Metadiario – 47 – In attesa dell’Annapurna (AG 1973-01)
Tra il lavoro e le grandi manovre preparatorie alla spedizione allo sperone nord-ovest dell’Annapurna I non mi rimaneva molto tempo per gite o scalate invernali. Dopo la batosta della Peutérey forse mancava anche la voglia. Se sfoglio i miei elenchi non vado oltre a una gita (18 febbraio 1973) verso la Presolana (da Castione) con Leo, Marina e Paolino Cerruti, terminata ancora sui prati per la quantità impressionante di nebbia che ci circondava, e a una salita della Cresta Segantini alla Grignetta con Leo e Nella (4 marzo 1973).
Il weekend dopo però accolgo a casa mia una delegazione di ben tre alpinisti genovesi, con i quali abbiamo in programma niente meno che l’invernale al Pilone Gervasutti del Frêney. Vado a riceverli il venerdì sera in piazzale Belfanti e li guido fino a casa mia in via Volta, altrimenti sarebbero ancora là adesso… Si tratta di Lorenzo Pomodoro, futuro compagno all’Annapurna, Franco Piana e Ubaldo Lemucchi. Il mattino dopo (10 marzo 1973) partiamo speranzosi per Courmayeur, saliamo al rifugio Torino e ci avviamo sul ghiacciaio, in tempo per essere sorpresi da una vigorosa bufera mentre saliamo al rifugio Ghiglione. Con le previsioni meteo di oggi questi tentativi sarebbero stati evitati, ma allora era così. Si partiva e si sperava nello stellone. Nella notte, se possibile, la caduta di neve fresca superò quella del giorno: non ci rimase che scendere con la coda tra le gambe, affrontare la solita sgamellata del Col des Flambeaux e riguadagnare le nostre rispettive città.
Nell’ultima settimana di aprile Nella ed io partimmo con un gruppo di Beppe Tenti alla volta del campo base dell’Everest. Il viaggio si presentava assai piacevole, vista la presenza di Pippo Miserocchi (cugino di Nella), di sua mamma e di altri amici. Io tornavo volentieri in Nepal, ansioso di pareggiare i conti per via della tragedia dell’ottobre precedente in cui mi era morto un portatore. Era bello finalmente fare un viaggio con Nella, dopo quelli dell’estate precedente fatti separatamente. Volevo che anche lei conoscesse il Nepal, un paese che mi aveva preso il cuore.
Raggiunto in aereo il villaggio di Lukla, il 26 aprile di sera dormivamo a Phakding Khola e il giorno dopo eravamo a Namche Bazar. Facemmo, con la meraviglia che contraddistingueva ogni momento delle giornate, le tappe canoniche di questo trekking: il mitico monastero di Tengpoche, le case sparse di Periche, le poche malghe di Lobuche, il campo di Gorah Shep. Il 2 maggio eravamo in vetta al montarozzo del Kala Pattar 5545 m, effettivamente un punto privilegiato di osservazione su Pumori, Everest e Nuptse. E il giorno dopo raggiungemmo il campo base dell’Everest, in quei giorni insolitamente molto affollato (ma oggi lo è ancora di più ogni primavera) a causa della presenza della spedizione Monzino che aveva come obiettivo la prima salita italiana all’Everest e che, per raggiungerlo, non aveva certo badato a spese e mezzi (elicottero compreso). Quando ormai eravamo di ritorno a Periche, la sera del 5 maggio, venimmo a sapere della vittoria (ore 12.39, Mirko Minuzzo e Rinaldo Carrel con Lakpa Tenzing e Sambu Tamang). Tornammo a Kathmandu il 9 maggio e, prima di tornare in Europa, avemmo anche il tempo di fare una veloce gita a Pokhara.
Con Leo Cerruti ripresi l’attività: il 20 maggio andammo a ficcarci sulla parete a destra della via Annamaria sulla Pala del Cammello, solo per concludere che senza chiodi a pressione da lì non saremmo mai passati. Riuscii a salire non più di 15 metri, così decidemmo di andare a mangiare e bere in qualche trattoria in basso. Dove tra l’altro incontrammo niente meno che Riccardo Cassin con le sue nipotine. Ma c’erano anche Nella, Marina e Paolo.
