Metadiario – 29 – Cresta Integrale di Peutérey, tentativo invernale (AG 1971-001)
La lettera di mia nonna
Mia nonna Clelia, dopo la morte di mia madre nel settembre 1969, si era ritrovata a vivere in una casa quasi deserta: la convivenza con suo genero a Genova non era problematica, ma certo non riempiva quello spazio vuoto che la morte dei suoi tre figli aveva generato e che la lontananza del nipote amplificava. Poche erano le persone con le quali confidarsi, a Genova sua sorella Angela, e a Borgomaro la nipote Emilia e pochissime altre. Sentivo che questa donna forte che tanto mi amava si stava lentamente preparando a lasciare questa vita: la solita malattia che non perdona la stava minando e indebolendo.
Nel gennaio del 1971 mi aveva scritto una lettera, in risposta ad una mia natalizia.
«Caro Alessandro, da diversi giorni ho avuto la tua lettera, che mi ha fatto molto piacere. Sento che stai bene e che sei bel fresco con queste temperature che abbiamo avuto. Ho sempre avuto tue nuove da tuo padre, ma è tanto laconico che bisogna staccargli le parole. Io mi sento un po’ meglio, ma vado molto adagio. Però, a parte le cure che posso avere solo in parte non essendo in ospedale, l’aria natia mi fa molto bene per il momento. E se succederà qualcosa a Genova c’è sempre l’ospedale. Qui sono al caldo e se non fosse per il mangiare starei benissimo. Ma per ora mi accontento, il mangiare è un po’ grosso (intende “grossolano”, traducendolo letteralmente dal dialetto “grussié”, NdA), però fa conto che ero un vero straccio, al Borgo sola e molto malandata. Scusami Alessandro se non ho ancora finito la lettera, però a te penso sempre. Non vedo l’ora che tu abbia finito, così a Milano sarai più vicino e se camperò ci potremo vedere più spesso. Mi rincresce di non averti potuto scrivere prima ma il male che ho avuto è stato parecchio e non avevo neppure la forza di muovere le mani. Devo anche rispondere a lettere che mi hanno scritto per Natale, ma ormai ho rinunciato. Non so neppure io cosa fare, ho sempre la bruciatura aperta e ogni due giorni la devo medicare a mie spese per via di un prodotto ce la mutua non passa. Se per caso posso passare questo freddo e quindi stare un po’ meglio vedrò cosa fare. Anche il dottore mi teneva d’occhio, avendo paura per la notte. Avrei anche trovato da affittare la casa qui al Borgo, ma non so come fare per trovare il posto a tutto il mobilio: aspetto te per decidere qualcosa. Qui hanno aumentato la retta, così per tutto vengo a spendere ben bene, speriamo di arrivare in qualche modo alla fine. Sono tanto stanca, e così sola. Ci vorrebbe un miracolo. Invece sono in questo posto freddo e puzzolente, vorrei un po’ di roba calda da poter digerire. Hanno cambiato la direzione e ora le cose sono peggiorate. Qui al Borgo nessuna novità (qui la scrittura tende a diventare incomprensibile, NdA), tutte le olive andate a male e un freddo… Ogni tanto vedo qualcuno di qui, ma non mi importa molto. Ti raccomando di tenervi in salute te e Nella, e speriamo potrete sistemarvi. Ricevi tanti saluti dalla tua affettuosa nonna. Saluti a Nella e abbiti riguardo. Baci e abbracci, nonna Clelia».
Cartolina di Messner (8 gennaio 1971)
«Caro Sandro, mi dispiace per la Marmolada. Ma con questo inverno c’è poco da fare. Troppa neve. Se con la Peutérey aspettate fino a marzo, forse potrei. Ma andate a farla, se il tempo lo permette. Intanto per il Manaslu 1972 le speranze non sono grandi».
La ricognizione
Passate le vacanze di Natale, con Bruno Allemand, Gianni Calcagno e Leo Cerruti, il 10 gennaio 1971 partiamo alle sei di mattina dall’imbocco del traforo del Monte Bianco per arrivare, carichi come muli, al rifugio Pivano alle 11. Il giorno dopo battiamo faticosamente pista fino all’attacco della cresta sud dell’Aiguille Noire. La sera ci raggiungono al rifugio Guido Machetto e Carmelo Di Pietro: così il 12 gennaio siamo in cinque a salire nel nevischio e attrezzare le prime sette lunghezze di corda del Pic Gamba. Dopo una notte al rifugio sembra che il tempo ci sia ostile, così scendiamo tutti a Courmayeur. Ma una schiarita ci fa insistere: mentre Leo e Guido tornano a lavorare, Carmelo, Gianni, Bruno e io risaliamo ancora in serata al rifugio Pivano, arrivandoci alle 21. Il 14 gennaio saliamo fino alla Torre Gialla, ancora tormentati dal nevischio. Smettiamo di lavorare alle 15 e torniamo al rifugio, dove intanto è risalito Guido. Nella notte nevica forte, così la mattina del 15 per raggiungere la valle dobbiamo scendere a corde doppie.
I giorni passano, l’attesa si fa esasperante. Lunedì 8 febbraio Bruno ed io risaliamo al rifugio Pivano, poi ancora fino all’attacco. Poi ancora su per qualche lunghezza per controllare le corde. Alla sera riscendiamo al rifugio dove intanto sono arrivati anche Gianni e Guido.
D’inverno sulla Cresta Integrale di Peutérey
(cronaca di un tentativo)
(scritto a fine febbraio 1971)
Martedì 9 febbraio, ore 2.45
– Good weather, sahib!
Così Guido Machetto, imitando gli sherpa himalayani, saluta le stelle e noi che dormiamo ancora sulle cuccette del rifugio Pivano (ex Borelli). A quel grido saltiamo giù dalle brande e freneticamente cominciamo la vestizione, che è lunga e accurata; gli zaini sono pronti da ieri sera e ci aspettano con la loro mole sconfortante. Ieri siamo discesi con gli sci da Plan Checrouit fino in fondo alla Val Veny e, dopo aver passato la Dora, siamo saliti fino a questo bivacco in tre ore di arrampicata.
