Extradiario – 23 (23-24) – Prima del Badile – 2 (2-2) (AG 1967-012)
(scritto nel febbraio 1968, salvo diversamente indicato)
Lettura: spessore-weight(2), impegno-effort(2), disimpegno-entertainment(2)
Primo bivacco sulla Nord-est
9 dicembre 1967. Per prima cosa stendiamo la tendina sul pavimento nevoso poi, badando a non inzaccherarla di neve, dopo esserci tolti ramponi, ghette e scarponi, e dopo esserci vigorosamente scrollata di dosso la neve, entriamo e ci infiliamo nei comodi sacchipiuma.
All’interno si può solo stare seduti e non si può appoggiare la schiena. Ghette e scarponi sono riposti negli zaini e questi sono ammassati verso l’uscita.
Il primo tentativo di fare da mangiare con il Borde riesce, ma a costo di notevoli patemi d’animo e sofferenze. A momenti crediamo di soffocare nell’atroce puzzo emanato dall’infernale fornello, a volte corriamo il rischio di incendiare tutto con fiammate improvvise e potenti. Come se non bastasse, non funziona il sistema di fissaggio dei pentolini sul fornello; questo scalda e fonde la neve su cui appoggia, provocando possibili crolli improvvisi, minestra compresa. Il rifornimento di neve dall’esterno è difficilissimo. Uno di noi quattro deve infatti girarsi, mettersi con la testa verso l’uscita, raschiare la neve con il pentolino e porgerlo ricolmo senza farne cadere. La benzina è gelata, ma riusciamo a scioglierla. Perfino le candele a volte non si vogliono accendere…
Pizzo Badile, parete nord-est, via Cassin, 1a ascensione invernale. Foto: Dante Taldo (27 dicembre 1967)
Dopo più di un’ora la brodaglia, densa eppure appetitosa, è pronta. Comunque avevamo già abbondantemente saccheggiato le provviste: formaggio grana, cioccolata e fette di prosciutto erano già stati divorati, quando ci viene rudemente propinata la minestra. Naturalmente nessuna rifiuta e sorbiamo tutti elegantemente dalla pentola, schioccando la lingua e osservando che, sì, la minestra sarebbe buona se non ci fosse quell’odiato gusto di benzina…
Poi il tè e altro liquido ci dissetano completamente. Sigaretta, e poi un deciso soffio alle candele. Ma la conversazione procede animata: più che altro si discute sul materiale che ancora ci manca.
Pizzo Badile, parete nord-est, via Cassin, 1a ascensione invernale: Gianni Calcagno all’Hotel Palace (primo bivacco). Foto: Alberto Risso (21 dicembre 1967)
Smettiamo di dormire alle 6.30 e ci svegliamo riposati e caldi. Perfetto. Ci vuole una discreta forza di volontà per tirarsi fuori dai piumini e guardare il tempo. Per fortuna è ancora bello, così di buona lena prepariamo la colazione. Cioè il solito latte, cacao e zucchero con biscotti al Plasmon, burro e marmellata. Questa, come il miele, è dura come il marmo: ma cacciandola nel latte bollente, si scioglie un po’.
Ci equipaggiamo per l’uscita. Paolo ed io prendiamo un sacco ricolmo di materiale e lo portiamo al “Magazzino”.
Pizzo Badile, parete nord-est, via Cassin, 1a ascensione invernale: Paolo Armando nei pressi del Magazzino. Foto: Alberto Risso (21 dicembre 1967).
