Attilio Tissi – 2 (2-2)
di Piero Rossi
(pubblicato sulla Rivista Mensile del CAI, maggio-giugno 1960)
Lettura: spessore-weight(1), impegno-effort(2), disimpegno-entertainment(2)
Il 1931 fu uno degli anni più ricchi di conquiste per la prestigiosa cordata agordino-bellunese. Tutto l’alpinismo italiano era, ormai, in ripresa grazie all’apporto dei fratelli Dimai, di Comici, di Micheluzzi, di Gilberti e di altri campioni. In quell’epoca si cominciò a parlare di medaglie e onorificenze riservate ai migliori alpinisti. All’insaputa di Tissi, qualcuno pensò di proporlo per le insegne di… Cavaliere! Ci fu uno scambio sotterraneo di corrispondenza e qualche buon diavolo di gerarca locale obiettò che il Tissi era sì un grande alpinista, ma non era in odore di santità in campo politico: insomma passava per un «sovversivo». Altri pensarono a medaglie d’oro, a ricevimenti presso altissime autorità del tempo. Lo stato d’animo di Tissi e dei suoi amici di fronte a queste iniziative è mirabilmente sintetizzato da Andrich in una sua tipica frase: «Noialtri se andea in montagna!».
Ed effettivamente la «cordata pesante» passava di vittoria in vittoria: prima ripetizione italiana della via Steger del Catinaccio. Prima ripetizione, sempre senza bivacco, della direttissima di Videsott-Rittler-Rudatis sullo spigolo sud-ovest della Busazza, salita pari per lunghezza ed affine come difficoltà alla Solleder della Civetta. Quella volta Tissi, con Andrich, Zanetti, Bortoli e Zancristoforo tracciò una variante più diretta e difficile, secondo una Sua consuetudine, che lo portava spesso a variare e rettificare il percorso consueto. Fu, poi, la volta della Tofana di Rozes. La rossa parete sud era stata vinta da Stösser, Hall e Schütt con un itinerario superbo e difficile. Il 30 luglio 1931 Tissi, con Andrich, Zanetti e Zancristoforo affrontò la parete che si erge a precipizio sopra il grande anfiteatro. Sulla vetta vi era ad attenderli il Presidente della Sezione di Belluno del CAI, Francesco Terribile, animatore e mecenate dell’alpinismo bellunese. Presto la montagna fu avvolta dal maltempo. Sulla vetta, Terribile era in apprensione per i suoi amici e vedeva con preoccupazione passare le ore, consapevole della durissima lotta che si svolgeva sulla muraglia sotto i suoi piedi. A sera, finalmente, egli vide spuntare dall’abisso il cappello di Tissi. Erano con lui due alpinisti tedeschi, che non poterono nascondere la loro emozione, nel rilevare che la cordata italiana stava uscendo in un punto assai più prossimo alla vetta di quello di arrivo della Stösser. Tissi, nella bufera, aveva aperto una via nuova, direttissima. Dopo aver, per la prima volta, superata la famosa traversata bagnata senza artifizi di corda, aveva risolto i problemi di orientamento procedendo sempre dritto! Il valentissimo alpinista austriaco Toni Hiebeler afferma che questa via è tra le più difficili e pericolose che egli conosca ed è il giudizio di un agguerrito arrampicatore dei nostri giorni.
Campanile di Val Montanaia, Strapiombi Nord. Attilio Tissi, in bilico sulla piramide formata dai compagni, raggiunge il gruppo chiodi Fanton.
Un mese dopo, Tissi doveva saldare il conto rimasto aperto con la Torre Trieste, una torre grande come una montagna, con i suoi ottocento metri di appicco. La salì con Andrich e Rudatis per lo spigolo sud-ovest, la via più elegante e logica, oggi considerata fra le più belle e classiche delle Dolomiti. Erano, quelli, tempi d’oro per l’alpinismo dolomitico. Intere muraglie si ergevano intatte e si offrivano all’audacia e all’intuito degli arrampicatori. Nella Civetta, poi, il «terreno di gioco» sembrava inesauribile. Il 22 agosto 1932 fu la volta dell’ardita cuspide del Pan di Zucchero, oltre 600 metri di roccia verticale, per il versante più grandioso: quello nord-ovest. Ancora con Andrich e Rudatis, Tissi ne toccò la cima, dopo aver vinto passaggi di grande eleganza e difficoltà, come la famosa «parete volante».
