Metadiario – 46 – Kilimanjaro e Mount Kenya (AG 1972-011)
Lettera a Giorgio Bertone
Milano, 1 dicembre 1972
Caro Giorgio, quest’estate mi ero incontrato con Desmaison e lui mi aveva detto che era interessato a fare quest’inverno con te e suo cognato Michel Claret l’Integrale di Peutérey. Nell’occasione mi aveva anche chiesto, se la cosa m’interessava ancora, di mettermi d’accordo con te.
Poi io sono andato in Nuova Guinea e in Nepal, e solo adesso ti scrivo per sapere cosa ne pensi. E’ chiaro che la cosa, ormai da quasi due anni, mi è rimasta un po’ in gola, dunque vorrei riprovare. Se tu sei d’accordo, ne sarei molto contento: con una cordata così, italo-francese, potremmo avere molte buone probabilità di riuscita. Scrivimi qualcosa subito, anche per dirmi eventualmente che la cosa non t’interessa più.
Poi, se hai un momento di pazienza, vorrei parlare con te di alcune cose che sono sicuro tra noi non sono mai state chiare. Siamo tutti e due molto timidi e orgogliosi, e ancora non ci siamo spiegati. Una volta io ce l’avevo con te perché mi avevano riferito che tu una mattina, guardando le nostre piste sul Fateuil des Allemands, hai detto: “Sarebbe ora di finirla con queste pagliacciate!”. Io allora ci avevo creduto: adesso, che so di come vanno le cose e di come la gente si diverta a mettere zizzania, ci credo molto meno. In ogni caso sono convinto che, parlando assieme di tutti i problemi circa le “pagliacciate” o le “cose serie”, ci metteremmo senz’altro d’accordo, alla fine. Su questo punto sono convinto di avere delle idee molto accettabili. Lo sai che non ho mai litigato con nessuna delle persone che si sono legate con me? Per me è un vanto, significa che in fondo l’alpinismo insegna qualcosa. Comunque aspetto una tua risposta. Cordiali saluti, Alessandro.
Risposta che non arrivò mai. In realtà la cordata Desmaison-Claret-Bertone si era formata e l’obiettivo era la salita della via sulla parete nord-est delle Grandes Jorasses, che avrebbero poi intitolata a Serge Gousseault. I tre vi riuscirono, dal 10 al 17 febbraio 1973.
Kilimanjaro, la salita alla Kibo Hut
Kilimanjaro e Mount Kenya
(rielaborazione di quanto pubblicato su Gazzetta dello Sport, 15 gennaio 1973 ed Escursionismo, lug-set 1974)
Quando trenta persone partono dall’aeroporto di Linate muniti di pesante equipaggiamento da montagna, si dice sempre che sta partendo una “spedizione” alpinistica. Il pubblico che legge la notizia pensa quindi ai soliti matti che a volte con l’ossigeno e a volte senza vanno a conquistare le cime più difficili e più lontane. Questa volta invece la maggior parte è costituita da alpinisti medi, escursionisti, che non pensano certo di compiere terribili acrobazie e bivacchi, ma che vuole invece vedere da vicino l’Africa Orientale e possibilmente salirne le montagne più importanti e cioè il Kilimanjaro e il Kenya.
Kilimanjaro, la salita alla Kibo Hut. Dietro le nebbie, il Mawenzi
Dagli anni in cui Felice Benuzzi scriveva Fuga sul Kenya ed Ernest Hemingway Le nevi del Kilimanjaro molto è cambiato: ormai i Paesi sono indipendenti, gli indiani hanno preso il posto degli inglesi, i turisti invadono i parchi a tutte le ore del giorno, la parola “safari” per fortuna ha perso il suo significato venatorio e vuol dire soltanto andare a vedere gli animali, per di più in auto senza poter scendere, dove vogliono gli autisti, nelle ore in cui gli animali sonnecchiano, mai cioè al mattino o alla sera.
Rimane una splendida e rigogliosa natura, intatta la gioia di salire montagne così distanti da casa e così alte, con i portatori indigeni e magari in compagnia di alpinisti stranieri.
Il nostro viaggio è durato sedici giorni; cinque per il Kilimanjaro, quattro per il Kenya, gli altri dedicati alle visite dei parchi, agli acquisti, ai trasferimenti e ai festeggiamenti di Natale e Capodanno.