Preparazione psicologica alla Nord-est invernale
Vorrei spiegare come abbiamo potuto arrivare a quest’idea. E’ stato scritto su di me che sono arrivato alle grandi salite scavalcando ogni argomento che precede il sesto grado. Anche a Gianni è stata rinfacciato qualcosa del genere; non a Paolo, che anzi ha scalato le montagne per il loro versante più facile, per parecchi anni. Non dipende dal metodo, che è sempre stato lo stesso, ma dalla velocità con è adottato. Ciò che gli altri possono fare in quattro anni, noi l’abbiamo fatto in due o tre. Beninteso che l’andare in giro per monti era già cosa vecchia e che fin da bambini piccoli percorrevamo i sentieri. La preparazione la si ottiene salendo circa 100 km di arrampicata, leggendo libri, riviste, pubblicazioni; esaurendosi sui passaggi a pochi metri da terra e affrontando i Quattromila; ritenendo a memoria ciò che si legge per averlo poi a portata di mano quando occorra in pratica; con una progressiva e sempre meno limitata fiducia nei propri mezzi. Bisogna essere orgogliosi, ambiziosi, senza però dimenticarsi di non essere mai presuntuosi e di non fare mai il passo più lungo del concesso; occorre rinunciare a tante cose belle con un unico obiettivo. Sono mesi, forse anni di sacrificio, che saranno poi spesi in pochi giorni di lotta.
Le 1250 ore di arrampicata sulle vie di salita delle Alpi servirebbero comunque a poco per il Badile, se non si avesse avuto già pronto, e da parecchio, il bersaglio. Nord del Cervino, Philipp al Civetta, Hasse-Brandler alla Grande di Lavaredo, Ovest della Noire di Peuterey e innumerevoli altre sono solo tappe intermedie. Est del Dente del Gigante in invernale e Nord-est dello Scarason prima ascensione, anche loro sono solo tappe. Anche se sul Badile in realtà non ho mai patito certi momenti allo spasimo come sullo Scarason, non importa: l’impegno era ancora maggiore.
Pizzo Badile, parete nord-est, 1a invernale: Paolo Armando sulle rocce sotto al primo diedro. Foto: Alberto Risso (21 dicembre 1967).
Viveri e medicinali
La nostra incompetenza non ci fece perdere tempo, anche perché non ne avremmo avuto i mezzi, nello stabilire o meno la nostra idoneità fisica come candidati alla fatica. Non ci sottoponemmo quindi a nessun esame clinico o di laboratorio, per vedere se erano escluse eventuali forme morbose silenti o comunque per essere rassicurati sul normale funzionamento dei principali sistemi dell’organismo. Dunque, niente esami emocromocitometrici, azotemia, glicemia, esami radiologici, integrati (è ovvio…) da prove ergospirometriche, statiche e dinamiche, aventi lo scopo di saggiare la funzionalità cardio-respiratoria a mezzo di test standard riproducenti, in laboratorio, le condizioni che in seguito si sarebbero affrontate…
A parte gli scherzi, sapevamo però quanto fosse importante un’alimentazione razionale. Soprattutto ci interessava avere vitamine e sali naturali. Redoxon, Protovit, Polase, Diagran minerale. Ne facemmo un uso spietato, dunque molto dobbiamo a queste pillole se abbiamo avuto successo. Sembra una frase detta per pubblicità, invece la scrivo per riconoscenza. Avevamo anche quattro flaconi di Ronicol contro i congelamenti. Ma è stato usato solo gli ultimi due giorni.
Ho già detto della colazione del mattino e ho parlato della cena serale. La minestra per quattro era comunque fatta con quattro bustine di MinePlasmon, una bustina Knorr, un dado per brodo, due pugni di pastina proteinica Plasmon, quattro vasetti Mellin di liofilizzati di carne, disciolti.
Niente pane, molto formaggio grana per pietanza. Poi cioccolato. Ma il piatto forte sarebbe stata la pancetta affumicata fritta nel suo grasso. Qualche arancio i primi giorni. Frutta secca molta, da mangiare durante il giorno, assieme al Cebion e alla coramina-glucosio.