Le vittorie di Tissi sembravano segnare un crescendo ininterrotto. Egli aveva, ora, rivolto la Sua attenzione all’armoniosa Torre Venezia, l’altro gigantesco monolite, con la gemella Torre Trieste, che fa da pilastro alla Val dei Cantoni e segna l’inizio dell’interminabile muraglia settentrionale della Civetta. Squadrata e regolare, la parete sud aveva respinto, sino allora, le ambizioni di ogni arrampicatore. La parte inferiore, per un tratto, appariva abbastanza articolata. Sotto la cima, una nera incisione fende la parete. Ma il tratto centrale è tutto segnato da tetti e strapiombi, dove sembra che solo il ferro e la corda possano aver ragione degli ostacoli naturali. Una prima ricognizione esplorativa permise a Tissi di entrare nella parete a metà altezza e di toccare la vetta con la via a Spirale. Ma questa non era, evidentemente, la soluzione del «problema». Il 20 agosto 1933, con Andrich e Bortoli, Egli, finalmente, poté realizzare quella che rimase la Sua più bella, ardita ed elegante impresa, vincendo la parete sud con un itinerario diretto e in arrampicata libera, nel centro della parete, subito a destra del grandioso franamento che la caratterizza.
La chiave della via è costituita, subito dopo un duro strapiombo, da una traversata in salita di quaranta metri, un tratto che ancor oggi, se percorso con la stessa purezza di stile e con l’uso di soli mezzi di assicurazione, costituisce un classico esempio di estrema difficoltà. Chi ha provato a librarsi su quel vuoto assoluto, su quegli appigli minuscoli e su quella roccia che respinge in fuori, non ha potuto fare a meno di chiedersi come abbia fatto Tissi a configgere quei chiodi, che non aiutano la progressione, ma la rendono più sicura, soprattutto per chi segue. Di quel passaggio Tissi ricordava sempre e prima di tutto la preoccupazione per i compagni della cui sicurezza Egli si curava sino allo scrupolo. Vinta la traversata, però, la parete cede di poco le sue difese, che si succedono per 550 metri ininterrotte, fino alle ultime, faticosissime fessure terminali.
Campanile di Val Montanaia. Attilio Tissi, ormai alla conclusione del suo itinerario sugli Strapiombi Nord.
La tecnica moderna ha permesso, specie negli ultimi anni, la conquista di pareti ancora più ardue e repulsive, ma mentre le discussioni sulla palma delle maggiori difficoltà si rivelano spesso effimere, vie come la Tissi della parete sud della Torre Venezia conservano un fascino che, anziché attenuarsi, si estende sempre più fra coloro che, sulla montagna cercano, accanto alla difficoltà pura ed esaltante la bellezza estetica e l’armonia spirituale. Questa via è, certamente, molto difficile, anche con i criteri di oggi, ma è soprattutto bella, elegante, ardita ed entusiasma chi l’affronta con animo e corpo preparati. Sembra che, per misteriose vie, una espressione di classica armonia naturale abbia atteso, per essere conquistata, l’uomo che meglio, per la Sua personalità di alpinista, poteva svelarne il mistero.
Come arrampicava Tissi? La Sua tecnica non fu mai raffinata. Dopo le prime esperienze, apprese e applicò con cura tutto ciò che occorreva per non mettere mai a ingiustificato repentaglio la vita dei compagni. Dove il fisico avrebbe ceduto, Egli fu sospinto, talora dalla volontà a osare fino all’estremo, per riportare incolumi coloro che si legavano alla Sua corda con fiducia. Non era solo un capocordata, una guida, ma un amico fedele e sicuro. Non sappiamo se, più avanti, Tissi avrebbe potuto far Sua la tecnica dell’arrampicata artificiale, ma ne dubitiamo. Egli fu sempre e soprattutto il cavaliere dell’arrampicata libera, l’uomo che saliva là dove il Suo intuito e la sapiente conoscenza delle proprie forze Gli assicuravano di poter osare. Non fu mai un arrabbiato. Però, anche se capace di rinunziare al momento giusto, la Sua tenacia naturale non Gli consentiva di disarmarsi al primo ostacolo. Era dotato di un equilibrio prodigioso, che Gli consentiva di librarsi sicuro sui piccoli appigli, assistito dalla potenza fisica, anche se il Suo stile non fu mai acrobatico o spettacolare. Apparentemente lento, saliva sicuro e realizzava, senza proporselo, «tempi» impressionanti. In nessuna delle Sue più famose salite, infatti, fu mai costretto al bivacco e neppure in condizioni atmosferiche avverse ebbe mai incidenti di rilievo.