Il Mawenzi all’alba, in salita alla Gilman Point
Lo si comincia a vedere da chilometri e chilometri di distanza enorme e maestoso. Alcuni ci vedono un panettone ricoperto di crema. A forma di vulcano spento appare e scompare tra le nuvole che lo avvolgono quasi costantemente e quando i pullmini, impossibilitati a fare un metro di più su quella strada ormai ripida e dissestata, si liberano di persone, zaini, sacche, tende, bidoni, cassette di viveri e medicinali, il Kilimanjaro è sempre lontanissimo e sembra impossibile poterlo raggiungere in soli tre giorni e mezzo di cammino. Quando finalmente ci mettiamo in marcia da Marangu 1600 m, dopo un’inutile ricerca di acqua, i portatori sono già partiti, o comunque hanno fatto finta: li ritroviamo infatti, mentre saliamo, seduti sul ciglio della strada, forse aspettano che la temperatura si rinfreschi un po’ e non a torto perché il caldo è veramente pesante. Il sole, nascosto a tratti da enormi cumuli bianchi, appesantisce le gambe, ma dopo breve salita ormai in foresta l’aria si rinfresca e la marcia diviene quasi piacevole. La pista si apre un largo varco nella fitta boscaglia equatoriale e sale sempre molto dolcemente; alcuni goccioloni accompagnano la vista della Mandara Hut 2700 m, in una radura poco lontano); “meno male che ormai siamo quasi arrivati”, senza però tener presente che siamo in Africa e che quindi, primo, le distanze vanno rapportate alla vastità dell’ambiente, secondo, trovandoci nella fascia equatoriale anche le precipitazioni ne hanno tutte le caratteristiche. Il risultato è che dopo venti minuti buoni di cammino ci ritroviamo nel cosiddetto rifugio, trasformato ormai in spogliatoio buio e sovraffollato, fangoso e maleodorante, a cambiarci anche gli indumenti più intimi. È ormai scuro quando la pioggia diminuita ci permette di montare le tende e sarebbe ora di dormire quando ci introduciamo a forza nella capanna, invadiamo il tavolo, già destinato a servire da cuccetta ad una graziosa svizzera, con tutte le nostre masserizie e ci apprestiamo a prepararci una gustosa e bollente minestra; la perplessità degli astanti tutti ormai chiusi nel proprio sacco a pelo, viene mitigata con offerte di minestra e caffè caldi.
Alessandro Gogna al Gilman Point
L’alba è come sempre radiosa e la marcia sotto il sole ci permette di far asciugare i nostri indumenti appesi fuori dagli zaini. Dopo circa mezz’ora di cammino la foresta è alle spalle e dalla prateria la vista spazia; la pianura si stende ai nostri piedi, ma il Kilimanjaro è sempre lassù, affiancato dal rossiccio Mawenzi. Oggi la marcia viene piacevolmente interrotta da uno spuntino a metà strada: le scatolette si sprecano e lungo il sentiero numerosi ruscelli di acqua limpida calmano l’arsura provocata dal sole e… dalle suddette scatolette. La traccia si snoda nella vasta prateria mantenendo una pendenza sempre molto dolce. Nell’erba giallastra violente macchie di colore rivelano bellissimi fiori, cominciano le prime lobelie, a sfogo dei fotografi. La Capanna Peter’s (Horombo) 3750 m ci accoglie con le immancabili nebbie che salgono dal basso. Chi monta le tende, chi va a lavarsi, chi fa fotografie, chi si riposa e chi si appresta a far da mangiare. Gli ospiti della capanna ormai ci conoscono: dall’alto delle loro cuccette, che non abbandonano per non perdere il posto conquistato, non finiscono di stupirsi vedendoci esporre sul tavolo ogni genere di provviste. Stasera ci sono anche gli spaghetti al burro. E dopo una cena finalmente abbondante ci infiliamo tutti nelle tende con palese soddisfazione. Nella notte ci sono i primi inconvenienti, superati con qualche pillola.
Ornella Antonioli al Gilman Point
Terzo giorno, 28 dicembre 1972. Anche oggi quasi mille metri di dislivello. La tappa, che ogni volta ci viene descritta dall’amico Beppe Tenti come estenuante ed interminabile, si rivela poi nel corso della marcia molto meno terribile: quando ci fermiamo per il consueto spuntino siamo già alle pendici del Mawenzi: la Gran Sella che separa il Kilimanjaro dal suo satellite ci si presenta enorme e sconfinata. All’altra estremità, alle pendici del gigante, luccica la Kibo Hut 4700 m. In soli due giorni l’indice di gradimento delle scatolette è precipitato, la sosta è quindi breve, anche perché cominciano a comparire le prime nebbie: il paesaggio è desertico, il terreno giallastro e completamente piatto è punteggiato qua e là da qualche masso. Le guglie del Mavenzi alle nostre spalle sono state inghiottite dalle nebbie che ci rotolano incontro spinte dal vento e in questa atmosfera vagamente lunare raggiungiamo la capanna. Data la quota, la distribuzione di minestra e tè caldi viene sì gradita, ma indubbiamente riscuote maggiore successo la distribuzione da parte del medico di tante pillole colorate che dovrebbero far passare i mali, regalare un buon sonno ristoratore, far superare dislivello senza fatica, quasi come al consueto livello del mare. Purtroppo i risultati non sempre sono quelli sperati, ma non per questo si perde fiducia nello stregone. Infatti per i miei compagni l’ostacolo più arduo è la difficoltà di acclimatazione alla quota: l’allenamento non è molto importante perché si cammina lentamente e sempre in salita dolce e regolare.
