Una nuova scintilla
(scritto nel 1996)
Lettura: spessore-weight(1), impegno-effort(2), disimpegno-entertainment(2)
“Al Film Festival di Trento del 1996 è stato premiato il filmato di Renato Da Pozzo e Geri De Rosa Da un mondo ad un altro. Alcune grandiose pareti granitiche solleticano curiosità e bisogno di conquista dell’alpinista; ma invece che ai soliti preparativi tecnici, assistiamo alla presa di contatto dei protagonisti (lo stesso regista Da Pozzo e Umberto Villotta) con gli indiani Gitksan e con la loro cultura. Assistiamo cioè al tentativo di collocare la montagna nella sua dimensione sociale. Che i nostri atleti comincino a considerare le montagne non come “proprietà” di chi le scala ma come patrimonio innanzi tutto di chi da secoli, con la continuità delle proprie tradizioni, ad esse si rapporta secondo modelli diversi dai nostri? Se la risposta è sì, che sia questa una nuova scintilla?”
In questa lettera alla redazione di Alp,il giornalista Enrico Fumagalli, nel considerare che la disciplina dell’arrampicata si è impoverita (perché non è più in grado di comunicare e di appassionare un lettore), va oltre la responsabilità delle competizioni “stereotipo per definizione”: l’arrampicata, indecisa “tra prestazione ed esplorazione del mondo” è disciplina anomala che avrebbe bisogno di valorizzare esperienze nuove e “nuove scintille”.
Renato Da Pozzo. Foto: Fulvio Mariani
Credo che la prima riflessione da fare al riguardo della “mancanza di grande respiro caratteristica dell’odierna arrampicata e alpinismo sportivo” sia precisare se stiamo parlando dei lettori o degli arrampicatori/alpinisti. Sono dell’opinione che chi si allena per mesi ed anni di seguito per un’impresa, chi dedica a quest’attività gran parte del proprio tempo comunque non può essere definito un arido automa capace solo di prestazioni tecniche. Se non avesse delle motivazioni profonde, un individuo non si sottoporrebbe mai a fatiche e pericoli così grandi, e non importa quale sia la sua attività prevalente, arrampicata, alpinismo sportivo o alpinismo classico. Non è una novità che poi la stessa persona non abbia in genere le capacità di scrivere o di raccontare. Solo raramente, anche in passato, ci si eccitava ad una lettura, ad una conferenza.
Al contrario il lettore, sia pur appassionato di montagna, alpinismo ed avventura, o semplicemente curioso di prestazioni sportive, è stato molto viziato da un po’ di tempo a questa parte. Dopo l’orgia giornalistica sui 14 Ottomila di Messner, dopo l’interesse quasi vizioso dei media per l’arrampicatore a mani nude degli anni ’80, dopo la banalizzazione dell’espressione free climbing (arrampicata libera, ma da che cosa?), dopo gli stereotipi californiani, francesi ed alla fine anche quelli provinciali e, infine, dopo le competizioni che si è scoperto interessano soltanto chi le fa, cosa è rimasto al lettore? Quanta fantasia è libero di adoperare quando legge delle imprese altrui? La bravura di uno scrittore si è sempre vista dalla sua capacità di lasciare libero il lettore di fantasticare (ed è questa la qualità che una buona videocassetta dovrebbe sempre invidiare ad un buon libro).
E lo stesso Enrico Fumagalli ha colto questo problema, quando suggerisce ad Alp di occuparsi più spesso e volentieri di quei segnali un po’ diversi che arrivano dal mondo dell’arrampicata: perché è compito ovvio delle riviste di educare bene un lettore, se ormai non è troppo tardi.
Arrampicare-camminare affascina chi lo pratica e chi lo sogna perché è una delle poche attività che lascia molto alle divagazioni della fantasia: che sono così intense da chiarirci tante cose del futuro o del passato nostro. Arrampicare-camminare crea una condizione di lucidità difficilmente oggi raggiungibile altrimenti. È un bisogno che libera dalle preoccupazioni perché ci fornisce il necessario distacco: è uno splendido esercizio yoga, quindi più spirituale che fisico, che ci fa attraversare gli spazi bellissimi della natura assieme agli spazi più sconosciuti del nostro essere.