Il tempo è splendido da ormai sette giorni, chissà se durerà ancora per altri sette od otto… D’altronde oggi è il giorno giusto per partire: prima le condizioni della cresta sud della Aiguille Noire non avrebbero permesso una salita veloce.
Ciò che ci aspetta ha un nome affascinante: 1a invernale della Cresta Integrale di Peutérey al Monte Bianco. D’estate questa salita non è stata effettuata più di dieci volte. Kurt Diemberger vi girò un film durante la terza ascensione e lì dice che lo sviluppo di questa grand course è di ottomila metri. In effetti si tratta di superare una dopo l’altra quattro tra le più grandi vette del Monte Bianco: Aiguille Noire, Dames Anglaises, Aiguille Blanche, Monte Bianco. Con tutto un contorno di cime minori di collegamento per cui occorre superare centinaia e centinaia di metri di discesa e in traversate. Ben sette giorni di ascensione sono stati programmati da noi più uno per la discesa e uno per l’avvicinamento al rifugio Pivano. Questo è internazionalmente riconosciuto il più grande problema invernale di tutte le Alpi.
Il rifugio è a quota 2300 m circa. L’attacco è a 2600 metri e si deve traversare in salita il Fauteuil des Allemands, la grande conca nevosa compresa tra la cresta sud della Aiguille Noire e la cresta est.
Alle 5 attacchiamo al lume delle pile frontali. Siamo tutti compresi nel nostro lavoro di risalita sulle corde fisse (fissate un mese prima). Purtroppo ancora molto prima dell’alba le corde terminano e noi ci troviamo nella luce incerta su terreno nuovo. La cresta Sud dell’Aiguille Noire è alta 1200 metri e fino ai 3778 m della vetta presenta sette punte, per cui saliscendi e traversate non si contano. In più un numero imprecisato di gendarmi fa perdere altro tempo prezioso. Dapprima saliamo sul fianco del Pic Gamba (1a punta), poi traversiamo sulla Bifida (2a punta), trovando condizioni di roccia migliori per la maggiore esposizione al sole. Alle 12.30 siamo sotto la vetta della Bifida, poi alle 16 attacchiamo la terza punta, la Welzenbach, alle 19 arriviamo tutti e quattro in vetta, dove ci sistemiamo su un pietrone sgombro di neve. Siamo a quota 3350 m circa.
Mercoledì 10 febbraio
Scendiamo subito all’intaglio e alle 11 siamo in vetta alla Punta Brendel (4a punta). I passaggi cominciano ad essere veramente duri (anche di V grado superiore), però li preferiamo ai tratti facili d’estate e che adesso sono ricoperti di neve e di ghiaccio. Dopo il difficilissimo diedro della Punta Ottoz, la quinta, ci troviamo su questa vetta e sistemiamo, alle 18.30 il secondo bivacco, su una cengia coperta di neve. Cominciamo ad essere alti, il Monte Bianco è esaltante con i colori del tramonto, il panorama comincia a sconfinarsi. Alla nostra sinistra, profondo, il ghiacciaio del Frêney è un accavallarsi feroce di crepe e seracchi.
Giovedì 11 febbraio
Oggi dobbiamo arrivare in vetta alla Noire, la settima punta. Dopo gli ultimi duri passaggi sulla Bich, la sesta, due corde doppie da 40 metri, un difficilissimo tratto di misto e una facile cresta, arriviamo alla madonnina della vetta. Finalmente vediamo l’ostacolo seguente: le Dames Anglaises, sprofondate in basso e l’Aiguille Blanche, più alta di noi. È tutto così enorme che stentiamo a credere di essere arrivati fin qui. Le spalle sono tutte segnate dagli spallacci dello zaino, ma non siamo ancora stanchi. Qui dobbiamo trarre il dado, perché ancora potremmo scendere e tornarcene via per la cresta est. Ci guardiamo un momento e senza una parola buttiamo giù la prima doppia. Saranno 18, quasi tutte nel vuoto, arriveremo quasi 500 metri più in basso, sulla parete nord della Noire. Non credevo fosse così difficile: ogni sosta è sulle staffe. Per recuperare le corde, Bruno Allemand ed io, appesi allo stesso chiodo, troviamo parecchie difficoltà. Più sotto Guido Machetto e Gianni Calcagno sistemano gli ancoraggi e proseguono nella discesa. Il vuoto ci dà un certo senso allo stomaco. Il buio si avvicina. Alle 19.30 siamo ancora sulle staffe in mezzo a colate di ghiaccio. Gianni 80 metri più basso comincia a scavare in un canalino di ghiaccio ripido a 60 gradi. È buio pesto quando io, ultimo, raggiungo gli altri e mi infilo anch’io nel sacco piuma. Le comunicazioni radio finora sono andate bene, perché eravamo in linea d’aria con il basso. Ora abbiamo alle spalle la mole della Noire e in più siamo in un canale con pareti di venti metri. Ed è qui che mandiamo un primo grazie riconoscente all’amico Dino Tomasini, della Scuola Alpina di Moena, che ci ha dato questi magnifici apparecchi. Ci si sente benissimo con Nella. Tutto bene, anche le previsioni del tempo.
Venerdì 12 febbraio
Continuiamo la discesa, alle 11 siamo nel canalone tra Noire e Dames Anglaises. Per 120 metri saliamo alla Brèche Sud, poi in cresta verso le Dames, quindi traversiamo sul versante Frêney su ripidi pendii di neve marcia, fino a sbucare su una spalletta da cui con sei doppie da 40 metri arriviamo nel canale tra Aiguille Blanche e Dames Anglaises. Sono le 18.30, siamo stanchissimi, ma occorre risalire il canale per raggiungere il bivacco fisso Craveri.
La notte ci sorprende su zone marce e infide, impegnati su una variante suggerita dal ghiaccio che intasa il canale. Continuiamo a rimandare il collegamento radio perché troppo impegnati. Alle 21.30 approdiamo al bivacco a 3490 metri, piccolissimo, con la neve dentro. Sorpresa! Ci sono delle bustine di tè alla menta e un barattolo di marmellata, che mangiamo subito a grandi cucchiaiate.