Il 27 maggio 1973 con Leo ci recammo in Valle dell’Orco. Sapevamo della via dei Tempi Moderni, aperta l’ottobre precedente da Gian Piero e compagni sul Caporal mentre con Guido, Carmelo e Miller salivo sullo Scoglio di Mróz. Ma, a dispetto delle nostre intenzioni, quel giorno non ne facemmo la ripetizione, preferimmo salire un nuovo itinerario sulla sinistra, la via dei Tempi Duri. Il nome è dovuto al fatto che la trovammo decisamente faticosa, direi sei ore e mezza di brutalità. E poi volevamo sottolineare che i tempi saranno stati anche “moderni” ma di certo erano rimasti “duri”…
E che fossero duri assai me ne accorsi anche qualche giorno dopo quando con Piero Ravà salimmo al bivacco del Velo con l’intenzione di salire l’inviolata parete sud della Cima della Madonna. Era il 2 giugno 1973. Lasciata Nella a dormire nel bivacco, Piero ed io ci avviammo di primo mattino alla parete. Non ho un ricordo preciso dello zoccolo. Ricordo solo che a un certo punto mi trovai in un oceano rossastro di roccia stupenda ma inchiodabile. Osservavo sgomento la mancanza di fessure, la verticalità impressionante, l’inutilità di cercare un aggiramento. Piero mi aveva delegato ogni decisione: non mi incitava, ma non sembrava neppure volersene andare. Imperturbabile, credo sognasse di avere un sigaro a disposizione. In effetti, con i miei affezionati scarponi rigidi Desmaison della Galibier (oggi posso proprio dirlo) non avevo proprio alcuna chance di riuscita. A meno che non mi fossi chiamato Manolo, che appunto, con le sue capacità e il suo coraggio, quattro anni dopo vinse quel tiro dove io avevo fallito. Ma i racconti che ne ha fatto poi nel suo bellissimo libro Eravamo immortali mi hanno convinto che la decisione di scendere quella mattina fu davvero molto sensata…
Il 10 giugno ero di nuovo con Leo Cerruti, e gli magnificavo la bellezza dello Scoglio di Mróz mentre risalivamo la stretta stradina del Piantonetto. Memore dell’ottobre precedente, ricordavo che c’era a disposizione l’intera parete est. L’avevo guardata e me l’ero segnata tra le varie cose da tentare. Risolvo il primo tiro con facilità grazie a una fessura-camino. Ma è la seconda lunghezza che di certo assumerà il ruolo di tratto chiave. Una larga fessura strapiombante difende la parte superiore di questa che poi si rivelerà una torre staccata. L’affronto in Dülfer e in qualche modo riesco a piazzare un cuneo di legno: poi mi rendo conto che le cose peggiorano… Una lieve cornice per i piedi sulla parete di destra mi permette di piazzare un chiodo molto a destra, in modo da poter affrontare una traversata che mi permetterà di non seguire quella fessura che prometteva grandi dolori bensì un bellissimo diedro che porta in alto, e dopo neppure 8 ore, al termine di questa via che chiameremo della Torre staccata (ma che come al solito tutti chiameranno via Gogna…).
L’eleganza di questo itinerario fu immediatamente apprezzata da molti, tanto che presto diventò un classico, a volte perfino un must. Tanto disinteresse per Tempi duri quanto esagerata approvazione per la Torre staccata. Sulle brevi muraglie di gneiss del Caporal e dello Scoglio di Mróz Leo Cerruti ed io troviamo un accordo perfetto: tra poco si partirà per l’Annapurna e anche se i passaggi magicamente atletici di queste vie nuove hanno poco a che vedere con le seraccate himalayane, non importa: siamo molto uniti, parliamo di ritornare presto in Nepal anche dopo la spedizione, e poi trovare una casa vicino a dove stiamo ora, in zona San Marco, perché lui a quella parte di Milano è molto affezionato… e poi stare tutti insieme, l’ideale sarebbe una casa a due piani, con un giardino.
Ma il destino stava riservando a Nella un brutto tiro. D’improvviso si sentì così male che chiamai in fretta e furia il nostro medico di base, dr. Silvestris. Questi, sospettando un’epatite violenta, decretò il ricovero immediato. La portammo d’urgenza all’ospedale, reparto malattie infettive, dove le misurarono transaminasi a un valore eccezionale, 1500 (quando 300 è già considerato di allarme rosso). Tememmo tutti per la sua vita, non l’avevo mai vista così. Inutile domandarsi come se l’era presa, anche se potevamo attribuire la responsabilità alle cozze mangiate al ristorante in una sera giusto coincidente con il periodo di incubazione. Nella rimase ricoverata per una decina di giorni, e non sapevamo ancora che la sua vita ne sarebbe stata per sempre segnata, con una dieta ferrea per il primo anno, e una successiva e severa attenzione per gli altri trent’anni che le sarebbero rimasti.
Il 23 giugno 1973 le scrissi, mentre era ricoverata, la seguente lettera:
«Cara Nella, sono appena tornato da Vergiate (casa di Carmelo di Pietro, dove veniva accatastato il materiale della spedizione che pian piano ci arrivava) con la Skippy e le ho dato da mangiare la consueta sbobba che giace in frigo da parecchio tempo. Ce n’è ancora per due giorni. Dopo sarà mia cura farle fare pranzi più variati e degustabili. Mi è dispiaciuto non venire oggi a trovarti, ma già che ero là non ho potuto fare a meno di aiutarli a far casse. Domattina andrò ancora lì, dopo essere passato da te. La casa è un vuotume immenso, non sono in grado di condurla, forse non lo sono mai stato. E poi sento molto la tua mancanza, soprattutto mi fa male pensare che tu sia in ospedale a soffrire. Ho qui davanti la tua foto con la Icarex in mano sulla morena tra Periche e Dinpoche, e penso proprio che non te lo meritavi. Speriamo che non duri ancora troppo, e soprattutto speriamo che abbiamo il tempo di andarcene da qualche parte prima che io parta per l’Annapurna. Pensa bene dove vuoi andare. Quando tornerò lunedì me lo devi saper dire…! Ho telefonato in questo momento al Leo. Vado a casa loro a mangiare qualcosa».
