Alpinismo solitario

Primi di gennaio 2018, uno scambio di e-mail con Alberto Paleari:
“Caro Alberto, buon anno! Frugando nei miei scaffali e cassetti ho trovato un tuo articolo (di pregio) scritto ancora a macchina sull’Alpinismo solitario. Te lo ricordi? Perché ce l’ho io? L’hai mai pubblicato da qualche parte?”.
Ciao Sandro, c’era stata a Trento una serie di conferenze organizzate da Emanuele Cassarà, una era sull’alpinismo solitario. C’eri anche tu, l’avrai per quel motivo. Il mio intervento non l’ho mai pubblicato. Tra l’altro quel pezzo non l’ho più. Sono andato a vedere la biografia di Emanuele Cassarà: è stato presidente del Festival di Trento tra l’’86 e l’89. Visto che io ho avuto un po’ di notorietà dopo l’89, in cui ho pubblicato i miei primi libri, penso che se mi ha chiamato è stato dopo quella data. Buon anno anche a te”.
Ti allego il file. Secondo me l’hai scritto nel 1986 (perché dici che in quell’anno al K2 c’erano stati 13 morti)”.
“Grazie così l’ho letto, sembra scritto da un’altra persona, un po’ enfatico, però mi ero impegnato, cosa che oggi non farei più, per un argomento così di lana caprina, poi. Vabbè, lo storico dell’alpinismo sei tu, Se dici che è dell’86 vuol dire che è dell’86, io saprei solo, e anche qui con molta approssimazione, dire l’annata di un vino”. (Ho poi recuperato la data esatta del convegno, 12 febbario 1987, NdR))

Alberto Paleari

Alpinismo solitario
Quando, nella storia dell’alpinismo, i solitari hanno eguagliato le prestazioni delle migliori cordate a loro contemporanee?
di Alberto Paleari
(scritto nel 1986)

Lettura: spessore-weight(2), impegno-effort(2), disimpegno-entertainment(3)

In una ipotetica età dell’oro, che situiamo agli albori della storia alpinistica, tutto l’alpinismo è solitario. Immaginate cercatori di cristalli che non cerchino cristalli, cacciatori di camosci che non caccino camosci, contrabbandieri che non contrabbandino ma che vadano in montagna per il loro piacere: essi arrampicano ai massimi livelli della loro epoca. Senza le corde, senza i chiodi, senza compagni, con un paio di scarponacci: essi praticano quella che oggi viene chiamata la solitaria integrale, Per loro vedere una montagna, desiderare di salirla, salirla, sono una cosa sola. Questa innocenza, questa ignoranza di ogni mezzo tecnico, la schiacciante vittoria dello spirito d’avventura sullo spirito di conservazione ci affascinano. Tutti abbiamo, almeno una volta, sognato di partire e di andare in cima, attaccandoci alla roccia, con il vento ed il vuoto fra le gambe.

Molto vicini a questa felicità di gesti, a questa purezza, arrivarono i pionieri. Alla fine dell’Ottocento, Georg Winkler aprì, all’età di diciassette anni, in solitaria, vie che nessuno, prima di lui, era riuscito ad aprire in cordata. L’itinerario tracciato sulla torre che porta il suo nome è ora classificato di quarto grado, e il quarto grado era anche la massima difficoltà superabile da una cordata fortissima e temeraria con i mezzi del tempo.

È vero che Winkler si servì di ancore lanciate in alto nella speranza che si appigliassero ad uno spuntone, come dice Preuss nel celebre articolo apparso sul Deutsche Alpenzeitung, ma, come Preuss, non possiamo che sorridere per l’ingenuità e la primitività di questi artifici.

Matthias Auckenthaler

A quell’epoca le corde e i chiodi a disposizione davano così poco affidamento che la presenza di un compagno era un aiuto quasi esclusivamente psicologico: in fondo tutte le salite erano in solitaria. Anche noi avremmo preferito essere soli piuttosto che legati a un compagno da una corda di canapa tenuta con le mani mentre l’amico avanzava tremando venti metri sopra, nel vuoto di un quarto grado dolomitico. Tita Piaz, Paul Preuss, Hans Dülfer aprirono, dai primi del Novecento allo scoppio della grande guerra, un bel numero di vie in solitaria, alcune delle quali fecero fare un passo avanti alla storia dell’alpinismo.