Sabato 13 febbraio
Il tempo non è più lo stesso, ma continuiamo. Traversiamo su zone difficili sul versante Frêney dell’Aiguille Blanche, poi ritorniamo sulla cresta e quindi sul versante Brenva. Roccia, roccia sempre roccia e sempre più sporca di neve. Arrampichiamo ormai da cinque giorni, ci sembra una vita, abbiamo arrampicato per più di cinquemila metri ormai.
Usciamo in cresta, nei pressi della calotta nevosa, tira aria di bufera. Dopo un po’ è l’inferno. Scaviamo un buco nel ghiaccio per ripararci, a quota 4000.
Domenica 14 febbraio
Bel tempo. Il morale è buono, la neve di ieri sera non si è neppure posata. Arranchiamo sulla cresta della calotta, gradinando nel ghiaccio grigiastro. Alle 12 siamo in vetta a 4108 metri. Poi cavalchiamo la magnifica cresta, superiamo le altre due punte, ci caliamo con 5 corde doppie verso il Col Peutérey; a passo di carica, con un passaggio degno di Gianni Calcagno, eccoci sopra la crepaccia terminale, e poi sulle rocce del Pilier d’Angle, fino in vetta a questo, a 4248 metri. Sesto bivacco. Il Pilone centrale, di fronte a noi, ci rammenta la terribile tragedia di dieci anni fa. Notte brutta e tormentata.
Lunedì 15 febbraio
Partiamo alle 9. La cresta del Pilier d’Angle è in pessime condizioni, i due o tre gendarmi ci fanno penare molto. Poi arriviamo all’inizio della cresta affilatissima orientale che ci porterebbe alla base della parete finale: la parete Peutérey.
Siamo a 400 metri di dislivello dalla vetta del Monte Bianco di Courmayeur. Da lì una camminata fino alla vetta vera e propria, a 4810 metri.
Ore 11.30. Siamo fermi sulla cresta di ghiaccio: Gianni per primo, a cavalcioni su una paurosa lama verde. Guido ed io vicini, Bruno un po’ indietro. Ad ovest una perturbazione in arrivo, di quelle che non perdonano. Sapevamo che l’ultima parte era completamente di ghiaccio verde e infatti avevamo previsto due giorni con un bivacco a 200 metri dalla vetta del Monte Bianco di Courmayeur.
Ore 12.00. Il cielo è tutto coperto, sta per nevicare, ma abbiamo ancora viveri (se viveri si possono chiamare gli alimenti in polvere) per oggi. Per domani era prevista la fame. Non parliamo per la discesa. Alla domanda: «perché non vi siete portati più viveri», io rispondo che un barattolo di meritene in più non ci avrebbe permesso di arrivare dove siamo arrivati e cioè ai 9/10 della intera salita, e cioè di fare le 180 lunghezze di corda sulle 210 previste.
Ore 12.30. Comunichiamo per radio che torniamo al Col Peutérey in corde doppie, e che per le 15.30 chiediamo l’elicottero di soccorso.
– Ma voi come state?
– Noi per ora bene, ma prevediamo di rimanere bloccati al Col Peutérey. Prima si alza l’elicottero meglio è.
Alla Punta Helbronner di colpo crollano le illusioni di tutti, come le nostre. Anche lì si sapeva che il maltempo era vicino, ma si sperava che i quattro ce la facessero a uscire prima. La qual cosa era impossibile, per il ghiaccio verde della Peutérey.
Ore 12.45. Iniziamo la lunga teoria di corde doppie. Alle 15.30 esatte siamo al Col Peutérey, a 3948 metri in piena bufera, come previsto. Per radio chiediamo ancora l’elicottero, il quale con questo tempo non può neppure alzarsi in volo. Allora scaviamo una grotta, abbastanza comoda, nella previsione di un assedio di più giorni.
Martedì 16 febbraio
Ore 7. Scaviamo dall’interno un buco. Fuori è l’inferno. Se in questo momento noi fossimo sulla cresta di Peutérey ci ucciderebbe in un’ora. Il vento soffia a una velocità pazzesca, la neve ci entrerebbe persino nelle mutande, lassù. Nel buco si sta abbastanza bene. Con la punta dell’antenna fuori chiediamo nuovamente aiuto, rassicurando che stiamo ancora bene e che, se il tempo migliorerà e se non cesserà il vento, potremmo scendere lungo la via dei Rochers Gruber fino al ghiacciaio del Frêney, poi traversando tutto questo potremmo salire al Colletto dell’Innominata e da lì scendere al rifugio Monzino, dove le guide potrebbero soccorrerci. Questo perché con il vento noi avremmo potuto muoverci, ma l’elicottero no.
Ore 12. La bufera è spaventosa. Noi dentro sentiamo le prime tracce d’umido. La neve si scioglie sotto le nostre schiene. Per pranzo quattro sorsi d’acqua calda con pochissimo latte e meritene. Più nessun alimento solido. L’ultima fetta di pancetta è stata divorata ieri sera. Razioniamo ormai la polvere…
Ore 18. La speranza per oggi è svanita, ma domani forse… Cosimo Zappelli ci assicura che un elicottero è sempre sul piede di partenza.
Ore 23. Non riesco a dormire. Da 33 ore siamo chiusi qui dentro. Il materiale non regge più l’acqua e sento i primi crampi di fame. Sono deciso a cominciare a scendere domani mattina, se solo la tormenta cala un po’.
Mercoledì 17 febbraio
Ore 3. Non dormo, penso. Tutti pensiamo. Dopo le discussioni sulle religioni orientali di ieri mattina, dopo il Karma, lo Zen, e le promesse di non andare più in montagna, ci è rimasta la nostra intima solitudine. Un’attesa che diventa sempre più esasperante, con l’alternativa di una discesa a piedi di minimo due giorni (con il bel tempo) e chissà quante dita congelate.
Il dramma di Desmaison e soprattutto del suo compagno Serge Gousseault sta incominciando, ma noi non lo sappiamo.
Ore 8. Buchiamo la parete della grotta con il cuore in gola. È sereno! Ora non rimane che sperare che non ci sia vento. Bruno esce fuori e per poco non viene sbattuto sulla neve da una raffica.
