Metadiario – 45 – Trekking nella Rolwaling Valley (AG 1972-010)
Nell’ottobre 1972 finalmente misi piede in Nepal: con l’organizzazione di Beppe Tenti dovevo condurre un gruppo di francesi, svizzeri e italiani in una valle himalayana alle pendici del Gauri Sankar.
Allora si discuteva molto. Quando qualcuno aveva voglia o bisogno di dire qualcosa lo faceva con gli amici, la sera al bar, nelle sedi del CAI: non ci si rinchiudeva nei nostri profili facebook e nessuno era un leone della tastiera.
Parlando con gli amici, discutendo, pur senza una conoscenza diretta osannavo di continuo le popolazioni della montagna humalayana, anche perché nutrivo sempre meno fiducia nei confronti della cosiddetta nostra civiltà. Intervenivo sempre a loro favore e ammiravo ingenuamente il loro sistema di vita.
Ma tutto ciò non era vero Amore. Ogni giudizio positivo, ogni difesa non erano che nervature di una debole struttura portante, impalcature di un sistema, quello più comodo per non essere coinvolto. Dando la colpa alla civiltà occidentale, prendendomela alla cieca contro il nostro mondo, non facevo che dividere la mia colpa personale per due miliardi. E molto di ciò che restava a mio carico potevo ancora addossarlo ai nostri antenati, così da potermi quasi ritenere innocente di fronte a ciò che restava solo per me. Ma la colpa non si lasciava cancellare, suddividere o ridurre così facilmente: non mi dava tregua.
In apparenza mi era necessario liberarmi dalla colpa per non sentirmi più in colpa: invece, tanta premura di liberazione era solo per evitare di tuffarmi nel mondo primitivo, non più fare lo spettatore soltanto. Siccome sentivo che il coinvolgimento avrebbe potuto essere superiore alle mie forze, mi difendevo a spada tratta con mediocri prediche sulla superiorità della cultura orientale.
Non sapevo che dentro di me si stava svolgendo un processo assai lento: al contrario di quelli che in modo repentino abbracciano le religioni orientali, per fortuna a me erano riservate dure e faticose prese di coscienza con molto dolore.
Nel 1973, al ritorno dal Nepal, scrissi il seguente articolo. L’argomento è ancora il trekking, ma questa volta mi rivolgevo, su una rivista di viaggi, a un pubblico specializzato. Dietro l’articolo c’era l’interesse di chi mi aveva procurato la possibilità di scrivere. Non potevo perciò lasciarmi andare a giudizi che avrebbero ferito la sensibilità dei lettori. D’altra parte allora la mia critica al trekking era ancora blanda.
Il trekking per il cliente
(scritto nel 1973)
«Good morning, sahib! Tea or coffee?». Ancora raggomitolati nel saccopiuma, si apre la cerniera della tenda e si protende una mano che ci porge una tazza fumante. E così, con un farfugliato «thank you» si apre la nostra giornata di trekking in Nepal. La sveglia è alle sei e trenta ma c’è chi prima ancora si è alzato e si lava vigorosamente nelle gelide acque dei torrenti himalayani. Al «brekfast ready» tutti corrono a sedersi al tavolo: gli sherpa sorridendo ci servono e nello stesso tempo mettono le tende nei bagagli, sgonfiano i materassini, fanno le nostre sacche. La giornata si preannuncia splendida. Il sole già tocca le vette nevose che di qua cominciano a vedersi e le tinge di rosa, mentre qui nella valle è ancora freddo.
Si incomincia a camminare e la vita nepalese lentamente ci scorre accanto. Il lavoro nei campi, il padre che pulisce e unge il bambino, qualche gozzo spropositato, famiglie che ci invitano a prendere il tè. Ogni tanto si incontra qualche girovago che appena ci vede attacca a suonare una specie di violino e a cantare qualche motivo molto gradevole, ma difficile e non orecchiabile per noi. Alle undici, perché no, un alcolico rucksi può sostituire il nostro aperitivo e sappiamo che anche alla sera lo stesso fermentato di riso ci sostituirà altri «drinks» più familiari.