La lettera prosegue poi il mattino dopo:
«Ieri sera poi ho incontrato alle 9.45 il Vasco Taldo, cui ho consegnato le sue robe, cioè la prima parte delle cose di sua spettanza cinematografica. Poi quando Leo e Vasco se ne sono andati mi sono messo a letto e ho spento subito. Stamattina ho fatto un lungo bagno con pre-lavaggio e lavaggio completo. Adesso tra un po’ ti vedo, però so già che sarà una sofferenza… si sta lì impalati, non ci si può neanche toccare! Non potevi prenderti una malattia meno brutta? Spero tanto che non ti stanchi a stare tanto in piedi al davanzale. Oggi non piove e dovrebbe essere meglio.
Se l’affetto e l’amore si vedono soprattutto nei momenti difficili (malattie, disgrazie) non so se è vero. So solo che ti amo tanto».
Faccio riferimento a Vasco Taldo perché il 17 giugno abbiamo fatto una strana gita: siamo andati assieme a mio padre a prendere la funivia di Alagna. Lo scopo era quello di testare la cinepresa che il CAI ci aveva concesso in uso per la spedizione. Era una bellissima giornata, facemmo un giretto sulle nevi di Punta Indren alla ricerca dei migliori punti panoramici. Al ritorno ci fermammo a mangiare in un ristorante a metà Valsesia. Fu una giornata serena, un bellissimo ricordo che ho di mio padre in quella che probabilmente sarebbe stata una delle ultime sue escursioni in montagna. Caro papà, perché allora non ti manifestavo tutto il bene che oggi sento di averti voluto?
Il primo di luglio ci fu un’uscita della spedizione: quasi tutti assieme per conoscersi meglio e per testare i materiali. Mancavano solo Carlo Zonta e il medico Angelo Nerli. Per il resto, eravamo in nove a scarpinare verso l’inaccesso pendio nevoso della parete nord della Grande Rochère, una montagna abbastanza isolata ed elegante proprio di fronte al gruppo delle Grandes Jorasses. Armati di picca e ramponi, con zaini pesantissimi, dopo due ore arrivammo tutti in cima senza neppure legarci: con me erano il capo-spedizione Guido Machetto, Gianni Calcagno, Leo Cerruti, Lorenzo Pomodoro, Rino Prina Cerai, Vasco Taldo, Miller Rava e Carmelo di Pietro.
Con gli ultimi due mettemmo in cantiere anche il tentativo di una prima
ascensione sulla parete est del Mont Gruetta (o Greuvetta). Dopo un bivacco alla base della parete la sera del 14 luglio (il bivacco Comino era di là da venire), il mattino dopo ci impegnammo su quella che si rivelò subito un osso molto duro. Avevamo disdegnato altre possibilità meno impegnative e avevamo affrontato la parete nella sua sezione più severa. Molto probabilmente volevamo seguire la stessa linea che poi, nove anni dopo, Ugo Manera e Laura Ferrero avrebbero seguito per il loro Pilastro del Sorriso, un piccolo capolavoro. Scendemmo per mancanza di materiale adatto e pensando anche che non ce l’avremmo mai fatta in giornata.
L’ultima scalata prima della partenza per la fatidica spedizione la feci in Dolomiti. L’8 agosto 1973, con gli amici Rina Chiocchetti, Domenico Magalotti e Marco Goss salimmo in 6 ore i 400 metri dell’inviolata parete sud della Cima dell’Uomo, nel gruppo dei Monzoni. Fu una giornata molto serena, rallegrata anche dal faticoso passaggio finale, un foro nella roccia che diede grande filo da torcere al nostro compagno più corpulento, Domenico. Per questo la chiamammo via del Bus del Menech.
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Dopo il cupo “singolar tenzone” col Crovella, ecco a noi il lato luminoso del Cominetti.
Bravo Marcello! Queste sono le parole piú toccanti dei tuoi ultimi cento commenti.
P.S. Duecento commenti.
IN questi diari, solo apparentemente noiosi, saltano fuori particolari e persone conosciute che li rendono estremamente piacevoli da leggere. Più di tutto però mi ha colpito la frase in cui ricordi tuo padre sereno a Punta Indren e il bene che gli volevi e non gli manifestavi mentre era in vita. Avendo perso il mio da poco tempo, ed essendo io stesso padre, sento che l’equilibrio è difficile ma è la cosa che andiamo cercando costantemente davanti e dietro di noi, prima che in noi stessi. Basterà la vita a farcelo trovare?