Attenzione! Ho detto aprirono: e vorrei soffermarmi un attimo su questo fenomeno. Le prime solitarie come ripetizioni di vie aperte precedentemente in cordata proliferano negli anni Cinquanta-Sessanta, quando, per le ambizioni degli alpinisti di punta, le possibilità si limitavano appunto alle solitarie, alle invernali e alle vie tecnologiche. Preuss invece non aveva bisogno, per realizzarsi, di ripetere in solitaria vie già aperte in cordata; le Dolomiti, ai suoi tempi, pullulavano di problemi realizzabili con la tecnica che aveva a disposizione.

Più tardi, con Herzog, Rossi, Solleder, Micheluzzi, inizia l’era del sesto grado, che, da una parte non era ancora stato abbastanza digerito da essere fatto in solitaria, dall’altra apriva infinite possibilità ai desideri di affermazione dei migliori. Negli anni Trenta l’arrampicata solitaria su grandi difficoltà è un’eccezione: Comici ripete la sua via alla Nord della Grande, Auckenthaler, Schinko, Rebitsch ripetono alcune vie nel Kaisegebirge, nel Karwendel, nel Gesäuse. I grandi nomi del sesto grado, Tissi, Carlesso, Soldà, Vinatzer, Cassin avevano a disposizione un enorme campo di gioco su cui aprire nuove vie e non sentirono la necessità di ulteriori complicazioni andandovi da soli.

Matthias Rebitsch

Ma torniamo agli inizi del Novecento e alle pedule di feltro. Delle famosissime sei leggi scaturite dalla polemica scoppiata fra Preuss e Piaz e culminata nella seduta di Bayerland del 1912, specialmente le prime due sarebbe auspicabile fossero messe in pratica dai solitari, soprattutto dai solitari integrali. Esse dicono:
1) Si deve sempre essere non soltanto all’altezza, ma superiori alle difficoltà delle ascensioni che si intraprendono.
2) Il grado di difficoltà che l’arrampicatore potrà superare in discesa, sicuro e cosciente di non oltrepassare le sue possibilità, deve rappresentare il limite massimo delle difficoltà che può affrontare in salita.

Chi le mettesse in pratica alla lettera sarebbe probabilmente invulnerabile alle cadute, ma non ai fulmini e alle pietre, così come non sarebbe immortale chi riuscisse a mettere in pratica alla perfezione il motto “è meglio prevenire che curare”.

Mi domando se lo stesso Preuss le abbia applicate veramente e se abbia sempre conservato nelle sue salite il margine di sicurezza che teorizza. In questo caso, rischiando un pochino o facendosi assicurare un po’ meglio, che grado di difficoltà avrebbe raggiunto? In Alpinismo Moderno Cesare Maestri scrive: “Quando un alpinista solitario attacca una via lo fa perché sente dentro di sé la potenza, la tecnica, la sicurezza di stravincere le difficoltà che quella via presenta“. Maestri, come Preuss, arrampicava in solitaria su gradi molto vicini a quelli massimi dell’epoca. Ho l’impressione che, malgrado le loro dichiarazioni, il limite che raggiungevano in solitaria non fosse di molto inferiore al limite che raggiungevano in cordata e che il loro margine di sicurezza fosse molto minore di quello che hanno voluto far credere, che, insomma, un po’ di mal di pancia, sulla Est del Campanile Basso o sulla Soldà alla Marmolada l’abbiano tuttavia avuto anche loro.

Ci ho messo qualche giorno ad accorgermene, qualche giorno passato a sfogliare i loro libri e i libri che parlano di loro, ad intenerirmi sulle foto in bianco e nero per i loro capelli a spazzola, per le loro camicie a scacchi, per i loro pantaloni alla zuava, e, sì, sembra incredibile, per i loro scarponi.

In Dolomiti con le pedule rigide e il vibram, se non proprio con gli scarponi, sono state ripetute in solitaria tutte le classiche di sesto che erano state aperte negli anni Trenta con le pedule di feltro.

Claude Barbier

Bonatti, Maestri, Barbier, Buhl, Gogna, Messner arrampicavano con gli scarponi. Oggi ci sono ragazzi che con le pedule morbide, dopo due anni che arrampicano fanno il 7a, e che probabilmente non li hanno mai sentiti nominare, non dico Bonatti e Messner, ma Barbier per esempio, come i loro coetanei che ballano nelle discoteche non hanno mai sentito nominare i Rolling Stones.