Ci sono delle precise condizioni nelle quali ciò può avvenire: senza, arrampicare-camminare è solo fisico, stancante e superficiale:
1) In quanto fatica-piacere è un viaggio nelle profondità di noi stessi: se dimentichiamo questo non faremo altro che trasferire le ansie competitive di tutti i giorni a quello che dovrebbe essere invece un raccoglimento nel nostro intimo.
2) Il teatro di questo esercizio è la Natura con le sue grandiosità ma anche con i suoi fragili equilibri. Non dimentichiamo che la nostra presenza può essere di disturbo. Cerchiamo di passare leggeri, osservatori non visti ed in religioso silenzio di fronte ad uno spettacolo sacro.
3) Se il nostro arrampicare-camminare incontra le popolazioni locali (a maggior ragione se siamo in paesi extraeuropei) il rispetto per loro è basilare. Con esse, ci troviamo di fronte ad un’altra parte di noi stessi, quella che abbiamo perso per strada tanto tempo fa.
4) Allorché si parte, sappiamo che ci sarà una fine. Dallo sport abbiamo imparato a dividere la fatica in intervalli più brevi, a crearci piccoli traguardi per verificare i nostri tempi di percorrenza: così facendo ridurremo il tempo finale, ma non avremo ottenuto lo scopo vero: arrampicare e camminare senza pensare.
Renato Da Pozzo. Foto: Martino Frova
Purtroppo non ho visto i 20 minuti del film Da un mondo ad un altro. In Canada, nella British Columbia, vive la tribù indiana dei Gitksan e sul loro territorio domina la Grand Chief di Squamish, la cui parete sud è di meraviglioso granito. Proprio quella parete è la meta dei due arrampicatori, Renato Da Pozzo e Umberto Villotta. Ma il loro viaggio non vuole essere un’incursione non desiderata, perciò chiedono il permesso di salire la parete al consiglio degli anziani della tribù. Da Pozzo mi ha parlato di quell’esperienza con toni entusiasti e veritieri. Sono convinto che per suscitare emozioni ed interesse sia necessario che chi racconta abbia veramente vissuto fino in fondo un’esperienza. Quando Reinhard Karl riuscì, in pieni anni ’80 di muscoli e magnesite, ad eccitare i lettori raccontando le sue salite e le sue cose, gli riuscì perché era in grado di raccontare delle verità che avevano una grande forza, un’energia che al contrario non possiedono le finzioni, gli stereotipi e lo scrivere quello che si crede gli altri vogliano.
Il tentativo di Renato Da Pozzo non è certo il primo, ma ci viene proposto in un momento di particolare bisogno. Anch’io sono convinto che sia necessario non trattare le montagne come elementi isolati da un contesto: la competizione ed il record ad ogni costo ci hanno spinto un po’ troppo in là nella riduzione di un territorio montagnoso, o semplicemente roccioso, ad arena per le nostre misurazioni. Siamo scesi troppo nell’anatomia di un corpo per realizzare che questo non è ancora un cadavere: ora bisogna correre dalla parte opposta del pendolo e pensare di più allo spirito. Se le popolazioni locali, con la loro semplicità, aiuteranno alpinisti e lettori a vedere sotto luce diversa una montagna ormai troppo oggettiva, ben venga: sarà certamente una nuova scintilla. Nel frattempo, mentre arrampicatori ed alpinisti studiano nuove pareti e nuove imprese, il lettore potrebbe dedicarsi a tutta quell’estesissima letteratura in cui si approfondiscono i miti ed il rapporto che le culture tradizionali hanno sempre avuto con il mistero delle montagne. E così gli sforzi per dar vita ad una nuova scintilla sarebbero equamente distribuiti.
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Nella natura tutto è di disturbo e tutto è sacro…non parliamo poi delle popolazioni locali…sono sacre fin che restano con l’anello al naso (sopratutto quelle extraeuropee…) poi fuori dai…….
Sono completamente d’accordo è ciò che penso anch’io!
Su questo blog nei fine settimana tutto si ferma!? Dov’è l’ozio creativo di qualche post fa?
Volevo dire Sass dla Crusc. Mi perdonino i ladins.
CVD! I monti senza mente sono solo sassi e merda. Tanto per allacciarmi al commento precedente di Matteo.
Renato Da Pozzo dove sei finito? Ti ricordi la torta del Riciulin sul SAS dal Crusc d’inverno?