La luce del mattino è la migliore per le fotografie a colori. Le ragazze sono un po’ ritrose ma poi alla fine con un po’ di sorrisi di preghiera si lasciano convincere. Una volta però entrammo in una casa di rifugiati tibetani: una graziosa ragazza stava spianando con il mattarello il loro tipico pane. Con l’aiuto del flash, dopo avere chiesto il permesso al padre, cercavo di riprenderla in questa sua occupazione che mi avrebbe fruttato anche una bella veduta di tutti gli oggetti di cucina così caratteristici. Ma lei non voleva e ridendo si girava sempre dall’altra parte, continuando il suo lavoro. Dopo una buona mezz’ora, lasciai perdere. Ritornai alla carica con un amico che si piazzò dall’altra parte e mentre lei ridendo si voltava dalla mia, ridendo anche questa volta, premetti il bottone. La risata della famiglia fu generale e ci salutammo con un buon rucksi, offerto una volta tanto da noi. Ceppo indù e ceppo sherpa; anche se non è certo la distinzione più precisa, è l’unica che veramente conta per il viaggiatore in Nepal. Si incontra un bambino e questi ti sorride sempre e non chiede monetine ai sahib, abitudine invece già introdotta in città, dove è tutto molto diverso e soprattutto dove i bambini vanno a scuola e capita spesso che incontrino i soliti americani che regalano loro monetine che poi si scoprono essere dollari…
L’aspetto più importante della vita nepalese è la preghiera: è curioso che i guardiani dei templi a volte urlino e strepitino se non si tolgono le scarpe e a volte neppure alzino la testa per distrarsi dalle loro preghiere, anche se ormai sono state scattate al loro indirizzo non meno di 23 fotografie, magari con le scarpe ai piedi. Per il nepalese la religione è tutto e il suo impegno e la sua sensibilità artistica non possono svolgersi al di fuori della religione; così i sassi incisi da iscrizioni e le tavole dipinte al lato dei sentieri, così addirittura interi massi erratici trasformati in enormi bassorilievi, specie di leggii giganteschi e incredibili, dove si ripete fino alla perfezione spirituale «Om mani padme um», che vuol dire letteralmente «O tu, il gioiello nel fiore del loto».
I libri delle preghiere che vengono gelosamente conservati nei vari gompa, i monasteri, aspettano ancora oggi una traduzione nelle lingue nostre: chissà quali tesori di poesia e di cultura vi sono racchiusi! Una ruota delle preghiere, cilindro colorato, gira incessantemente, spinta a mano. Ad ogni giro il ciclo delle litanie si ripete e lo segnala un colpo di campana. Le bellissime figure, ruotando, sono esposte in tutte le direzioni e spargono il messaggio religioso su tutto il mondo, e ciò che importa è il mondo intero, non il solo mondo dei fedeli. La vita è regolata dalle stagioni dell’anno e i raccolti sono gli avvenimenti più importanti, anche perché la terra è dura da coltivare su terreno montagnoso o paludoso: qui tutto è fatto a mano, dalla semina al raccolto, alla trebbiatura.
La casa nepalese è a due piani, generalmente, e il secondo è adibito ad abitazione. Il pianterreno serve solo da ripostiglio e a volte da stalla durante l’inverno. Siccome i cereali devono essere esposti al sole, non c’è niente di meglio che ammucchiarli in mezzo alle piazze con tanta confusione, così gli uccelli e i topi stanno lontani. All’aperto si vendono stoffe, fiori, utensili, frutta e cibi da consumare lì sul posto. Invece al coperto, come nei negozietti di Kathmandu, di un solo vano piuttosto piccolo e buio, sono in vendita le polverine, tabacchi, biscotti e generi alimentari di prima necessità, oltre a tutti i cibi in scatola. Anche i più disparati mestieri sono esercitati all’aperto: l’arrotino, il sarto, il fabbro, il barbiere, il falegname.