Di una delle Sue conquiste è rimasto un brano vivace e immediato, scritto da uno dei protagonisti, il Rudatis. Tramite Rudatis e Franchetti, Tissi aveva conosciuto il Principe Leopoldo di Brabante, figlio di Alberto Re dei Belgi e, come il grande Padre, appassionato alpinista. Fra loro nacque, immediatamente, una stretta amicizia che si tradusse, naturalmente, in bellicosi progetti alpinistici. Rudatis, conoscitore pignolo di tutti i recessi della Civetta, attirò la loro attenzione su una guglia veramente originale per conformazione ed arditezza, la cui salita appariva, da ogni versante, assai problematica. Alcuni valenti arrampicatori erano stati respinti e avevano lasciato un chiodo di assicurazione, che segnava il punto del loro tentativo. Il 2 settembre 1933, Tissi, con Leopoldo di Brabante, Rudatis, Franchetti e Andrich si portò alla base della guglia ribelle. Dopo aver esaminato i diversi versanti, cercando di evitare una soluzione che avrebbe imposto un abuso di mezzi artificiali, individuarono il punto giusto, contrassegnato dal chiodo dei precedenti tentativi. Lasciamo, ora, la parola a Rudatis:
«Non è un tratto molto lungo, ma assai liscio e strapiombante. Siamo pronti e Tissi parte. Fino al chiodo di assicurazione, che ricorda il primo tentativo, non c’è niente di speciale. Ma poi viene il duro!
Per un momento Egli impugna i due capi della corda infilata nel moschettone, punta i piedi contro la parete, si alza e protende la destra in alto verso un lontanissimo appiglio. C’è! Tutto il corpo oscilla a destra. La mano sinistra ha lasciato la corda e s’è portata in alto a destra. I piedi si equilibrano su invisibili appoggi. Le mani si scambiano e si spostano. Il corpo è tutto nel vuoto, in pieno strapiombo, eppure sale. Non un attimo di arresto, non uno scatto, non un chiodo. Ma un prodigioso alternarsi e ripartirsi di tensioni, che si rivela con movimenti quasi ritmici. Movimenti facili, per quanto in posizioni assurde, potrebbe pensare il profano, mentre l’intenditore intuisce che il corpo sta passando attraverso equilibri e tensioni insostenibili, miracolosamente sfuggendo alla caduta mediante la continuità del procedere. Così l’amico ha raggiunto lo spigolo. Lo gira. Ha vinto! E pochi minuti son trascorsi.
Questa è arte più che tecnica di arrampicare. E somma arte ha ora vinto dove valida tecnica aveva prima ceduto. E probabile che si possa tuttavia vincere anche tecnicamente, a forza di chiodi, così come oggi di solito avviene di fronte a tali estreme difficoltà. Anzi è chiaro che l’uso di mezzi artificiali consente di superare strutture ancora più repulsive. Ma è altrettanto chiaro che, senza mezzi artificiali, gran parte dei più valenti scalatori non saprebbe vincere una simile difficoltà. “E’ un passaggio che si effettua in stato di grazia, né saprei ripeterlo tutti i giorni” commentava poi brevemente il nostro amico».
Sulla vetta, dalla quale sarebbero discesi con una vertiginosa calata a corda, sulla cima di un’altra guglia, il futuro Re dei Belgi, a capo scoperto, ricevette l’omaggio veramente regale: la cima fu battezzata «Campanile di Brabante».
Attilio Tissi alla base degli Strapiombi Nord del Campanile di Val Montanaia
Abbiamo accennato solo alle maggiori imprese di Tissi, ma quante dovremmo ancora ricordarne: gli strapiombi nord del Campanile di Val Montanaia; la difficilissima fessura est della Torre Venezia, breve, ma dura e pericolosa; la parete della cima principale della Auta, che domina il Suo paese natale; la Torre Sprit; l’Agner; la Torre Armena; il Framont ed altre ancora, moltissime, facili e difficili, perché Tissi amò la montagna in tutti i suoi aspetti, atletici, estetici ed umani, soprattutto umani, prima della difficoltà pura.