Da bere, tè: a parte i primi due-tre giorni, quando avevamo anche polveri per aranciata, molto gradita. Gli svizzeri ci diedero poi anche del caffè. Noi avevamo calcolato viveri e medicinali per dieci giorni e per quattro persone. Poi il Condor ha rinunciato, ma forse ci eravamo tenuti un po’ stretti. Per cui, arrivati al decimo giorno e avendo condiviso parecchio con gli amici svizzeri, non avevamo più niente da mangiare. Invece, al riguardo della benzina, avevamo ancora una riserva.
Pizzo Badile, parete nord-est, via Cassin, 1a ascensione invernale: Daniel Troillet sotto al primo diedro Cassin. Foto: Michel Darbellay (23 dicembre 1967).
10 dicembre 1967
A dita nude occorre allacciarsi le cinghie di cuoio dei ramponi, dure e gelate, dopo essersi infilati le ghette. Questi odiosi preliminari finalmente terminano, ma subito dopo ci accorgiamo che dobbiamo evacuare. Altre manovre, ma non molto strane: si tratta solo di scavarsi una nicchia a parte. Il sacco è riempito all’inverosimile, e non si può portare. Togliamo metà contenuto e lo mettiamo in un altro. Finalmente partiamo e, attaccandoci alle corde e facendoci sicurezza vicendevolmente, guadagniamo il “Magazzino”. Qui ieri, provenienti dall’alto in “doppia”, abbiamo assai faticato per raggiungerlo. La risalita in jumar e staffe non funziona, la verticalità è troppo modesta. Intanto uno jumar era già andato a finire giù per il pendio: nelle varie manovre e acrobazie mi era sfuggito dal guanto. Visto che ci era stato prestato e che il suo costo è di 10.500 lire, si possono immaginare moccoli e imprecazioni.
Senza alcun incidente e con sempre più confidenza nel nuovo mezzo, arriviamo dunque al “Magazzino”. Attaccato ai chiodi lasciamo lo zaino, riempito fino all’orlo. E poi ancora corde, cordini, chiodi sparsi, il mio casco. Tutta roba che non patisce questi giorni di freddo fino al fatidico 21 dicembre.
Paolo Armando, 22 dicembre 1967. Foto: Alberto Risso.
Ormai non abbiamo più niente da fare qui, e frettolosamente torniamo, dopo aver dato un ultimo sguardo ai pochi metri già domati. Chiudimo il buco della grotta con il telo, fissato ai picchetti, e, traversando, risaliamo al Colletto Nord. Un’occhiata alla parete, con la segreta speranza di farcela, nonostante tutto.
Non è tardi, nascondiamo altro materiale nei pressi. Scendiamo. Più in basso, verso le 13, c’incontriamo con Ettore che sta risalendo piano piano. Temeva che ci fosse successo qualcosa nella notte! mentre noi pensavamo a lui da solo nel rifugio, senza fiammiferi!
Al rifugio mangiamo qualcosa, mettiamo in ordine e alla fine scendiamo. Giunti al bivio, dopo il canalone nel quale le scene varie non sono state inferiore a quelle in salita, ci accorgiamo di tracce di sci dirette verso il rifugio Sciora. Nuova apprensione. Sarà mica qualcuno che attacca oggi? Con un po’ di timore scendiamo alle automobili e ci tranquillizza vedere che ci sono solo le nostre.
Scendiamo a Bondo e nell’osteria di Dino Salis incontriamo due cari amici: Giorgio Brianzi e Franco Gastaldelli, detto Califfo. Avevano già tentato anche loro la Nord-est d’inverno. Giorgio, due volte, la prima con Lino Tagliabue. Ma erano tornati. Giorgio, visto che ci mancherà il quarto (nel frattempo il Condor ci aveva annunciato la sua “possibile” defezione), vorrebbe essere con noi: ma il lavoro e una certa… suocera proveniente dall’Inghilterra, non glielo consentono.
Gianni Calcagno, 22 dicembre 1967. Foto: Alberto Risso.