A distanza di molti giorni di cammino è il mondo più silenzioso degli sherpa. Proverbiale è la loro ospitalità: il forestiero è fatto sedere vicino al fuoco e gli viene offerto, purtroppo, il chang, una bevanda fermentata che noi occidentali non possiamo affrontare, ma di fronte alla quale occorre fare buon viso. Poi ti offrono le patate bollite e intanto la luce fuori dalle piccole finestre si va sempre più affievolendo: il sorriso con cui offrono, con cui ti fanno un piccolo servigio o una gentilezza, si vede sempre meno nell’oscurità. È l’ora di accendere la lampada a burro e il silenzio non è imbarazzante: non ci potremo mai capire forse, ma ci ricorderemo.
Ciò che colpisce nella società sherpa è l’organizzazione e la rigida legge morale rispettata con rigore. Anzitutto c’è la divisione in clan e non ci si può sposare se si appartiene allo stesso gruppo, in questo sono severissimi. Poi la gelosia non esiste, eppure ciò nonostante gli adulteri non sono molti e non comportano drammi di nessun tipo; i giovani sono liberi di frequentarsi. Il fenomeno della poligamia sussiste più poliandrico che poliginico, al contrario dei musulmani. Una donna può unirsi in matrimonio con più d’un marito soprattutto perché così si evitano i frazionamenti delle proprietà: infatti nella maggior parte dei casi i mariti della stessa donna sono anche fratelli. Avere più uomini è comunque un bel vantaggio: infatti, prima per gli scambi commerciali tra Tibet e Nepal, ora inesistenti per la chiusura delle frontiere, poi per le spedizioni alpinistiche e per l’alpeggio, nella buona stagione gli uomini sono sempre lontani da casa. È quindi comodo averne più d’uno!
Sono di fronte a un vecchio e di fronte a un bambino che guarda con ammirazione suo nonno: al di là della vita c’è un’altra vita, perché credono fermamente nella metempsicosi. Occorre proprio compiere molte buone azioni, così si può passare subito nelle residenze celesti senza più vivere lo stato umano. La propria vita è come un lago e ogni cattiva azione è come portare via un secchio d’acqua. Il conto finale lo si farà alla fine.
Una volta il grande alpinista Harold William Bill Tilman disse che noi occidentali siamo sempre così sicuri di noi stessi da chiamare sconosciuto ciò che in realtà è sconosciuto solo per noi.
Trekking nella Rolwaling Valley
Dopo qualche giorno nella splendida Kathmandu partimmo il 20 ottobre 1972 alla volta della Rolwaling Valley. Il trekking prevedeva la risalita completa della valle fino all’alto valico del Tashi Lapcha 5755 m, per poi scendere su Thami e Namche Bazar nella valle del Khumbu. L’ambizioso programma stimava possibile che noi andassimo anche al campo base dell’Everest per poi scendere a Lukla e rientrare in aereo. Raggiunto il villaggio di Bahrabise in corriera, proseguiamo brevemente per Karthali 1590 m dove piazziamo le nostre tende. Il gruppo è composto da 18 trekker, guidati da me e dalla guida Cosimo Zappelli, sì, proprio lui, il compagno di Bonatti. C’è anche il notaio Ottavio Bastrenta, un alpinista di grande valore che era stato mio istruttore nel 1964.
L’estrazione internazionale dei membri avrebbe potuto far pensare a qualche prevedibile problema di lingua, che però in realtà non si è mai presentato, neppure nei momenti peggiori: col francese ci si capiva per le cose più essenziali.
Il giorno dopo, 21 ottobre, iniziamo il trekking vero e proprio con un saliscendi continuo in mezzo alle colture terrazzate fino al villaggio di Dolongsa 2430 m.
Il mattino seguente, assai fresco, affrontiamo una superba foresta di rododendri fino a raggiungere il valico del Tinsang La 3320 m. Bellissima la vista sulle cime del Gauri Sankar 7134 m e del Numbur 6958 m, nonché sulla valle dell’Amatal Khola. Procediamo ora alla volta del monastero femminile Bigu Gompa 2330 m, dove pernottiamo.
Il mattino dopo, molto presto, visitiamo l’edificio religioso mentre i giovanissimi monaci bambini, assistiti dalle monache, recitano i mantra.
Passato il ponte sospeso sull’Amatal Khola c’inoltriamo in un bucolico sentiero tra campi di senape e di miglio che ci porta al villaggio newari di Chilingkha 1730 m. Proseguiamo per i primi villaggi sherpa, sempre tra i terrazzamenti, fino al villaggio di Jagat 1440 m.