L’incredibile è che sono più bravi loro di Barbier. Voglio dire che se prendete quel Barbier là, con quegli scarponi là, con quella mentalità là, con quell’allenamento là, con quei pantaloni alla zuava là e lo mettete (con la corda e gli spit, beninteso) su Funeral Party o su Mistica Giraffa o Siamo Gay, quello non ci sale. E’ chiaro che se però prendete il mio allievo Giuseppe Carugati di Casorate Sempione, che ha vent’anni, al quale ho insegnato due anni fa il mezzo barcaiolo ed ora mi dà la biada su Non Seguitemi ed ha due spalle così, due bicipiti cosà, e, che rabbia, per di più è vegetariano, e lo mettete sotto la Nord della Cima Ovest con le pedule morbide e i collant, non dico con gli scarponi e i pantaloni alla zuava e gli dite: vai su da solo, senza corda, senza spit, senza magnesite. Quello vi risponde, non sono mica matto. Se penso che oggi in Italia ci sono migliaia di persone che arrampicano su difficoltà superiori al sesto grado non posso fare a meno di stupirmi, stupirmi, e continuare a stupirmi. In nessun altro sport è successo che in così breve tempo, prestazioni destinate a pochi campioni diventassero appannaggio della massa dei praticanti: in atletica bisogna risalire alle Olimpiadi di Atene del 1896 o forse di Parigi del 1900 per avere risultati abbordabili da un amatore moderno.

Da Buhl a Messner i solitari con gli scarponi arrivarono, in una ventina d’anni, a raggiungere il limite massimo raggiunto dai loro coevi legati in cordata. Subito dopo di loro, e preparata da loro, è arrivata la grande rivoluzione. In poco più di un decennio, infranta, dapprima timidamente, la barriera del sesto grado, l’arrampicata è dilagata verso il decimo grado. Ma quale arrampicata?

C’è ora una grande diversificazione fra arrampicata sportiva iperprotetta su strutture di fondovalle e salite di grandi pareti. L’evoluzione sulle falesie è stata velocissima e probabilmente sarà accelerata ancora dalle gare di arrampicata. Sulle grandi pareti, caduto il muro del settimo grado, si fatica molto ad andare oltre. I motivi principali sono due:
1) sulle grandi pareti si arrampica a vista mentre sulle falesie si ha tutto il tempo per provare e per allenarsi in modo specifico al passaggio che si vuole superare.
2) Un conto è arrampicare su vie già protette, un altro è arrampicare proteggendosi.

Sulle grandi pareti i più forti arrampicatori hanno cominciato a farsi le ossa “liberando” vecchie vie in artificiale già chiodate e conosciute. Questo sistema ha loro permesso di trasportarvi le tecniche delle falesie e di provare e riprovare fino alla caduta dei passaggi più difficili.

Questa premessa mi è servita per chiarire meglio, innanzitutto a me stesso, la situazione attuale dell’arrampicata solitaria. Potrebbe sembrare che ora esista un grande divario fra alpinismo e alpinismo solitario, un divario molto più grande di quello che esisteva ai tempi di Preuss o a quelli di Maestri.

Certo esiste se paragoniamo arrampicate in falesia con arrampicate su grandi pareti, ma è molto più piccolo se rimaniamo nell’ambito delle imprese realizzate in montagna. La forbice fra difficoltà superate in cordata e difficoltà superate da soli va chiudendosi. Quando Massarotto e Giordani compiono delle salite in solitaria, oggi, non sono, rispetto all’alpinismo odierno, molto più distanti dalle massime prestazioni ottenute in cordata di quanto non lo fossero Maestri, Barbier e Messner rispetto all’alpinismo del loro tempo.

(In questa affermazione esiste una sorta di vizio, bisogna infatti per un attimo dimenticare che gli alpinisti citati, oltre ad essere dei solitari, sono, o sono stati, coloro che hanno fatto progredire l’alpinismo in generale nella loro epoca, per cui il paragone si deve fare spesso con essi stessi: per esempio il Messner solitario del Philipp con il Messner in cordata del Monte Cavallo, il Giordani solitario di Moderne Zeiten con il Giordani in cordata della Via dell’Irreale.)