Alla fine della brillante stagione 1933, sembrò che un malaugurato incidente dovesse stroncare per sempre la carriera alpinistica di Tissi. Mentre con l’amico Rudatis percorreva in motocicletta la Val Cordevole, una rovinosa caduta Lo ferì gravemente. Ricoverato all’ospedale, venne rilevata una lesione alla colonna vertebrale e i sanitari affermarono che avrebbe dovuto portare per tutta la vita un busto metallico. Di montagna, neanche più parlarne! Effettivamente la lunga convalescenza e le conseguenze dell’infortunio ebbero un peso notevole sulla carriera alpinistica di Tissi e non ci è dato sapere quali imprese avrebbe potuto certamente attingere se all’epoca del Suo massimo rendimento atletico, avesse potuto contare sulla pienezza delle Sue forze. Eppure, proprio in questa avversa circostanza, si rilevarono appieno la Sua forza di volontà ed il Suo amore disinteressato per la montagna. Fino allora, dopo l’entusiasmo delle prime esperienze, qualcuno avrebbe potuto pensare che Tissi fosse spinto da un desiderio di affermazione competitiva. Ma ora che le Sue forze venivano menomate, proprio quando la schiera dei grandi alpinisti italiani si andava infittendo e lo stesso alpinismo era giunto a una svolta, determinata dalla acquisizione di una nuova tecnica, che permetteva di superare il livello raggiunto dalla libera arrampicata, Egli dimostrò di amare, prima di tutto, la montagna per se stessa e per se stesso. Appena gli fu possibile, riprese ad arrampicare.
Campanile di Val Montanaia, Strapiombi Nord. Attilio Tissi tenta di ripetere il passaggio Casara. Si notano il primo ancoraggio (chiodo da lui infisso tramite piramide), poi il secondo ancoraggio (gruppo tre chiodi Fanton) e il terzo (quinto chiodo Fanton, un attimo prima della fuoriuscita dovuto al volo di Tissi).
A molti sembrò incredibile, eppure Tissi riuscì a tornare anche sulle estreme difficoltà. Fra l’altro, con la Sua futura sposa e altri amici, aprì una via ancor oggi assai rinomata sulla Prima Torre del Sella. Ma la Sua carriera di alpinista doveva culminare in una luminosa impresa, che avrebbe rivelato tutta la forza del Suo animo. Abbiamo già detto come una volta Egli avesse tentato di ripetere la via Stösser della Tofana di Rozes come, in pratica, avesse finito per tracciare una nuova via più diretta e difficile di quella originaria. Nel 1937 egli volle tornare su quella parete, assieme all’ing. Aschieri e agli Accademici bellunesi Faè e Bianchet. Alla loro già numerosa comitiva, si aggiunsero, inaspettatamente, due colleghi veneti, che avevano formulato lo stesso programma. Era una comitiva fin troppo numerosa e pesante ma la loro situazione divenne dapprima preoccupante e poi tragica quando, ormai decisamente impegnati sulle maggiori difficoltà, un repentino abbassamento di temperatura e lo scatenarsi di una bufera di neve resero estremamente precario il proseguimento della salita. Uno dei componenti la cordata, in una traversata, era volato producendosi contusioni. Altri, dotati di equipaggiamento troppo leggero, soffrivano grandemente per il freddo e i compagni dovevano reagire energicamente per allontanare il pericolo incombente dell’assideramento.
Tissi comprese che, in quel momento, la vita dei compagni era nelle Sue mani. La roccia si andava ricoprendo di vetrato, la visibilità era nulla, le già forti difficoltà obiettive si moltiplicavano paurosamente. Egli stesso soffriva dolorosamente per le lesioni interne, i cui effetti erano violentemente ridestati dallo sforzo e dalla temperatura. Mai, come quel giorno, la montagna Gli fu avversa e mai come allora il Suo grande cuore seppe fronteggiarla. Non si doveva bivaccare, perché ciò avrebbe significato la fine. Raccolse tutte le Sue energie, salì, una cordata dietro l’altra, senza piantare chiodi per non perdere tempo, trascinò i compagni esausti. Quando giunse in vetta, la neve turbinava ancora senza posa, ma Egli, benché sfinito, era felice di aver assolto, ancora una volta, al Suo compito di capocordata.