La radio ci incoraggia. Se l’elicottero non potesse avvicinarsi, Cosimo Zappelli, i fratelli Alessio e Attilio Oilier, Ruggero Pellin, Leo Cerruti e alcuni amici di Genova, Vittorio Pescia, Lino Calcagno, Mario Piotti, Nello Tasso, Gianluigi Vaccari e Sandro Grillo avrebbero raggiunto in giornata il rifugio Monzino, e l’indomani avrebbero buttato giù delle corde dal Colletto dell’Innominata verso il Frêney. Anche gli uomini della Scuola Alpina di Moena, con a capo Bepi De Francesch, sono pronti a partire.
Ore 9. L’elicottero sta arrivando, approfittando di una momentanea calma di vento. Nel cielo si stanno già formando gli strati di nubi. Il pilota Bellegnic è fantastico. Con due viaggi ci trasporta tutti a Courmayeur. La sera il Bianco è di nuovo nella bufera.
Inizia la ridda delle telefonate, dei telegrammi, delle interviste. Ma per noi era già tutto finito nel momento in cui, alla base degli ultimi 450 metri, abbiamo deciso di tornare indietro.
Alpinismo eroico e polemiche fra vivi
(Machetto, Gogna e soci dovevano tentare ad ogni costo la discesa?)
di Mario Pozzo
(pubblicato su L’Eco di Biella, 22 febbraio 1971)
L’avventura di Machetto e soci, «prelevati», o «salvati» se si preferisce, da un elicottero al Col de Peutérey sul Bianco, dove erano ridiscesi dopo aver raggiunto il Pilier d’Angle e aver mancato di un soffio la prima ascensione invernale integrale lungo la cresta di Peutérey, ha scatenato un’ondata di polemiche. Critiche, anche aspre, vengono rivolte ai quattro alpinisti, accusati di aver chiesto l’intervento dell’elicottero senza essere né feriti, né in pericolo di vita, di non essere scesi con le proprie gambe, di essersi portati dietro la radio, di non essersi comportati da eroi.
L’alpinismo, a quel livello, suscita immancabilmente polemiche. Da Whymper, a Preuss, a Cassin, a Bonatti, la storia dell’alpinismo è fatta di grandi imprese e di vivaci, addirittura feroci, polemiche.
Esistono due metri nelle cose di montagna, uno usato dagli esperti, dai competenti, l’altro istintivamente adottato dai più, che queste cose si trovano a seguire ogni tanto per caso; due metri che per l’occasione si sono confusi.
Questa volta la battaglia ha varcato i normali confini dell’ambiente alpinistico ed è andata in pasto al grosso pubblico che giornali, televisione e radio erano riusciti a interessare all’avventura puntando sulla drammaticità, vera o presunta, della situazione. Un fiume di parole e inchiostro che i quattro avrebbero certamente meritato, ma che altrettanto sicuramente non avrebbero avuto se, invece di scavare la buca nella neve, venire giù con l’elicottero e mancare per un soffio un’impresa storica, quest’impresa l’avessero compiuta fino in fondo, scendendo con le loro gambe a Chamonix.
Fuori dall’ambiente l’alpinismo si misura a morti. Col morto (meglio se sono due o tre) anche una salita al Mombarone diventa argomento, notizia. Senza morto, anche l’impresa più difficile, tecnicamente più valida, passa inosservata o quasi. Nel caso di Machetto, Gogna, Calcagno e Allemand, il morto per fortuna non c’è stato, ma la possibilità che ci scappasse unita al fatto che tra i quattro c’era un nome (Gogna per intenderci) noto al grosso pubblico quasi come è noto nell’ambiente quello dei suoi compagni (Machetto e Calcagno) ha creato rumore.
Le fasi finali dell’avventura sono state oggetto di una vera babele di notizie e di commenti. Se ne sono sentite e lette di tutti i colori. Un clamore destinato a spegnersi subito, al quale ha fatto però eco una polemica più sottile, che sarebbe sorta comunque, ma che proprio perché si è un po’ confusa con il vociare generale, pare destinata a prolungarsi più del normale. Si tratta di commenti che vengono da alcuni personaggi qualificati, commenti che anziché comparire nelle riviste specifiche, questa volta sono comparsi, a caldo, sui giornali di grande tiratura ed hanno avuto quindi una presa piuttosto ampia.
L’elicottero non è un taxi
«Non ci siamo, non siamo d’accordo» commenta su Tuttosport di giovedì scorso Emanuele Cassarà. «Non si è trattato di un’operazione normale, per l’elicottero, ma di una operazione eccezionale. L’elicottero porta stampata la scritta Protezione civile e non Taxi».
Cassarà, per inciso, non è l’inviato che corre a Courmayeur all’annuncio di una disgrazia, ma un giornalista specializzato in alpinismo, un esperto che non si lascia influenzare dalle opinioni degli altri; amico, tra l’altro, dei protagonisti dell’episodio che critica. «Dal colle — sostiene — dovevano scendere da soli, a meno che uno di loro fosse ferito o tutti e quattro oppure soltanto uno fossero in condizioni da non poter camminare, per stanchezza, o fame o congelamenti, ecc. Equivoco del radiotelefono?». E ancora: «… A causa di questo equivoco è successo il finimondo (…) Cosimo Zappelli e Alessio Ollier già preparavano i loro sacchi per andare a farsi travolgere dalle valanghe sotto le rocce dei Gruber, cinque forti alpinisti genovesi, amici di Gogna e Calcagno erano già qui, da Genova in auto, per unirsi alle guide» e, riferendosi al pilota che si è fermato con Machetto al colle in attesa del secondo giro dell’elicottero: «… ha rischiato, lui che non c’entrava, di rimanere bloccato a sua volta e in quelle condizioni sarebbe bastato un improvviso ritorno di maltempo o l’aumento del vento». Conclude: «Ma anche una Integrale di Peutérey (quasi fatta) in inverno, deve rispettare le regole del gioco. Nessuno s’azzardi, dunque, a criticare Cesare Maestri e il suo compressore e anche Walter Bonatti, che è sempre sceso a un rifugio, in qualunque condizione con le proprie gambe. L’alpinismo è eroismo o no?».