Il giorno dopo, 25 ottobre, oltrepassato Chetchet 1500 m, lungo il solco della gola del Tama Koshi e attraverso ponti tibetani, foreste e bellissimi villaggi camminiamo fino a Simigaon 2020 m, ormai di completa etnia buddista e sherpa. Ancora una vista stupenda sul Gauri Sankar.
Continuano le foreste di rododendro, con saliscendi in cresta, fino a Yak Naka, un ricovero per gli yak, e poi fino al valico Daldung La, a 2976 m.
Dopo i grandi panorami del passo e numerosi ponti, la sera del 27 ottobre raggiungiamo l’ultimo vero villaggio della valle, Beding 3690 m.
Con la risalita all’ultimo centro abitato, Na 4180 m, ogni forma di vegetazione ad alto fusto cessa per dare luogo a un ambiente d’alta montagna davvero selvaggio e imponente. Na è costituito da qualche casupola, più che altro ricoveri estivi: ma vi fa spicco un piccolo monastero.
Il tempo è sempre stato bellissimo, con cielo terso. Anche questa sera è così, siamo tutti speranzosi di riuscire a passare il tanto temuto Tashi Lapcha, che però non potremo traversare prima dell’1 novembre.
Il mattino dopo però il cielo non è più lo stesso, fa quel freddo tipico che promette tanta neve. Tutti stiamo bene, perciò facciamo finta che non ci sia problema. Anche i portatori si caricano dei loro colli di 30 kg senza apparente preoccupazione. Ma mentre c’inoltriamo sempre di più, con salita lieve e graduale, in una valle selvaggia e contornata dal Chobuje 6686 m e dal Takargo 6671 m, il cielo comincia a velarsi. A metà pomeriggio arriviamo al campo accanto a un’enorme lago glaciale, il Tsho Rolpa 4540 m. Tutto è grigio e minaccioso.
La sera, in tenda mensa, l’atmosfera non è più frizzante e serena come nei giorni scorsi. Ognuno ha timore che finirà per nevicare. E infatti il mattino dopo, 30 ottobre, facciamo i preparativi per la partenza tra mille dubbi, perché se guardiamo in alto vediamo abbastanza azzurro. Peccato, perché la giornata, con il bel tempo sicuro, sarebbe stata spettacolare, faticosa ma di grande soddisfazione. Dopo la spolverata notturna, ora dobbiamo aprirci la strada sul terreno innevato della morena del ghiacciaio. Tuttavia la marcia è abbastanza spedita e arriviamo così nei pressi del luogo sul Trakarding Glacier dove si può fare un campo, più o meno a 4800 m. Il sirdar ci fa vedere che più in alto la neve è troppa. Da un bel po’ Cosimo e io ci guardavamo senza dire nulla. Sopra di noi ci sono ancora mille metri per poter scollinare nella valle del Khumbu. Troppi con questa neve e con questo meteo. Dopo un breve consulto sotto una roccia, passato a pestare i piedi nella neve per il freddo di questa sosta, la decisione è unanime: tornare al Tsho Rolpa e vedere cosa farà il tempo.
Giriamo dunque i tacchi, anche se il cielo ora è azzurro. E la sera promette neve, quella vera. Di notte, in tenda con Cosimo, siamo d’accordo nel fare di tutto, il giorno dopo, per non fare la stupidaggine di proseguire. Dobbiamo essere della stessa idea senza tentennare di fronte al gruppo di cui siamo responsabili.
Al mattino ci svegliamo con il campo imbiancato in un cielo plumbeo: è a quel punto che, fugato ogni dubbio, partiamo precipitosamente in lotta con l’orologio, confidando in una tregua con le precipitazioni. Ma non è così. E verso le 8, appena partiti, ricomincia a nevicare in maniera seria.