Di notte nevica e tira vento ma all’una e mezza quando la fila indiana è formata il cielo è tutto stellato. Dietro le guglie del Mawenzi sta sorgendo la luna e la neve caduta nella notte rischiara tutto l’ambiente.
La marcia è silenziosa, salvo un “come va?” ogni tanto. Fino alle Grotte di Hans Meyer 5150 m la pendenza e la quota sono ancora miti, ma dopo questo punto poco giovano la sosta di riposo e lo zucchero ingurgitato se non si ha un po’ di allenamento precedente. Il gruppo con il Beppe in testa è ormai qualche tornante avanti a qualcuno per il quale la tentazione di tornare è forte: ma anche il dispiacere sarebbe forte, quindi proseguono ansimando. Qualcuno si ferma ad aspettare, ma ogni volta che gli arrivano a due metri quello riparte, promettendo di fermarsi al prossimo tornante: finalmente, impietosito, si lascia raggiungere, quando ormai ci si può affacciare all’orlo del cratere. Valeva la pena! Dopo tutto quel ghiaione nero, d’improvviso la vista si apre su di un gran bacino candido: all’altro lato si erge una maestosa bastionata di ghiaccio, nel fondo del cratere grandi pareti bianche formano il Duomo di Ghiaccio e il Trono di Menelik e a questa montagna cosi singolare ben si addice la leggenda del re che ha voluto andarvi a morire senza lasciare traccia di sé. Pochi metri ancora e anche le “regole alpinistiche” sono rispettate, e la vetta tradizionale (Gilman Point 5681 m) è raggiunta alle 6.30: ma la soddisfazione di ognuno vale ben di più del nome affidato al libro di vetta. In quel momento il sole nasceva dietro il Mawenzi. Un’ora e mezzo dopo chi aveva ancora energie residue ha raggiunto anche la vera cima, l’Hururu Peak 5895 m, a quasi seimila metri, il tetto dell’Africa.
Il Mount Kenya è settecento metri più basso del Kilimanjaro, più aguzzo e più roccioso; però i tremila metri sono raggiunti in fuoristrada su una pista, già normalmente difficile e ricca di polvere, che, dopo la pioggia, si trasforma in un torrente di melma su cui la Land Rover, munita di catene, fa slalom gigante ad effetti speciali.
Ornella Antonioli e Alessandro Gogna in vetta alla Punta Lenana
Raggiungere i tremila velocemente complica ancora più le cose: in pratica si è sbalzati a 4000 m in un giorno solo, e l’acclimatazione è sempre più difficile. Vale però la pena sopportare questo disagio perché non è di lunga durata: e, una volta superato, non torna più, come la varicella.
Sia dal Kilimanjaro che dal Kenya si godrebbe un panorama unico sulle sterminate savane, altopiani e foreste in mezzo alle quali si ergono queste due singolari montagne. A noi invece il brutto tempo non consente di fare una o entrambe le vette più alte, il Nelion e il Batian. Il 4 gennaio 1973 ci accontentiamo di salire la vetta escursionistica, la Punta Lenana 4985 m. Il più felice è il sessantaduenne Massimo Mila, il grande musicologo e storico dell’alpinismo, che era venuto lì proprio per quella montagna di quattromila metri. Una sera, con tutto il gruppo infervorato su cosa fare nei giorni extra-montagna, se andare in questo o quel parco, Mila interloquì dicendo: “A me interessa esclusivamente la montagna!”. Detto da lui…
Massimo Mila sale alla vetta della Punta Lenana
Al ritorno, in aereo, siamo con gli stessi turisti in compagnia dei quali eravamo all’andata: per tacito accordo si sentono solo i nostri racconti. Probabilmente salire su una montagna nel cuore dell’Africa fa ormai più vero “safari” che non le false avventure safariane a cavallo di una Land Rover.
Ma è proprio sull’aereo che vengo a sapere, non ricordo più da chi, che i fratelli Squinobal e i francesi di Seigneur e Audoubert sull’Integrale di Peutérey invernale ce l’avevano fatta (dal 21 al 26 dicembre 1972)!
6