Maurizio Giordani in free solo su Moderne Zeiten

Abbiamo finora parlato delle Dolomiti e dell’arrampicata su roccia, ma l’alpinismo solitario si è sviluppato anche su altri terreni; sul granito delle Alpi Occidentali, sul misto, sul ghiaccio.

Su ghiaccio all’epoca degli alpinisti con gli scarponi corrisponde l’età delle piccozze di legno e dei ramponi poco aggressivi. Questo periodo finisce con l’impresa di Messner ai Les Droites e con quella di Gogna alla Via dei Francesi sul Rosa. Fra i suoi più grandi esponenti, Bonatti e Darbellay.

Su granito cominciò Buhl nel ’52 con la Nord-est del Badile in quattro ore, continuò Bonatti nel ‘55 con il capolavoro dei Dru. L’epoca penso si possa chiudere nel ’68 con lo Sperone Walker di Gogna.

Le motivazioni che questi alpinisti adducono per le loro salite sono spesso strane ed estranee all’alpinismo. Ad esempio: Maestri per la via delle Guide al Crozzon, “una delle ragioni che mi spinse fu il fatto che il gruppo delle guide mi aveva convocato per sottopormi ad una specie di esame che comprovasse la mia capacità ad esercitare il mestiere e questo mi aveva notevolmente irritato“.

Bonatti per il Dru, “Questa seconda sconfitta mi pose in uno stato di profonda depressione psichica, fu l’ultima goccia che fece traboccare il vaso colmo di delusione e amarezze già dai tempi del K2. Sarei tornato al Dru da solo per vincerlo e dimostrare così a me stesso di non essere finito“.

Gogna, poco prima della Walker, “Lentamente pensai di non essere capace, di non volere nulla, di essere un fallito in partenza“.

Non so se Boivin, Escoffier, Profit, partono per le loro cavalcate con questi rancori, queste disperazioni.

Per quello che riguarda il tipo di salita oggi i solitari si muovono in tre grandi direzioni:
1) La ripetizione in solitaria di vie moderne con passaggi estramamente difficili;
2) L’arrampicata veloce e gli enchainement, spesso in inverno, di grandi vie classiche già superate in solitaria negli anni Sessanta;
3) L’arrampicata solitaria sulle Ande e in Himalaya.

Eric Jones

Per quello che riguarda il modo di salire abbiamo due modi di procedere:
1) Solitaria integrale, senza assicurarsi (con varie sfumature). E’ il modo iniziato da Preuss, continuato da Buhl, da Maestri, da Messner e ultimamente portato alle estreme conseguenze, per esempio da Profit, nella sua salita alla Ovest del Dru, senza corda nello zaino, senza imbragatura, senza un moschettone o un cordino per attaccarsi ad un chiodo e riposarsi.
2) Assicurandosi. E’ il modo di Bonatti sul Dru, di Robbins sul Capitan (Parete Muir). Ha avuto in Casarotto il suo massimo esponente.

Negli anni Sessanta è prevalso il sistema di assicurarsi nei tratti in artificiale e di salire senza corda nei tratti in libera. Le relazioni e le cronache dei solitari di quel tempo sono piene di pagine dedicate alle corde che si incastrano rendendo necessario slegarsi o tagliarle per procedere. Il problema di autoassicurarsi nelle salite solitarie non sembra del tutto risolto neppure dopo il sistema a Z di Bonatti, il sistema delle asole di corda di Maestri e quello dinamico di Casarotto. Ho dato una scorsa alle cronache alpinistiche dal ’75 a oggi e ho provato a isolare i nomi e le salite più significative, cercando di inquadrarle nei tre grandi filoni sopraddetti.

1) Ripetizione in solitaria di vie moderne con passaggi estremamente difficili. Cercare di fare qualche cosa di più di quanto aveva fatto nel ’69 Messner sul Philipp-Flamm non era facile. In Dolomiti dovranno passare quasi dieci anni per arrivare a quei livelli, con le salite di Ernesto Lomasti al Diedro Cozzolino del Piccolo Mangart nel ’77 e di Pier Luigi Bini alla Via dei Fachiri (Cozzolino) sulla Scotoni e alla Gogna sulla Marmolada (1978-1979).