Verso l’una del pomeriggio nevica pesantemente in mezzo a una nebbia fittissima. Ci sono già 30-40 cm di neve fresca e occorre battere pista. La marcia si svolge su una breve striscia più o meno piana tra il ripido versante della montagna e il corso d’acqua emissario del lago. Non ci si può sbagliare. Mi trovo qualche centinaio di metri avanti a tutti gli altri, intento a battere pista con tenacia. In quella comincio a sentire i primi rombi di valanga, so benissimo che siamo in una posizione assai pericolosa, la neve è molto umida e dobbiamo sbrigarci a uscire da questa strettoia esposta. Sopra di noi c’è l’intero ed enorme versante destro idrografico della valle, solcato più volte da profondi canaloni che possono convogliare slavine gigantesche. Improvvisamente sento un rombo che mi terrorizza e subito dopo sono investito dal soffio di una valanga caduta proprio davanti a me, circa cento metri avanti, dove comunque avremmo dovuto tutti passare. Non faccio a tempo a riprendermi dallo spavento che sento un altro rombo, con conseguente soffio gelido pieno di pulviscolo ghiacciato: ma questa volta è dietro di me! Appena posso mi metto a correre verso il gruppo, arrivo alla neve appena caduta, urlo come un pazzo sperando che qualcuno possa essere sopravvissuto… corro, corro, poi sento delle voci. Mi precipito verso di loro. Il primo che incontro è il sirdar, poi subito dopo è Cosimo… poi gli altri, perché per pura fortuna la valanga è caduta tra me e loro, e non su di loro! Minuti angosciosi per verificare che ci siamo tutti, noi venti, i quattro sherpa, la quarantina di portatori newari.
Continua a nevicare e siamo sotto shock. Dopo aver oltrepassato le due valanghe cadute, è soltanto verso le 16 che gradualmente ci accorgiamo che la valle piega leggermente a nord-ovest, il che significa che forse siamo fuori dal pericolo di essere investiti. Ma ormai camminiamo in 70-80 cm di neve appiccicosa, perciò siamo di una lentezza esasperante. L’obiettivo è di arrivare a Na prima del buio, ma le ore passano e, ormai in piena oscurità, con la neve che continua a cadere implacabile ci ritroviamo con un gruppo sfilacciato, tra urla e richiami che si perdono in questa bufera. Siccome siamo tra i primi, Cosimo ed io decidiamo di fermarci. E’ giocoforza bivaccare, ma non ci sarà modo di mettere neppure una tenda, perché i portatori sono indietro, non si sa bene quanto. Il sirdar manda uno sherpa sui nostri passi per capire a che distanza sono. Passa un’ora senza avere notizia. Nel frattempo abbiamo fatto la conta del nostro gruppo clienti, ci sono tutti. Decidiamo di scavare qualche buca nella neve e passare la notte così vestiti come siamo. Anche le sacche con gli effetti personali e i sacchipiuma sono infatti irraggiungibili.
Ciascuno fa quello che può, ci scambiamo qualche guanto, qualche maglia. Passeremo la notte a battere i denti, con i vestiti fradici, in attesa di un’alba che ci porti magari un po’ più di freddo ma almeno la fine della tempesta di neve.
La mattina dell’1 novembre si annuncia con il cielo azzurro e un freddo siderale. Arriva lo sherpa spedito dai portatori la sera prima che ci dice che hanno già ripreso i loro carichi e che sono in marcia verso di noi. Ci comunica anche che uno di loro, molto giovane, è morto assiderato durante la notte.
Evitiamo di spargere la voce con i nostri, ma li incitiamo a non aspettare nessuno e a continuare la marcia. Arriviamo a Na con il primo sole e lì l’incubo ha termine.
Nessuno dei nostri ha riportato congelamenti, stiamo bene nella nostra tristezza. Ci attende un mesto ritorno. Arriveremo a Kathmandu il 7 novembre.
Monte Mucrone
Miller Rava mi aveva invitato per andare a risolvere “il” problema locale della montagna biellese, la parete sud del Monte Mucrone 2335 m. Una prima ricognizione (19 novembre 1972) ci portò a sfiorare appena le rocce, solo la settimana dopo (26 novembre) riuscimmo ad attaccarle. Faceva un freddo esagerato e probabilmente il nostro materiale era insufficiente. Dopo una lunghezza e mezza su roccia buona e rossastra ci confessammo la nostra voglia di non proseguire e così scendemmo a corda doppia ritornando così al Sentiero delle Traversagne e al Colle del Limbo. Non saprei dire con certezza quale via (delle numerose di oggi) abbia ripreso e risolto il nostro tentativo. Probabilmente fu Enrico Rosso nel 1981, con Ennio Bruschi e Dino Angiono, a oltrepassare il nostro limite e finire la via, che battezzarono via Fasoletti.