Accanto a una bella bottiglia di vino, si discute a bassa voce, perché di fronte ci sono degli strani individui. Saranno mica le vedette dei Ragni di Lecco? L’importante è che nessuno attacchi prima del 21, ma il tempo è bello e qualcuno potrebbe approfittarne. Il 21 ci saremmo anche noi, dunque tutto sarebbe diverso. Ci facciamo raccontare dei loro precedenti tentativi, parliamo dei tre austriaci del 1965, che con tre bivacchi giunsero quasi al nevaio centrale e dovettero ritirarsi; dei due francesi del 1964, del tentativo del 1961 di Pierre Mazeaud, Pierre Kohlmann e Marcel Habib Zerf che riuscirono a portarsi in cima al Diedro Rébuffat. Aveva scritto Mazeaud: “L’indomani passiamo il tempo a organizzarci in quell’oceano bianco. Faccio solo un tentativo e torno giù, demoralizzato. Il Diedro Rébuffat è ricoperto di ghiaccio”. Voci avevano riferito anche di una visita di Ignazio Piussi con il catalano Josep Manuel Anglada. Ma soprattutto parliamo dei lecchesi. Nel 1963 Felice Anghileri e Alessandro Locatelli avevano fatto un assaggio. Felice Anghileri era tornato nel 1964 con Pino Negri e Casimiro Ferrari, ancora maltempo. Ferrari e Negri tornarono nel 1965, con Aldo Anghileri, ma dovettero desistere subito e ripiegare sullo Spigolo nord, di cui fecero la prima invernale.
Verso le 16.30 ce ne andiamo. Torniamo a casa, ripassando il confine come pacifici turisti.
Vestiario e materiale
Indispensabili gli scarponi doppi. Paolo alla fine se li è fatti prestare, il Condor ed io li avevamo, Gianni se li è comprati, anzi li ha fatti comprare a Milano, provandoseli al momento della partenza. Le ghette erano a stivale e racchiudevano tutto lo scarpone. Ovviamente si potevano usare solo con i ramponi ai piedi.
Sotto le ghette, tra queste e il calzettone, c’era la parte inferiore dei nostri sovrapantaloni imbottiti, di color arancio. La funzionalità di questi è stata perfetta. Non abbiamo mai avuto freddo alle gambe e lasciavano traspirare a sufficienza. Sopra il maglione avevamo, in arrampicata, una giacca robusta e impermeabile. Alla fine però le continue docce di slavine e lo stillicidio hanno bagnato anche quelle. Così, al contatto con la temperatura esterna, le giacche gelavano immediatamente. Solo raramente abbiamo indossato in arrampicata il duvet. I sacchipiuma erano corredati da ottimi calzari di piumino. Il problema era riuscire a non bagnare i sacchipiuma, così abbiamo portato alcuni teli di nylon, la tendina (che avrebbe potuto servire d’emergenza) e quattro cuscinetti gonfiabili da mettere sotto il sedere per dividere dal duro e dal gelo. Gli svizzeri si porteranno perfino un intero materassino da spiaggia, che però divideranno in tre. Sette-otto paia di guanti a testa, per il pericolo di perdita. Due-tre paia di calze di ricambio.
Alessandro Gogna, 22 dicembre 1967. Foto: Alberto Risso.