Nelle Occidentali due arrampicatori francesi: Jean-Claude Droyer e Patrick Cordier, ripetono rispettivamente, nel ’71 e nel’76, la Diretta Americana al Dru e la Sud del Fou.

E’ molto singolare quanto dichiara Eric Jones nel ’71, dopo avere aperto una via nuova in solitaria sul pilastro centrale del Brouillard, un’impresa paragonabile a quella di Bonatti sul Dru: “arrampico da solo perché non sarei mai in grado di ripetere le più dure vie nuove: non sono sufficientemente bravo, né ho il fisico adatto“.

Fra il 1970 e il 1975 le ultime classiche rimaste vengono salite in solitaria, le più dure vie nuove, quelle di Messner, Cozzolino, Casarotto, Gogna, Mayerl, e le nuovissime di Mariacher dovranno aspettare ancora qualche anno. Negli anni ’80 un ragazzo dotato può cercare la gloria arrampicando fra uno spit e l’altro su vie corte, allenandosi come un atleta e mettendo le gambe sopra la testa. Oggi, nel mondo dell’arrampicata sportiva, per emergere devi fare il nono grado, un ragazzo “non sufficientemente bravo” o che non abbia, come dice Eric Jones, “il fisico adatto” correrebbe seri rischi se si mettesse in testa di emergere ripetendo in solitaria grandi vie moderne. Correrebbe certamente più rischi di Eric Jones, il quale si attaccava ai chiodi e si assicurava. Sulle vie moderne, anche dove i chiodi sono relativamente vicini, essi sono separati da abissi di placche, insormontabili, quanto ad assicurarsi. Non credo che, per esempio, Maurizio Giordani abbia avuto il tempo di farlo ripetendo in sole quattro ore Moderne Zeiten. Sulle vie moderne non si passa da un chiodo all’altro, è impossibile barare, non basta avere “il fegato”, se non si è capaci, oggi più che mai, bisogna stare a casa.

Maurizio Giordani è capace e, naturalmente, non sta a casa. Con Bruno Pederiva e Lorenzo Massarotto forma un terzetto che, negli ultimi anni, riesce a ripetere in solitaria le vie moderne.

In un’intervista alla Rivista della Montagna (luglio 1986) Giordani dichiara: “bisogna portare sulle grandi pareti alpine quell’evoluzione che, con l’arrampicata libera, si è per ora sviluppata in fondovalle“… “Alle gare di Bardonecchia ero presente, non perché mi identifichi nel puro arrampicatore-atleta, ma per curiosità, per vivere un’esperienza nuova“. “Alterno short climbs alle lunghe vie classiche, per evitare di farmi soggiogare dallo spit, che abitua ad una fallace sicurezza“.

Christophe Profit

2) Arrampicata veloce, enchainements, invernali solitarie. E’ il campo che negli ultimi anni ha visto i successi più fantastici e le imprese più inimmaginabili.

Se nel 1970 mi avessero detto che una sola persona era riuscita a vincere in solitaria e in inverno le tre grandi pareti Nord delle Alpi (Cervino, Eiger, Jorasses) gli avrei dato del bugiardo. Chi oggi invece si ricorda ancora di Tsuneo Hasegawa, che, in tre inverni successivi (’77, ’78, ’79) salì faticosamente le tre grandi classiche? La sua impresa è stata adombrata da quella di Yvan Ghirardini che fece le tre pareti nello stesso inverno (quello del ’78) e ridicolizzata poi da quella di Christophe Profit, che, se pure in estate, le salì nel medesimo giorno. Ecco il suo ruolino di marcia come lo riporta la Rivista della Montagna:

25 luglio 1985. Ore 00, Profit è all’attacco della via Schmid sulla Nord del Cervino. Ore 4, arrivo in vetta. Frugale colazione e collegamento con una postazione della televisione svizzera. Discesa per la cresta dell’Hörnli. Ore 5.30 Profit è alla base del Cervino in attesa dell’elicottero. Ore 7, arrivo alla Kleine Scheidegg, breve colazione e risalita in elicottero all’attacco dell’Eiger. Ore 9.05, Christophe inizia la salita. Ore 15.50, arrivo in vetta. Ore 16.30, rientro alla Kleine Scheidegg, pranzo abbondante. Ore 18, nuova partenza in elicottero. Ore 18.50, atterraggio al Col des Hirondelles. Profit rinuncia alla Walker e sceglie di salire il Linceul. Ore 22.30, arrivo sulla cresta des Hirondelles. Ore 1.45, dopo essersi fermato un’ora, Profit arriva in vetta alle Jorasses.