Lettera a Giorgio Bertone
Intanto continuava il lavorio di mente relativo al mio ritorno sulla Peutérey. Nessuno dei miei compagni sembrava davvero interessato, tanto meno quelli con i quali avevo cercato di andare nella stagione scorsa. Anche Heini Holzer aveva gentilmente declinato. Pensai di scrivere a Giorgio Bertone:
«Milano, 1 dicembre 1972. Caro Giorgio, quest’estate mi ero incontrato con René Desmaison e lui mi aveva detto che aveva in programma di fare con te e suo cognato, l’integrale di Peutérey quest’inverno. Nell’occasione mi aveva anche chiesto, se la cosa mi fosse interessata ancora, di mettermi d’accordo con te.
Poi io sono andato via in Nuova Guinea e in Nepal, e solo adesso ti scrivo per sapere cosa ne pensi. E’ chiaro che la cosa, da due anni fa, mi è rimasta un po’ in gola, e vorrei riprovare.
Se tu sei d’accordo, ne sarei molto contento: con una cordata così, italo-francese, potremmo provare con buone possibilità.
Scrivimi qualcosa subito, anche per dirmi eventualmente che la cosa non t’interessa più.
Poi, se hai un momento di pazienza, vorrei parlare con te di alcune cose, che sono sicuro tra noi non sono mai state chiare. Siamo entrambi molto timidi e orgogliosi: ancora non ci siamo spiegati.
Tempo fa ce l’avevo con te perché mi avevano riferito che tu una volta, guardando le nostre tracce sul Fateuil des Allemands, avevi detto: “Sarebbe ora di finirla con queste pagliacciate”. Allora ci avevo creduto; adesso che so come vanno le cose e come la gente si diverta a mettere zizzania, ci credo molto meno.
In ogni caso sono convinto che, parlando assieme dei problemi circa le “pagliacciate” o le “cose serie”, ci metteremmo senz’altro d’accordo. Sono convinto di avere delle idee su questo punto molto accettabili. Lo sai che non ho mai litigato con nessuna delle persone che si sono legate con me in montagna? Per me è un vanto, significa che in fondo l’alpinismo insegna qualcosa. Comunque aspetto una tua risposta. Un caro saluto, Alessandro».
L’esperienza mi aveva insegnato che mettere in programma la Peutérey per le feste di Natale e di Capodanno non era una bella speculazione, viste le giornate così brevi. Anche il lavoro che avevo accettato di condurre gruppi di Beppe Tenti al Kilimanjaro e sul Mount Kenya giocava contro.
A mia insaputa, il 20 dicembre 1972 era uscito sulla Gazzetta del Popolo un articoletto che avrebbe dovuto mettermi davvero in allarme:
Sarà soffiata a Gogna l’«integrale» sul Bianco?
(L’attacco previsto per domani)
(dalla Gazzetta del Popolo, 20 dicembre 1972)
«Courmayeur, 19 dicembre. Tanto a Courmayeur quanto a Chamonix l’argomento d’attualità è l’attacco che da giovedì vorrebbe essere portato al Monte Bianco da parte di alcuni alpinisti di gran fama, per conquistarlo per la prima volta, d’inverno, attraverso la cosiddetta «via integrale»: l’itinerario più impegnativo, difficilissimo già d’estate e veramente proibitivo quando il verglas e la neve alta coprono le creste
dell’Aiguille Noire e dell’Aiguille Bianche de Peutérey, i due colossi allineati come gendarmi davanti al tetto d’Europa.
Sarà Alessandro Gogna ad aprire la via, oppure lo precederanno questa volta le cordate francesi capeggiate da Louis Audoubert e da Yannick Seigneur?
Gli alpinisti, si sa, sono gelosissimi dei loro progetti che riescono spesso a mascherare con astuzia e impensabili sotterfugi. Ma sono accorgimenti che difficilmente sfuggono agli occhi sempre attenti delle guide alpine.