Le radio che avevamo si sono rivelate nulla più che giocattoli e sono state un peso inutile. Due fornelli Borde a benzina con relativo apparecchio di sostegno e due servizi di pentole da campeggio, con alcune posate. I sacchi erano cinque: uno normale, gli altri speciali da recupero. Questo fu errore grave, perché sulla Nord-est gli zaini non si possono recuperare. Così li portavamo sulla schiena, ma non erano adatti. Circa 700 metri di corde la nostra dotazione. Non ricordo il numero esatto di chiodi, moschettoni, chiodi da ghiaccio e cunei. So comunque che era tanta roba. Avevamo pure 10 chiodi a pressione, ma la nostra intenzione era di usarli solo in caso di ritirata pazzesca. Staffe e cordini, parecchi. Poi picchetti da neve, più o meno lunghi dai 50 ai 100 cm. Attrezzi da risalita sulle corde, cioè Jumar e Heibler. Alla fine abbiamo usato solo i secondi, più comodi e sicuri (le maniglie jumar tendono a formare ghiaccio tra le punte d’acciaio, a volte sono del tutto inservibili). Naturalmente tre piccozze e tre paia di ramponi, caschi, martelli. Avevamo parecchie candele e sette borracce di benzina. Tre paia di ghette tradizionali. Si è rivelato d’eccezionale utilità lo scopino (sequestrato al rifugio Sasc Furä…). Spazzolarsi per bene dalla neve significa rimanere asciutti per giorni in più.
Orgasmo in Sezione
di Gianni Pàstine
Tra l’8 e il 10 dicembre Armando, Calcagno e Gogna hanno fatto una ricognizione alla base della Nord-est del Badile; c’è di più, ne hanno salito un centinaio di metri e hanno lasciato il tratto attrezzato. La notizia trapela e mette in moto tutto un ambiente dove i tre sono conosciuti. E’ un momento di emozione. Sappiamo quanto valgano i nostri amici, quale sia la serietà meticolosa con la quale si preparano per ogni avventura alpina, quale sia il loro notevole grado di allenamento, quanto siano “maturi” per imprese del genere. però l’impresa scelta è quella che è… Se è ancora lì da fare, non è certo per caso…
Pizzo Badile, parete nord-est, 1a invernale: primo diedro, Gogna e Bournissen. Foto: Alberto Risso (21 dicembre 1967)
Poi, qualche timida richiesta, la notizia, arrivata per via traversa, di qualche debito per necessità di attrezzatura: e allora è una gara. C’è una ragazza che dà senza esitazione la propria piccozza perché è corta e leggera, e sul pendio ripido va bene. Un alpinista, uomo o donna che sia, conosce il valore morale che dà alla sua piccozza… ma lassù serve. Perfino la burocrazia cede. Già, perché anche il CAI ha il suo pesante fardello burocratico. Eppure, adesso è tutto svelto, come quando non c’erano milioni dello stato da amministrare; così l’aiuto arriva spontaneo, fra amici una volta tanto realmente tali.
Arriva il fatidico inizio dell’inverno, i nostri hanno trascorso giornate febbrili di preparazione. Il tempo tiene. Tutti fanno il tifo meteorologico all’apparire di quel signore televisivo, ieri in divisa e oggi in borghese, ma sempre per informare sulle stesse cose: che tempo farà.
Una stretta di mano, qualche parola di circostanza quando si vorrebbe dire tanto e non si sa dire nulla, e la partenza avviene in segreto come per un’azione di commandos. Per loro è l’azione, la lotta, la liberazione da una tensione accumulata nei giorni di vigilia. Giù, la tensione resta. perché chi li conosce spera, desidera, sotto sotto è certo di una vittoria, di un merito, anche se molti in Italia, quando sentiranno i loro nomi, storceranno il naso.
Veduta aerea sul Pizzo Badile, versante nord-est, 1 novembre 1999
19 dicembre 1967, Pian dei Resinelli
Alle 22.30 passiamo davanti alla casa di Ettore Pagani, con un’ora di ritardo. Ettore, Carlo Ciceri e un altro ci stanno ancora aspettando. Ci danno gli scarponi doppi per Gianni. Alcune strette di mano, poi via. E’ con noi anche il fratello di Gianni, Lino, che dovrà riportare la 500 a casa. Superstrada, Lecco, Ballabio. Quasi a mezzanotte entriamo nel rifugio della SEM. Dentro ci sono Luciano Tenderini, Paolo e il Condor.