Presto un’altra bufera si sarebbe scatenata sulla Sua terra e Tissi avrebbe saputo, ancora una volta, eccellere negli ideali più nobili, così come già in campo alpinistico e nella Sua attività professionale, ora nella lotta per la Patria e la libertà.
L’avversione di Tissi alla dittatura era di lunga data e già vi abbiamo accennato. Con l’occupazione tedesca, a rischio della vita, Egli fu tra i primi e più coraggiosi cospiratori, in una provincia che tanto sacrificio di sangue avrebbe dato alla nobile causa. Presto individuato e arrestato, fu liberato dopo una breve detenzione. Ma una prova più dura doveva affrontare. Nuovamente catturato, fu rinchiuso nel tristemente celebre carcere della gendarmeria tedesca. Le SS lo sottoposero alle più feroci torture, percosse, applicazioni di corrente elettrica. Animi forti, in quelle terribili circostanze, si spezzarono, ma Egli resistette eroicamente senza tradire i Suoi compagni. Il momento più terribile fu quando, dalla Sua squallida cella, Egli sentì le urla di un Suo compagno torturato, un valoroso che avrebbe pagato sulla forca il suo amor di Patria. L’infelice, a un certo momento lasciò sfuggire il nome di Tissi. Egli aveva sentito tutto e comprese che per Lui era finita. Si chiese se anche Lui avrebbe potuto resistere a nuove infami sevizie. C’era una via di salvezza: quella del tradimento, ma Tissi non vi pensò neppure, anche se il ricordo della giovane sposa e di una tenera bimba gli lacerava l’animo. Avrebbe preferito morire che cedere e, stoicamente, si recise i polsi. Venne salvato appena in tempo. I tedeschi, tuttavia, avevano ormai deciso di portarLo al capestro. Si era alla vigilia dell’esecuzione, quando cinque partigiani, con audacia straordinaria, riuscirono a penetrare nel carcere e a condurLo in salvo.
Ornella Antonioli sulla quartultima lunghezza della via Tissi alla parete sud della Torre Venezia, 19 agosto 1985.
Ritornata la pace, Tissi non esitò a porsi, con immutata energia, al servizio della società: come imprenditore, Egli non dimenticò mai le origini comuni ai montanari che lavoravano alle Sue dipendenze e fu un datore di lavoro sensibile e giusto. Dopo lo scioglimento del Partito d’Azione, egli aderì a quello Socialdemocratico. Gli amici Lo indussero ad accettare la candidatura al Senato ed egli accettò quasi controvoglia, nella segreta convinzione di un insuccesso. Invece, inaspettatamente per Lui, ottenne larghi consensi, e proprio fra quei montanari che vedevano nella Sua persona un simbolo. Assurto al laticlavio non si montò la testa: ne fece ancora un posto di lotta e di dovere e si fece promotore di provvedimenti di carattere sociale, proprio a favore delle genti della montagna e dei lavoratori. Altri incarichi pubblici vollero la Sua opera preziosa, per l’equilibrio, la rettitudine e la specifica competenza amministrativa. Fu Presidente del Consiglio Provinciale e Consigliere del Comune di Belluno.
Al Club Alpino Italiano Tissi non poteva mancare di dedicare le Sue preziose energie. Fin dal 1945, fu eletto Presidente della Sezione di Belluno. Nel 1948 divenne Presidente del Gruppo Orientale del CAAI e nel 1952 Consigliere Centrale. La sua alta carica politica gli consentì di appoggiare autorevolmente le iniziative del CAI, specie in occasione della spedizione al K2, che lo vide fra i promotori più entusiasti.
L’assillo delle preoccupazioni pubbliche e private non era sufficiente a tenere Tissi lontano dalle montagne. Seguitava a praticarle silenziosamente, con l’entusiasmo e la passione di sempre, anche se su itinerari più modesti di un tempo. Anche noi giovani, spesso, incontravamo la sua figura alta e un po’ curva, il suo giubbetto stinto, il suo sorriso bonario nei rifugi delle Dolomiti, che qualche volta lasciò per altri famosi gruppi alpini. Era vicino a noi e seguiva le attività delle nuove generazioni, portando, ogni volta, una parola di esperienza, di plauso o di freno, talora polemica, sempre calda e umana. Era presente ogni volta che una disgrazia ci colpiva dolorosamente. Per noi bellunesi era motivo di fierezza poterlo annoverare fra i Dirigenti della nostra Sezione: il solo nome di Tissi era sufficiente a evocare ammirazione e rispetto presso alpinisti di tutto il mondo.