La polemica è ripresa su Stampa Sera dello stesso giorno da Andrea Mellano, alpinista di valore, oltre che giornalista. Dopo un’esauriente descrizione tecnica dell’ascensione, Mellano passa ai commenti e afferma che raggiunto il Col de Peutérey, dopo la decisione di rinunciare alla salita, i quattro avrebbero dovuto scendere immediatamente lungo i Rochers Gruber anziché fermarsi e richiedere l’intervento dell’elicottero.
Il concetto di Mellano, sul quale si basa in pratica tutta la polemica, è ben sintetizzato nella parte centrale del suo articolo. «La montagna – sostiene – presenta una somma di pericoli e incognite che ogni scalatore sa affrontare. A questi pericoli si sono aggiunti ora anche le radioline e gli… elicotteri!». La radio, secondo Mellano, rompe infatti la concentrazione dell’alpinista che, per simili imprese, deve sentirsi un’entità fuori dal mondo. «L’invisibile e pur reale legame della radiolina che unisce lo scalatore a chi è rimasto in basso rompe questo equilibrio e costituisce un freno inconscio allo slancio, condizionando le decisioni. Non metto in discussione la grande utilità di questi apparecchi, che io stesso in alcuni casi ho usato, ma non bisogna approfittarne». Il discorso vale, sempre secondo Mellano, anche per l’elicottero che fa decidere a Machetto e ai suoi compagni di fermarsi al colle anziché scendere. «E’ su questa decisione — continua — che molti alpinisti, ed io tra questi, amici dei quattro scalatori, non sono d’accordo (…) E’ stata forse l’eccessiva fiducia nel mezzo meccanico e una certa leggerezza di valutazione morale a far prender loro questa decisione che getta un’ombra sulla magnifica impresa compiuta raggiungendo d’inverno il Col de Peutérey attraverso la Noire e la Blanche. Peccato, un’impresa così eccezionale avrebbe meritato, soprattutto per i protagonisti, ben altra conclusione».
Non era difficile scendere al Monzino
Dalla parte di Cassarà e Mellano stanno le guide di Courmayeur. La discesa al rifugio Monzino secondo il vice presidente delle guide, Alessio Ollier, non sarebbe difficile come sostengono i quattro. Ollier stesso ha affermato di averla affrontata nel febbraio del ’65 con Lorenzino Belfrond, in 7 ore, dalle 5 di sera a mezzanotte. L’accusa principale delle guide è che i quattro, anziché la loro avrebbero messo a repentaglio la vita degli altri, dei soccorritori, guide o piloti. «La verità – avrebbe affermato Ruggero Pellin – è che si può fare un alpinismo più serio e responsabile…».
Fin qui le tesi dell’accusa. La difesa spetta ovviamente ai diretti interessati e in parte è compresa nelle note, che Machetto ha scritto per l’Eco prima ancora di rendersi conto delle dimensioni della polemica, che riportiamo qui sotto. Alla guida biellese preme soprattutto chiarire alcuni particolari di carattere tecnico che nella polemica sono stati falsati: «Si tratta di valutare meglio alcuni punti fondamentali – sostiene – fotografare le situazioni, per parlare a ragion veduta. Dire che abbiamo messo a repentaglio la vita delle guide e dei piloti è eccessivo, fa parte di quella cornice emotiva creata da chi era interessato soprattutto a “fare notizia”. Capisco che gli amici di Courmayeur fossero in ansia ma non sarebbero venuti a sfidare le valanghe dei Rochers Gruber, al massimo avrebbero raggiunto il Monzino per rifornirci di viveri. Del resto dal colle, per radio, ho detto molto chiaramente a Zappelli di non muoversi. Nella stessa mattinata di mercoledì, se non fosse venuto l’elicottero, avremmo tentato la discesa. Ed è chiaro che, raggiunto il rifugio Monzino, saremmo stati in salvo. Ma prima no, non si poteva scendere. Il punto sta tutto qui. Si dice che avremmo dovuto tentare la stessa sera che siamo discesi dal Pilier e ci siamo fermati al colle. Siamo matti? Erano le quattro del pomeriggio, gettarsi a doppie lungo il canale sarebbe stato un suicidio. Avremmo dovuto bivaccare in parete con il rischio che qualcuno di noi ci restasse secco».
«Siamo uomini, non siamo eroi»
E la mattina dopo? «La mattina dopo c’era una tormenta impossibile. Scendere a qualunque costo, con le nostre gambe, come Bonatti. Ma Bonatti, d’estate, ha lasciato quattro morti dietro di sé. Siamo uomini, piccoli, pieni di debolezze, non siamo degli eroi e l’abbiamo dimostrato; c’era la possibilità di essere prelevati dall’elicottero, perché dovevamo scartarla?».
I fatti hanno dato ragione a Machetto. Alpinisti della forza di Machetto, Gogna e Calcagno non hanno bisogno di esagerare. Quando dicono che non era possibile scendere prima, bisogna dar loro credito. Che si possa fare dell’alpinismo più serio e responsabile, come sostiene Pellin, è vero; ma è altrettanto vero che si può stare anche a casa. E’ una questione di scelte, e la polemica posta in questi termini non finirebbe più. I quattro avevano la possibilità di scegliere una decina di altre salite meno impegnative, ma pur sempre di rilievo. Hanno scelto l’«Integrale» e hanno dimostrato di essere all’altezza della situazione. In caso contrario non sarebbero arrivati dove sono arrivati. E non ci sarebbe stato elicottero in grado di salvarli. Hanno compiuto una scelta anche portandosi la radio nello zaino e Mellano nell’ammettere di averla usata ammonisce che non bisogna esagerare: ma non precisa quali sono i limiti e i casi ‘leciti’ e quelli ‘illeciti’. Perché se ammettiamo la radio, il collegamento, e la conseguente possibilità di chiedere soccorso, dobbiamo per forza ammettere che in nessun caso l’uso di questo strumento è più giustificato che in quello oggetto della polemica. Nove bivacchi non sono pochi, d’inverno poi, a 4000 metri.