E’ chiaro che abbiamo bisogno di una macchina. Non si può stare in quattro sulla 850 del Condor con quel bagaglio. E, se anche ci si potesse stare, quell’auto non riuscirebbe a salire fino all’Arrête. Luciano sa benissimo per quale ragione siamo venuti a trovarlo, ma intanto ci esauriamo in convenevoli. Mentre Gianni si prova gli scarponi, c’è chi si aggiusta i ramponi, chi prepara la minestra. Lino intanto, dopo aver bevuto una tazza intera di caffè bollente, riparte per Genova. Pensiamo che per le 4.30 possa anche arrivare, farsi la barba e andare a lavorare. Ci sediamo tutti attorno a un tavolo e auna zuppiera piena di minestra. Mangiando, i problemi vengono sviscerati.
Dapprima ci sono alcune questioni circa la relazione tecnica. Solo Paolo ha fatto la via d’estate: peccato che circa 100 metri prima del nevaio centrale abbia preso sulla destra e proseguito per una via sua che, sebbene sia sulla Nord-est, nulla ha a che fare con la via Cassin ed è di questa assai meno diretta (In seguito nessuno ha mai accennato a questa via a se stante, come non esistesse, NdA). Luciano così ci precisa molte cose, di cui ovviamente facciamo tesoro.
Pizzo Badile, parete nord-est, via Cassin, tentativo 1a ascensione invernale. Giorgio Brianzi e compagno sul pendio iniziale. Archivio Giorgio Brianzi.
Poi la questione dei collegamenti con la base. Noi disponiamo di due rice-trasmittenti giocattolo (ma questo non lo sapevamo ancora). Una, è ovvio, è da portare con noi. E l’altra? A chi potevamo darla, visto che non si è fatto avanti nessuno? L’unica soluzione era consegnarla a Dino Salis, nel suo negozio, a disposizione di chiunque avesse voluto parlarci. Sapevamo comunque che aveva detto sarebbe venuto. Renato Avanzini, Rita Corsi, Lino Calcagno, Nello Tasso… a giorni già fissati. Scriviamo così un foglietto con tutte le indicazioni. Caso mai le radio non funzionassero mettiamo anche il codice per i razzi, perché abbiamo anche quelli.
Il tutto in una confusione indescrivibile: io immaginavo già cosa sarebbe successo da Dino Salis. Ma in complesso m’interessava poco, perché non ritenevo importanti questi pretesi collegamenti. Finalmente la smettiamo di discutere e, verso le 2, andiamo a dormire. Sveglia alle 7.30.
20 dicembre 1967, Sasc Furä
Il tempo è sempre bello e gli auspici sono quindi buoni. Il freddo, naturalmente, è intenso. Passiamo dalla Valsassina invece che da Lecco, Condor e io sulla sua auto, gli altri sulla 124 di Luciano. Per tutto il viaggio Alberto non farà che raccontarmi storie macabre di incidenti in montagna, con un’insistenza quasi intenzionale. Sto vedendo ancora cervelli spappolati occhieggiare sugli appigli quando per fortuna arriviamo a Chiavenna. Qui Paolo deve comprarsi un aggeggio che naturalmente non troverà. C’è anche un appuntamento con Giambattista Giamba Campiglia, uno del GAM Torino. Alle 10 non si vede ancora nessuno, così ce ne andiamo.
All’arrête una sorpresa. C’è una Volkswagen rossa, con dentro zaini, radio e altre robe strane. Costernazione generale e animazione attorno al “maggiolino”. La targa è del Vallese: perciò, deduciamo, Michel Darbellay e compagni… Ce l’hanno fatta e ci hanno preceduti… Comunque, svolgiamo ugualmente il nostro programma. All’intorno delle auto è un caos completo di materiale. 400 metri di corda, tutti da arrotolare e sciogliere dai rocchetti, ci aspettano. Gli zaini sono da fare ex-novo. Un lavoro da frati, e il freddo che fa lavorare con i guanti. E con la sensazione che magari Darbellay ce la stia fregando…
Cercando di soffocare il nervosismo, riempiamo gli zaini. E’ inutile, non ci starà mai tutto! Quando sono già pieni bisogna mettere dentro ancora qualcosina, tipo tre corde, le pentole, i caschi e i picchetti da neve.