A leggerla così di seguito sembra quasi che abbia passato il tempo a fare spuntini e pranzetti.

Quest’inverno Jean-Marc Boivin ha salito nella stessa giornata la Nord dell’Aiguille Verte (via Grassi-Comino-Casarotto), la Nord di Les Droites (via Davaille), la Nord di Les Courtes (via degli Svizzeri), la Nord delle Grandes Jorasses (Linceul) spostandosi da una cima all’altra con il paracadute direzionale e il deltaplano.

Pier Luigi Bini su Il Vecchiaccio, Corno Piccolo del Gran Sasso. Foto: Fabrizio Antonioli

Gli alpinisti appartengono a quella categoria di uomini che gli psicologi definiscono “ricercatori di sensazioni”. Al contrario dei non ricercatori di sensazioni essi hanno la tendenza a sottovalutare il rischio e a ipervalutare il successo e l’autostima. Per un ricercatore di sensazioni l’ansia è intrisa di piacere, l’ansia è una sensazione gratificante.

Se tutti gli alpinisti sono, più o meno, dei ricercatori di sensazioni, se a tutti noi piace sentire scorrere l’adrenalina nel sangue, se la difficoltà ci esalta, se il nostro corpo lavora meglio quando si trova sotto pressione, questo deve essere più vero per i solitari, ma forse non così tanto per quelli del tipo di Profit, Escoffier, Boivin.

In questi ultimi il fatto atletico predomina sul fatto emotivo. A leggere delle loro imprese, a guardare i loro film non si pensa al vuoto, alla paura di cadere, si pensa soprattutto ai loro polmoni, cuore, muscoli e tendini. Essi sono degli sportivi, arrampicano infinitamente al di sotto delle loro possibilità, e, nello stesso tempo, infinitamente al di sopra delle possibilità degli altri alpinisti.

La Nord dell’Eiger, con i suoi passaggi di quarto e quinto grado, è, per loro, tecnicamente facile, salirla in sei ore è il vero problema, problema che però assomiglia al problema di un maratoneta o a quello di un nuotatore più che a quello di un alpinista solitario. Essi infatti non arrampicano, corrono a quattro gambe in salita.

Negli enchaînement invernali e solitari i francesi sono oggi non solo al livello delle imprese dello stesso tipo compiute in cordata, ma addirittura a un livello più alto, perché questa disciplina (la salita appunto di vie classiche di ghiaccio e misto concatenate) è estremamente confacente ai solitari, la corda ed il compagno essendo più di impiccio che di utilità.

Il problema non è più cadere o non cadere, ma battere il record. In piccolo succede la stessa cosa ai miei allievi dei corsi di arrampicata ai quali faccio fare delle gare di velocità assicurati dall’alto. Fuori gara alcuni di essi non riescono a effettuare determinati passaggi, in gara, dimentichi di sé stessi e della paura di cadere, passano. La differenza è che Boivin, Escoffier, Profit, non hanno la corda davanti. Se sulle grandi vie di misto si può correre anche se è inverno e si è da soli, sulle grandi vie di roccia, per ora, in inverno, si va ancora adagio e ci si assicura.

Alberto Paleari

Specialista delie solitarie invernali sulle grandi vie di roccia è stato Renato Casarotto. Modesto e impacciato nei rapporti con i mezzi di comunicazione, si è fatto conoscere in tutto il mondo a suon d’imprese. Profit non porta neppure la corda, per essere più veloce, Casarotto porta zaini di quaranta chili con dentro l’occorrente per sopravvivere quindici giorni. “Ho sempre arrampicato assicurandomi” dichiara dopo aver fatto da solo ed in inverno la Ovest della Noire, la Gervasutti-Boccalatte al Pic Gugliermina, il Pilone Centrale di Freney, “e, se escludiamo il difficile traverso della Gugliermina e i tre tiri in artificiale della Chandelle al Pilone, sono sempre salito con il sacco in spalla“. Nell’inverno dell’85, quello delle nevicate che hanno bloccato Roma e Milano, quello dei 25 sottozero in pianura, Casarotto ha salito, con lo stesso stile, in dodici giorni, la Est delle Grandes Jorasses. La prima invernale, di Marmier-Rudolf era stata fatta in stile himalayano con corde fisse e quindici giorni di preparazione della via.