«No, il problema non è solo l’elicottero, non è la radio – insiste Machetto – il fatto è che da noi l’alpinismo è ancora costretto a vivere di disgrazie e di salvataggi. L’inverno scorso, quando siamo usciti dalla Nord-est della Grivola, cosa si è detto? Che eravamo salvi. La salita era un fatto marginale. E oggi è la stessa cosa… E poi chi l’ha detto che per richiedere l’elicottero si debba essere per forza moribondi?».
L’influenza dei morti di Walter Bonatti
Senza radio, di fronte all’alternativa di raggiungere la capanna Vallot o scendere i Rochers Gruber fino al Monzino, cosa avrebbero fatto? Siamo sul piano delle ipotesi: ma la polemica si basa proprio e soltanto sulle ipotesi. Ed è logico che qualcuno pensi che, senza possibilità di chiedere soccorso, gli alpinisti avrebbero avuto uno stimolo maggiore che li avrebbe forse portati a tentare l’uscita in vetta. «No – dice Machetto – nemmeno da parlarne. Eravamo stanchi e con la montagna in quelle condizioni non avremmo tentato in nessun caso».
A questo punto ritornano in ballo Bonatti e la disgraziatissima ascensione al Pilone Centrale. Nelle stesse condizioni la cordata di Bonatti scese verso il rifugio Gamba (dove ora è il rifugio Monzino, NdR). Di sette che erano, se ne salvarono tre. «A noi non poteva capitare di meglio». Fino a che punto quella terribile tragedia abbia influito psicologicamente sugli alpinisti di oggi è difficile stabilire. E’ certo però che alle polemiche feroci di allora è da preferirsi quella odierna alla quale, se non altro, possono partecipare di persona i protagonisti. E chissà che la risposta non venga dai fatti. Gogna ha già «fatto la croce» sull’integrale, Calcagno anche. Machetto dal canto suo preferisce non parlarne nemmeno. «Ma sai cosa vuol dire, cosa abbiamo passato?». Eppure sono tre teste dure, non ci sarebbe da stupirsi. Machetto nel ‘64 l’aveva già tentata d’estate: sei giorni, poi era stato bloccato al bivacco Craveri. Robe da «farci una croce sopra», eppure quest’anno la croce l’ha già cancellata tre volte. Quando va bene sono le risposte cui non si replica più.
Il racconto
di Guido Machetto
(pubblicato su L’Eco di Biella, 22 febbraio 1971)
«Il male che l’uomo fa spesso gli sopravvive, il bene spesso rimane sepolto fra le sue ossa». Cito Shakespeare per spiegare succintamente il pensiero che trattenevo in mente dopo aver letto molti giornali che parlavano dei quattro alpinisti bloccati e ormai tenuti in vita da una sottile voce radiofonica, ai 4000 metri di un colle. E allora vediamo le cose, prima «il bene» dell’elicottero, e quindi «il male» dei sette giorni di scalata che ci hanno portato fino alla cima del Pilier d’Angle in una marcia che avrebbe avuto fine solo dopo ottomila metri di arrampicata su tutte le difficoltà.
Avevamo sacchi di circa 20 kg pieni di materiale tecnico e di viveri per 8 giorni: di più non si poteva portare. La scalata si presenta così: o si arriva in punta al Bianco in otto giorni, o si torna, ma se si torna verso la fine, si rischia di non avere più viveri e di essere sfiniti. Il coraggio sta nell’accettare quel rischio, nel chiedere al fisico di sopportare 7 bivacchi e alla tecnica di superare i 7.550 metri di quella salita. Ma il tempo è cambiato sul Pilier d’Angle, ed è diventato insopportabile; tormenta da non vedere a due passi, vento che strappa dal ghiaccio; ed eravamo all’ottavo giorno, quel giorno in cui i viveri finivano. La soluzione: ritornare al Col Peuterey non potendo proseguire, chiedere un elicottero se ritorna il bel tempo; se invece continua la bufera, scendere a doppie per i Rochers Gruber. Bonatti impiegò tre giorni per compiere lo stesso itinerario, lasciandosi quattro morti alle spalle. D’estate. A noi, d’inverno, era logico non potesse succedere di meglio. Con la radio abbiamo trasmesso la notizia; le guide di Courmayeur volevano partire per venirci incontro. Si trattava di essere salvati dalle guide o dall’elicottero. Puntammo le nostre speranze sull’elicottero, sbrigativo, sportivo, competente e generoso strumento di salvezza, guidato dai gendarmi della «Protection Civile», quel corpo di uomini appositamente addestrati che gratuitamente ti aiuta a toglierti dai guai e che veramente fa apparire la nazione che l’ha ideato «civile». Così, due mattine dopo, in 10 minuti è finito tutto.
Abbiamo tentato una scalata che va al di là dell’alpinismo, per una coscienza dei limiti umani e psicologici; uno stacco dalla società dei consumi, per vedere cosa l’uomo (contaminato da mille moderne debolezze) sa fare e risolvere da solo.
Ma per questo non siamo morti, né io né gli altri, perché un elicottero ci ha con tutta semplicità riportati nel mondo degli uomini. E insisto nel dire che sono contento (a questo punto anche molto fortunato) di fottere la morte, perché amo la vita così com’è, pur sforzandomi di trovare un significato diverso dalla solita andata e dal solito ritorno dall’ufficio.