Così la guida Roberto Pellin di Courmayeur ha immediatamente messo in relazione la presenza di Alessandro Gogna sabato sera nella conca italiana del Monte Bianco con successivi movimenti di alpinisti rilevati domenica mattina sulla cresta sud dell’Aiguille Noire de Peutérey. Pellin non si era sbagliato. A muoversi sulla cresta sud della Noire erano proprio Gogna e due suoi compagni di cordata. Dati i precedenti — e cioè il fallito tentativo sull’«integrale» dello stesso Gogna nel febbraio 1971 e le intenzioni da lui mai nascoste di dare il suo nome alla proibitiva «via» — le deduzioni della guida di Courmayeur, e di altri suoi colleghi, hanno imboccato i canali della logica: Gogna – hanno pensato – ha attaccato il Bianco per l’«integrale», limitandosi tuttavia per il momento, in attesa del 21 dicembre, ad attrezzare l’itinerario di salita sulla cresta sud
dell’Aiguille Noire de Peutérey.
Da allora Gogna a Courmayeur non è stato più visto, ma si è fatto vivo nel tardo pomeriggio dalla sua casa di Milano. Ha ammesso, telefonicamente, di aver esplorato domenica 17 la cresta sud della «Noire», ma ha negato di averla attrezzata per attaccare il Bianco attraverso l’integrale (in realtà avevo negato di voler attaccare subito, NdA)».
Il rispolvero di questo vecchio articolo mi fa ammettere che senza dubbio ero salito al rifugio Borelli il 16 dicembre e che il 17 con due compagni ero andato a dare un occhio alla cresta. Quali compagni? Non ricordo nulla, si vede che non lo aveva segnato sul diario…
In ogni caso, mentre ero in aereo di ritorno dal Mount Kenya, venni a sapere della bellissima impresa compiuta da Yannick Seigneur, Louis Audoubert, i fratelli Squinobal e compagni. Ce l’avevano fatta. Unica magra consolazione: non mi sarei più arrovellato sulla Peutérey…
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Gianfranco, la bellezza è sempre relativa e soggettiva – a parte alcune realtà indiscutibili come può essere Claudia Cardinale – e soprattutto non è solo dipendente dai connotati esteriori ma da una certa luce che irradia dall’interiorità degli esseri viventi.
Che bello prendere coscienza sempre di più che la storia dell’alpinismo è come la geologia fatta di tante piccole annotazioni, osservazioni, piccole tessere di un mosaico che diventa grande conoscenza e cultura. La condivisione come organizzazione del sapere: questo blog. Sulla bellezza oggi di Alessandro avrei qualche dubbio, diciamo che invecchia bene…
Grazie per questi racconti che ci portano altrove e ci parlano di com’erano viaggi e comunicazioni qualche decina d’anni fa.
E che bello Alessandro, anche da giovane! 🙂
No no, Andrea 🙂
Era una battuta nei confronti delle mie colleghe e colleghi.
@Paolo
“Vivo in un covo di biologi marini per cui le nostre mete sono sempre marine… Uff. ”
Beh… non ci sputerei sopra… 😉
Una boccata di ossigeno questi post.
È come sempre, per me, occasioni di ricordo (in Nepal andai nell’ormai lontano 1994, al campo base dell’Annapurna. Oppure occasioni di pensieri in libertà, suggeriti involontariamente dal Gogna.
Ad esempio uno dei miei sogni, ma mai realizzato nella conduzione dei nostri campus con i bambini, è far loro sperimentare una spedizione tipo Himalayano, in qualche zona selvaggissima, ma percorribile qui da noi. Sarebbe bello sperimentare insieme la progettazione, l’organizzazione, il viaggio, il contatto con la gente locale, il loro aiuto, il trekking, l’isolamento.
Ma non credo lo faremo mai.
Vivo in un covo di biologi marini per cui le nostre mete sono sempre marine… Uff.
Ho letto con piacere, come sempre, questo bel racconto, condito da alcune considerazioni molto intime e molto franche sul nostro ruolo di occidentali.
Grazie Alessandro