Con Casarotto siamo ritornati all’alpinismo epico di Bonatti e di Desmaison, alle avventure invernali sulle Alpi. La grandezza di alcuni personaggi della storia dell’alpinismo sta nel saper reinventare le montagne. Con Casarotto le Alpi, che sembravano essere diventate una palestra di roccia, sono ridiventate grandi.

3) L’arrampicata solitaria sulle Ande e in Himalaya. E’ il futuro dell’arrampicata solitaria?
Chi proseguirà sulla strada aperta da Casarotto su Huandoy, Huascaran, Denali, Fitz Roy, Broad Peak Nord?
Chi seguirà invece la strada degli Ottomila, sulle orme di Buhl e di Messner?

E’ ancora possibile, dato l’affollamento di cui si parla, fare un Ottomila in solitaria? Sono solitarie le salite agli Ottomila che sfruttano tracce e tende di altre spedizioni?

E’ vero che salire un Ottomila è solo questione di soldi e di permessi? Perché allora quest’anno (1986, NdR), sul K2 sono morti in tredici? Erano troppo poveri?

Che cosa è veramente lo stile alpino?

Raggiungere il Polo Nord in solitaria integrale è alpinismo solitario?

Ultimamente, facendo la guida e girando con i miei clienti per le vie normali, o poco più, dei nostri Quattromila, mi è successo sovente di incontrare persone, quasi sempre di una certa età, che salivano da sole.

Spesso queste persone erano in evidente difficoltà, o per mancanza di allenamento, o per mancanza di tecnica, o per scarsa conoscenza della via da percorrere. Spesso mi è successo di doverle aiutare, a salire o a scendere.

Se compiere un’impresa solitaria, quando si è forti e preparati, è esaltante, salire il Cervino, o il Bianco, o il Monte Rosa per la via normale, da soli, perché non si è trovato un compagno, è solo triste.

Un panorama, un passaggio difficile, una sera in rifugio, uno di quei momenti di poesia che ci colgono a volte in montagna, sono più belli se si possono condividere con un amico.

Lasciate ai grandi le imprese solitarie, in montagna è bello andarci in compagnia. Ho finito. Mi scuso con coloro che non ho citato e che pure hanno compiuto delle salite solitarie importanti. Non ho voluto e saputo fare un elenco completo, anche se sarebbe interessantissimo, e sarebbe bellissima un’antologia con i loro racconti.

 

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Alpinismo solitario ultima modifica: 2018-05-30T05:45:36+02:00 da GognaBlog

11 pensieri su “Alpinismo solitario”

  1. Per me è sempre stata, oltre ai sensi, l’attenzione alle forme della neve e mi imponevo di non premere mai un piede prima di sapere se affondava troppo… coi ponti non ho esperienza, so che crollano.

    In Alaska bisogna assolutamente legarsi e molto distanti, i crepi sono enormi.

    Ora vado sui ghiacciai molto meno.

    Ma i ghiacciai sono fra i più pericolosi aspetti delle montagne

  2. Anche se di molti anni fa, l’articolo è estremamente attuale.

    Io sono un camminatore escursionista che ha percorso più km in solitaria che in compagnia. Amo le vie normali con i piedi per terra e non pratico alpinismo in parete (salvo ferrate).

    Vorrei spezzare una lancia in favore dei solitari, in quanto questa condizione non può essere compresa da chi è un socievole, un trascinatore o un trascinato, e riesce sempre a organizzarsi escursioni in compagnia.

    Io sono caratterialmente introverso, poco avvezzo ad adeguarmi ai ritmi di altri, io cammino senza sosta, senza macchina fotografica, coscientemente e senza mai annoiarmi.

    E’ interessante leggere che Casarotto aveva messo a punto una tecnica di assicurazione in solitaria; in parete ok, ma su ghiacciaio ? sui crepacci ?

    Come hanno fatto uomini come Messner, Casarotto, Loretan a camminare così tanto in solitaria sui ghiacciai  ? anche se Casarotto ne è rimasto vittima, Loretan non è deceduto per un crepaccio, e Messner la può ancora raccontare, come hanno fatto a mettere a punto un istinto di prevenzione dall’insidia dei crepacci ?