C’è dell’altro: dall’aeroporto di Linate viene, con il suo panciuto «Bell», il maresciallo Gibelli ben deciso a tener alto l’onore d’Italia nella contesa con gli «Alouette» francesi. Telefonate, corse in automobile, carabinieri, finanza, permessi, gente che spinge per farsi fotografare, televisione, giornalisti che chiedono dov’è il Monte Bianco, commenti su questi ragazzi che mettono a repentaglio la vita dei piloti e delle guide, ansia, donne che si strappano i capelli, rosari recitati in chiesa, mentre sul Col Peuterey io e il gendarme Gerard, sceso a tenermi compagnia, siamo seduti sui sacchi e parliamo di corsi di guida, di René Desmaison che è sulle Jourasses, e fumiamo tre Gauloises a testa. Ritorna l’elicottero e andiamo a Chamonix a fare il pieno di kerosene. A Chamonix mi aspettano Charlet dell’Equipe e uno della tele svizzera: conversiamo in francese. Tornano i piloti e mi chiedono se vado con loro a fare un giro sulle Jorasses, per localizzare Desmaison, il «René national» che sta facendo una via sulla Nord. Passa la mattinata, ho nove bivacchi sulle spalle, sto seduto tra due sconosciuti che sanno cos’è la montagna, il pericolo, la morte, il ridicolo, l’onore. Poi l’elicottero scende a Courmayeur. Come atterra, la muta si allarga come un’onda, il rotore si ferma, il cerchio di curiosi si restringe; scendo completo di barba e di puzzo e tutti sono dietro di un passo. Oltre le teste vedo il Pietro che mi invita a salire in auto per accompagnarmi all’Hotel Paney dove sono gli altri che hanno già finito di mangiare: «Grazie – gli dico – non disturbarti, non mi spiace fare due passi a piedi». E mi avvio.
Lettera mia a Messner (11 marzo 1971)
Caro Reinhold, sono da pochi giorni tornato a Moena. Sono passato da Bressanone e ti ho telefonato a casa, ma tu eri in Austria.
Vorrei raccontarti come sono andate le cose sulla Peutérey, ma per lettera non si può. Segue telegrafica cronaca dei nove giorni di avventura. Vorrei anche sapere come stanno le cose per le spedizioni. Ho saputo che ne stai preparando tre, 1971, 1972 e 1973. Ricordati che sia per il K2 che per altri monti puoi contare su di me e a questo proposito vorrei che tu m’informassi un po’ più spesso di come vanno le cose e di che cosa posso fare. Per i settimanali italiani non ci sono problemi. Ne ho parlato anche con Calcagno e Machetto e loro non hanno certo detto di no. Ne parlerò presto anche con Rusconi. Tanti cari saluti, sperando tu stia bene.
Cartolina di Messner (20 marzo 1971)
«Caro Sandro, già dalle notizie dei giornali ho saputo come è andata sulla Cresta, penso che stai bene adesso e forse torneremo tra un anno. Grazie della tua lettera e per le spedizioni ti tengo al corrente. Amichevolmente, tuo Reinhold».
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Torno a rileggere come un romanzo questo scritto e le sue parti allegate. Rifletto sulle vicende umane, quelle private, quelle pubbliche.
Con discrezione e rispetto.
E con la fantasia seguo le linee potenti di quella cresta. Ne ascolto il vento.
Con un brivido.
una grandissima impresa umana, che al giorno d’oggi sarebbe “impossibile”, a meno che la cordata aspirante, due mesi prima di partire, si stacchi completamente dalla realtà digitale (escluse le previsioni di Meteo France, e solo per radio), e si piazzi, senza essere vista da nessuno, sotto l’attacco della Peuterey, per valutare di giorno in giorno le condizioni e decidere quando partire. Naturalmente senza avvisare nessuno.
Non so come abbiano fatto a resistere così tanto, forse è solo l’inaspettata capacità di reagire propria dell’uomo, che si vede solo in condizioni estreme come furono quelle raccontate.
Infine non meno intensa, anzi, la lettera (e beati chi ricordano come è fatta, e come si riceve, una lettera scritta amano) della nonna, una storia personale difficile da dimenticare….grazie per avercela fatta conoscere.
Toccante, commovente, bellissima, la lettera della nonna, che stava combattendo un’altra battaglia, quella finale, che sempre si perde.
Bellissimo racconto, emozionante, e lascia trasparire anche la delusione per le polemiche che sono seguite a quel tentativo.
Sono d’accordo con chi ha commentato che è necessario esserci per poter valutare… Puoi essere il più forte alpinista del mondo, ma se non ti rimane un po’ di lucidità puoi lasciarci la pelle…
E poi, solo per gli incidenti “successi” rimane memoria, per quelli che si riescono a schivare invece non importa a nessuno. Nessuno pensa, e a nessuno importa, che avrebbero potuto morire.
Anzitutto vorrei ringraziare per l’altissima qualità del racconto e delle testimonianze fotografiche, davvero inusuali e in grado di rendere ben chiari al lettore l’enorme difficoltà dell’impresa e i rischi legati alle condizioni ambientali davvero tremende. Perché si trattò, comunque, di una grande impresa, di quelle che restano nella storia dell’alpinismo, anche se non andò a buon fine.Riguardo alle polemiche: derivano tutte dall’associazione mentale alpinismo=eroismo=morte in montagna (che fa sempre spettacolo e rende bene sui giornali). Quanto deve essere vicino alla morte un alpinista per “avere il diritto” di richiedere il soccorso senza passare per un turista delle pareti? A me sembra chiaro che in questo caso i protagonisti si trovavano in prossimità di una condizione critica in cui presto sarebbe subentrato uno stato di sfinimento psicofisico che avrebbe reso problematico il rientro in qualunque condizione, figuriamoci in quelle tremende di una prolungata tempesta invernale, dunque addirittura peggiori di quelle in cui Bonatti si era trovato – d’estate – dieci anni prima, e che era finita come tutti sanno. Non c’era via di uscita, e la scelta di usare la radio per richiedere il soccorso è stata un atto di coraggio, di lucidità e di responsabilità. Affrontare un’impresa alpinistica – sia pure di difficoltà estrema – non è equivalente a imbarcarsi in una missione “vittoria o morte”, anche se molto spesso le cose sono state interpretate e vissute in questo modo.
La ricordo come una grande impresa di quei tempi, allora proprio non c’era la tecnologia per salire il ghiaccio verde.
Poi come al solito qui da noi gli incompetenti e gli incapaci hanno spiegato e la gente … resta ignorante delle grandi espressioni umane.
Ieri due fortissimi alpinisti francesi professionisti sono morti sulla Plan, quest’anno se ne sono andati tanti molto capaci di scalare, tantissimi.
Centomila like!!!
Questo sì che è un vero articolo di montagna!
😀😀😀
Mi vengono in mente gli esperti consultati dopo qualche tragedia alpinistica.
