definizione sprezzante.
    Io amo l’alpinismo romantico e avventuroso, in posti solitari, ma non giudico “cannibale” chi scala con intenti sportivi. È semplicemente uno differente da me. Preferisco gli alpinisti romantici, ma non “sparo” sugli alpinisti sportivi.
     
    P.S. Naturalmente sei libero di usare il lessico che preferisci. Però in tal modo non ti fai capire: crei confusione.
    P.P.S. Prova a domandare ad Alessandro Gogna, in gioventú alpinista di classe mondiale e ora autorevole storico dell’alpinismo, se ritiene che Ueli Steck fosse un “cannibale”.
     

  33. Da sempre sostengo e insegno (anche perché in tale direzione sono stato educato fin dall’origine…) che l’andar in montagna, affinché sia una passione che dura tutta la vita, non deve esser un semplice sport, ma molto di più. Sport significa cercare di migliorare se stessi (nel dislivello compiuto, nel tempo, impiegato, nel grado superato…) e ciascuno ha un suo limite tecnico-atletico, oltre al quale non va. Quando ciascuno arriva a tale limite, se l’approccio è puramente sportivo, dopo un po’ si stempera la voglia di andar in montagna. si passa ad un altro sport (completamente diverso), dove, ricominciando da capo, i margini di miglioramento sono amplissimi e questo giustifica l’ego individuale.
     
    Se invece l’andar in montagna è davvero “passione”, dura tutta la vita, modulandosi alle diverse fasi dell’esistenza. Massimo Mila (accademico torinese, musicologo e intellettuale di spicco) diceva che l’andar in montagna è una delle poche attività umane in cui si fondono insieme “pensiero” e “azione”. La parte immateriale (il pensiero) è la vera discriminante: se è presente nel modo in cui ciascuno si rivolge alla montagna, allora andar in montagna non è “solo” sport. Per questo io do moltissima importanza al risvolto cultural-storico. Dopo oltre 50 anni di montagna, l’aspetto culturale mi interessa quasi più che fare gite dirette sul terreno. Ovvio che trattasi di una scelta soggettiva, ma il tema dei nostri giorni è l’eccesso di approccio sportivo alla montagna.
     
    Il problema attuale  non è solo l’enorme numero di fruitori della montagna, ma il fatto che essi, in enorme maggioranza, abbiano un approccio sportivo. Sono quelli che io chiamo i cannibali, i quali possono anche essere forti atleticamente o tecnicamente, ma che sputtanano la montagna, abbassandola al ruolo di semplice palazzetto dello sport o parco cittadino dove fare jogging. Però sia chiaro un concetto: non è l’approccio sportivo in quanto tale che rappresenta un problema (anche se a me personalmente non piace in assoluto), ma la sua attuale ampia diffusione in termini numerici. infatti un filone di approccio sportivo nell’andar in montagna c’è sempre stato e forse l’alpinismo stesso non ne potrebbe fare a meno in assoluto. La differenza è che un tempo tale approccio era limitato ad una cerchia ristretta, dove ha cmq sempre convissuto con l’aspetto intellettuale e culturale. Oggi vediamo in giro troppi “sportivi” (parlo degli illustri sconosciuti) per i quali i dati salienti sono il dislivello della giornata, il tempo impiegato, il grado superato ecc ecc. Oltre a ciò non c’è “nulla” e questo rappresenta la desertificazione ideologica dell’andar in montagna.

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