    Qualcuno di voi conosce o sa indicarmi dei rudimenti di tecnica di progressione in solitaria sui ghiacciai ?

    Aggiungo inoltre che incontrare qualcuno più esperto in un luogo difficile, da cui ricevere aiuto può far parte del bagaglio personale di esperienze, sia per chi aiuta che per chi è aiutato.

    Marco

  3. Fabio, perfetto quando dici: ” sei tu la misura di tutte le tue cose “.

    Ma come possono fare per essere contenti di se stessi tutte le persone che hanno bisogno di riconoscimenti da parte di altri e dedicano tutto loro stessi per ottenerlo.

    Faccebocco &c., i club di prestigio, i premi, i libri di lode, i gruppi chiusi, molti titoli e tante medaglie, parecchi giornalisti e giornali, … non esisterebbero.

  4. Salire il Monte Bianco per la Cresta delle Bosses da soli, e in totale solitudine, magari scegliendo a tale scopo un giorno infrasettimanale di metà ottobre, può essere esaltante: un’esperienza di vita in un ambiente pieno di bellezza e carico della storia e del pathos di tante imprese del passato.

    Ciò che porteremo a casa dai monti dipende soprattutto dalla nostra disposizione d’animo. In altre parole, l’alpinismo è prima di tutto un’avventura dello spirito, sul Monte Bianco come sul Changabang.

    E se l’alpinista trova il suo massimo nella Cresta delle Bosses da solo e d’autunno, allora anche quella è un’impresa (un’impresa personale) se valutata in rapporto alle sue capacità.

    In ogni caso, che sia un’impresa oppure no, ciò non deve importare agli altri: ignorali. Sei tu la misura di tutte le tue cose.

  5. Grande Alberto. Capisco che oggi quello delle solitarie lo veda cime un problema di lana caprina, ma ogni cosa ha il suo tempo. Sono contento di averti avuto come istruttore ai corsi guida. Oggi, e da un bel po’, credo che di istruttori così non ce ne siano più. Maestro?

  6. Se compiere un’impresa solitaria, quando si è forti e preparati, è esaltante, salire il Cervino, o il Bianco, o il Monte Rosa per la via normale, da soli, perché non si è trovato un compagno, è solo triste.

    Già

  7. Bello, ma del 1986. Aggiornarlo bene sarebbe difficile.

    In Italia i solitari veramente forti sembrano non essere interessati a raccontarsi, sembra che solo quelli mediatizzati abbiano interesse.

    E si dovrebbe indagare sul come i solitari salgano e questo direi già da prima.

  8. “L’asticella ha raggiunto forse un massimo insuperabile (forse) con Alex Honnold….”

    Non credo che questo sia il massimo, perchè ognuno di noi ha  la propria  di asticella….che ogni tanto alza di un altro gradino.

  9. Bravo Paleari, mi piace sempre molto leggere i suoi scritti.

    L’asticella ha raggiunto forse un massimo insuperabile (forse) con Alex Honnold….

    E sono d’accordo con Giacomo nel dire che le imprese che si fanno “correndo a 4 mani” per citare Alberto Paleari, non scaldano il cuore.

  10. Ottimo articolo,  analisi assolutamente attuale. In che modo vedremo l’asticella salire ancora?  Giordani mi pare avesse salito ‘a vista’ ( o perlomeno toccava per la prima volta i tiri  ) Modern Zeiten. Invece Hansjorg Auer ha ispezionato Weg durch den Fish prima di salire. Lo stesso si dica per le solitarie di Alex Huber e Honnold.

    L’evoluzione sulle linee dell’articolo sta probabilmente nelle salite ‘a vista’. Pero’ credo che aumentando la difficolta’ non si riesce a mantenere costante il rischio con il miglioramento delle capacita’. Quindi via via il rischio sara’ sempre maggiore. Il perche’ e’ intuitivo, gli eventi da tenere sotto controllo sono piu’ numerosi e piu’ pericolosi…

    In sostanza si arriva in un area in cui la prestazione solitaria e’ cosi’ avvolta dal rischio, che rimane sostanzialmente un’esperienza irripetibile e come tale non valutabile.

    Personalmente, si va a parare su un tipo di impresa che non mi scalda il cuore…

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