Mediamente hanno tutti a disposizione un «ha/hanno sbagliato perché… (segue motivo)».
Raramente, ho sentito parole che assolvono in toto i protagonisti semplicemente perché «non so come sia andata, non ero là e anche ci fossi stato chissà che scelte avrei preso».
Del resto, come gli alpinisti hanno scelto secondo coscienza, valori e circostanza, così hanno fatto gli osservatori.
Ma, gli uni avevano a che fare carnalmente con l’idea della morte.
Gli altri certamente con qualcosa di più intellettuale e meno importante.
E’ davvero ridicolo pensare che certi giornalisti (specializzati? ma di che’?) potessero dare giudizi simili su un’impresa di questo valore. del resto erano i precursori di colro che oggi criticano tutto e tutti da dietro un PC. Al limite la questione poteva essere posta da alpinisti dello stesso livello. In ogni caso penso che il problema non fosse (e non sia) il portare o meno la radio ma l’uso che poi se ne è fatto e se ne fa. Oggi credo che nessuno vada in montagna senza cellulare, c’è però una bella differenza fra coloro che si spingono oltre il limite imprudentemente “tanto poi chiamo l’elicottero” e coloro che hanno il cellulare in tasca e comunque programmano ogni dettaglio e scelgono saggiamente di ritirarsi prima che sia troppo tardi. In ogni caso se la radio ai tempi dell’impresa di Gogna e soci aiutò a riportare a valle uomini attesi da mogli, figli, mi sembra un buon motivo per averla portata. Se poi tali mezzi diventano il “paracadute” per gente fuori di senno, allora non va bene. E qui torniamo eventualmente a come “normare” il fenomeno.
Detto questo, rispetto al racconto riportato, che lessi oltre trent’anni fa nel libro Un alpinismo di ricerca, forse l’unica cosa che mi interesserebbe sapere è cosa i protagonisti programmarono a tavolino prima, nel caso appunto di ritrovarsi sul Pilier D’Angle e per qualsiasi motivo dover procedere ad una ritirata. Ribadendo però che quella rimane un’impresa in ogni caso, anche se non arrivarono in vetta, anche se avevano una radio dietro.
Ogni volta che incontro uno scritto su questo luogo, che io chiamo in un personalissimo e onirico “la Grande Cresta”, mi siedo con calma. E leggo per bene non tanto la descrizione tecnica, ma quanto traspare dalle parole di chi l’ha percorsa integralmente.
Io arrivai soltanto, dal Borelli, all’attacco, poi la osservai per un giorno intero da lontano, dal Colle dell’Innominata, proprio di fronte alle Signore Inglesi, per sentire tutta la mia paura. Sì, non ho vergogna a dire “paura”, ma questo è un fatto marginale, che non tocca minimamente le sensazioni di gioia, di fascino e di profondo interesse che questo luogo (lo chiamo luogo, regione, come volete; percorso è riduttivo) suscita in me. Per le sue dimensioni, la sua bellezza, la sua storia, di cui l’ascensione descritta nell’articolo è parte importante.
Oggi mi capita di leggere articoli di alpinisti che l’hanno percorsa, quasi fosse un fatto meramente tecnico. Non ne sminuiscono le difficoltà e l’intensità necessaria per affrontarla, ma è come se… Non so definire. Manca qualcosa.
Probabilmente proietto ciò che si nasconde dietro la mia immaginazione, sperando di averne conferma dalle parole degli altri. A volte capita, quando qualcosa che tu consideri irraggiungibile, vorresti riuscire a coglierlo in qualche modo con altri mezzi, in questo caso i racconti altrui.
O forse davvero, la tecnica, l’evoluzione dei materiali, ma anche l’evoluzione della cultura e della psicologia di un alpinista d’oggi (che vive in ben altre sollecitazioni), hanno reso più “accessibile” questo luogo. E quando dico accessibile non mi riferisco al mero superamento tecnico, ma a ciò che emotivamente e psicologicamente questo percorso sia in grado di generare all’inizio, di lasciare alla fine nell’animo dell’alpinista.
Non so, forse sto solo parlando a ruota libera, come pensavo a ruota libera su una piccola cengia, tanti anni fa, davanti alle Dame, cercando di penetrare con lo sguardo le ombre dell’Aiguille Noire. Il cielo era splendente, ma i segnali del maltempo cominciavano a velare l’orizzonte dietro di me.
E mi percorse un brivido, al pensiero di immaginarmi oltre la possibilità di una via di ritorno da lassù.
Chiederei aiuto anche io?
Nel mio lungo vagare per monti non mi è mai capitato di dover chiedere aiuto. Sono stato fortunato. Ho invece partecipato in semplice appoggio a qualche soccorso, lieve, nulla di tragico.
Un alpinista di esperienza è raro che compia sciocchezze o pecchi di leggerezza. Si assume il rischio. E si mette in discussione.
Ma nessuno va lassù per morire. E se c’è una possibilità di tornare, quando qualcosa va storto, la si sfrutta. Si valuta, si sceglie, si fa. Con tutti i pro e contro.
Si è agito bene? Si è agito male?
C’è sempre tanto brusio scesi a valle. Le decisioni si prendono nel silenzio delle quote, o nel frastuono del vento. E solo chi le ha prese può dirci perché lo ha fatto. E se lo ha fatto, le sue ragioni (per tutti i mille motivi che si vuole), in quel momento, in quelle condizioni, in quella dimensione psicologica e fisica, sono state le sue ragioni valide.
A valle, nel tempo, pian piano, ognuno tornerà a raccontarle, nel conforto di sentirsi ancora convinti di essere stati nel giusto, o nella serenità di aver preso coscienza (imparando una cosa nuova) che si poteva fare diversamente.
Nel film Grimpeurs, di Andrea Federico, sulla tragedia del 61, c’è un breve brano con un’intervista alla nipote di Brunod. Io resto del parere di Bonatti e di Piazza, ma ascoltate quel breve brano, ascoltate l’emozione un po’ stanca e imbarazzata di sua nipote, i suoi occhi.
Decisioni giuste, decisioni sbagliate… chi può dirlo. Ma soprattutto, con cosa si convive, nel bene, nel male, dopo?