Il 22 agosto 1959 Tissi partì per la Sua ultima ascensione. Gli erano vicini la consorte e un amico. In quei giorni si era parlato con Lui di una grave sciagura, che aveva troncato la vita di un giovane e valoroso alpinista bellunese. I nostri animi erano addolorati ed esacerbati.
Era una giornata scura e nebbiosa. Scelsero la loro meta in una torre quasi trascurata, breve e prossima al rifugio Auronzo alle Tre Cime di Lavaredo, dove era salito tante volte, per ripetere tutti i più classici itinerari e dove aveva, tanti anni prima, vagheggiato la conquista delle più superbe pareti nord. Quel giorno la meta era modesta, quasi insignificante, ma era sempre montagna. Sempre bella e sempre insidiosa.
Sulla via del ritorno, il cedimento di un appiglio o un simile banale accidente. Il Suo destino si era compiuto. Fra i primi ad accorrere accanto al Suo corpo straziato vi furono la guida Piero Mazzorana e i famosi rocciatori Lothar Brandler e Toni Hiebeler. Erano stati avvertiti di un’urgente opera di soccorso e si erano precipitati. Hiebeler, in una sua commossa rievocazione su Der Bergkamerad, narra come, appena fu accanto al moribondo, sentì fare il nome di Tissi. Alla solidarietà verso un qualsiasi collega infortunato, subentrò, in quei giovani seguaci della più recente ed estrema scuola alpinistica un sentimento di stupore quasi incredulo. Possibile che il grande Tissi, il cui nome essi veneravano come una leggenda, la ripetizione delle cui imprese avevano ambito e realizzato con tanto entusiasmo, fosse caduto così, su una maligna e insignificante piccola croda?
Eppure, Tissi non poteva morire in un altro modo. Oggi non potremmo immaginare una lunga e pigra vecchiaia intessuta di lontani ricordi. Egli ha vissuto un’esistenza così piena, complessa, ricca di valori e di esperienze, densa di ideali e di azione, che solo sulla montagna poteva concludersi, in un’età matura, ma ancora vigorosa, nell’entusiasmo di una nuova conquista, al cospetto di quelle cime dove la Sua volontà si era tante volte imposta vittoriosamente. Egli spirò fra le braccia dei compagni che tentavano un ultimo vano sforzo per salvarLo, in un atto di solidarietà che ripagava la generosità di tutta una vita spesa nel culto di nobili ideali. Gli erano accanto, con la compagna degli affetti più intimi, una guida valligiana e due forti esponenti delle ultime leve alpinistiche, quasi a simboleggiare la continuità di un periodo storico, in cui Egli aveva scritto pagine imperiture.
Il più bel monumento che un uomo possa erigere a se stesso è l’amore ed il ricordo di coloro che gli sopravvivono. Dopo la Sua morte, anche quando il tempo ha un po’ lenito la prima, dolorosa emozione, abbiamo constatato quanto Egli fosse amato e ammirato. Abbiamo pensato che il modo più degno di ricordarLo fosse erigere un rifugio al Suo nome nelle Dolomiti, ai piedi della parete della Civetta, che fu teatro delle Sue più grandi imprese. Abbiamo rivolto un appello a tutti gli alpinisti italiani, perché contribuissero a un’opera così degna. La risposta è stata e continua a essere toccante e significativa: da ogni angolo d’Italia, alpinisti giovani e vecchi hanno voluto inviare il loro apporto, grande o piccolo, accompagnandolo spesso con espressioni commosse. Intorno al Suo nome si è, così, creata una profonda unità morale, che attesta eloquentemente quanto profonda fosse l’impronta da Lui lasciata e quanto fecondo il Suo seme.
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Di sicuro non era solo un alpinista, un bellissimo esempio, come conquistatore dell’inutile.
Lui aveva realizzato tanti altri sogni, suoi e di altri