Pizzo Badile, parete nord-est, via Cassin, tentativo 1a ascensione invernale: Giorgio Brianzi. Archivio Giorgio Brianzi.
Alla fine, carichi come bestie, con la roba mezza appesa al di fuori, ci avviamo. In questi dieci giorni un po’ di neve fresca è venuta, così nel canalone ci troveremo anche peggio. Al bivio vediamo che le tracce sono dirette alla Sciora. Il che vuole dire che al Sasc Furä non c’è nessuno.
Non credo d’aver portato mai un carico così pesante, veramente al limite sopportazione. Lo stesso per Gianni, infatti ci staccano. Dopo alcuni passaggi su ghiaccio veramente impegnativi, gli altri si fermano e Paolo mi dà il suo carico. Ora sto un po’ meglio e posso perfino permettermi il lusso di battere pista.
Al rifugio non c’è anima viva, tutto come avevamo lasciato. Alla spicciolata ci siamo tutti, esausti. Questo facchinaggio ci ha veramente stroncati. Occorre mangiare, fa la sua comparsa un bel minestrone, fatto sempre al solito modo. Luciano se ne va subito, dandoci appuntamento radio per le 18. A quell’ora però non risponde nessuno. Si vedono i fari di due auto che scendono la valle. Il contatto non c’è stato, è evidente che le rice-trasmittenti non funzionano a questa distanza. Meglio, mi dico, così non ci pensiamo più. Alle 18.30 ancora a giocare con l’antenna. Ci arriva uno stralcio di conversazione in francese. Parla un tizio, diretto a un certo Michel, e gli dà le previsioni del tempo. Bene, dunque è sicuramente Darbellay. Basta che non sia già in parete… La levataccia, il giorno dopo, sarà molto antelucana, all’alba del 21 dicembre, primo giorno di quest’inverno.
Intanto cerchiamo di godere il più possibile delle comodità che ci assicura questo rifugio: caldo, coperto, spazio. Cose che non avremo più domani.
9
Bene Alessandro, grazie dell’info!!
Con Ettore Pagani ho seguito, da lontano, tutti i preparativi e con Lui la sofferta scelta di cuore.
Caro Andrea, grazie dei complimenti, assai graditi. Volevo solo precisarti che non ci saranno prossime puntate di Extradiario. Questo termina con la puntata 24, già pubblicata (https://gognablog.sherpa-gate.com/extradiario-24-sette-lettere-paolo-armando/). Chiudo cioè il 1967. Da quel momento inizia un’altra serie, che si chiama Una vita di Alpinismo (VDA) e della quale sono già uscite la prima puntata (quella appunto della salita invernale al Badile, https://gognablog.sherpa-gate.com/vita-dalpinismo-01-1a-invernale-alla-nord-est-del-pizzo-badile/) e altre puntate che se vuoi puoi leggere digitando nel “cerca” “una vita di alpinismo”. Una vita di alpinismo sta uscendo più o meno al ritmo di due puntate al mese. Grazie dell’attenzione!
Veramente appassionante, quasi una “fiction televisiva”, infatti non vedo l’ora della prossima puntata 😉
Eccezionale lettura di una complicata impresa alpinistica del passato, anche allora c’erano diversi pretendenti , io sono rimasto nel sentire nominare il mio capo cordata Tenderini Luciano (1955 ) ed anche Brianzi con il Califfo di buona memoria, ci hai fatto un bel regalo di Natale con questo ” ripasso ” vittorioso della vostra cordata italo – svizzera , di te in particolare siamo orgogliosi per le imprese che hai compiuto e la passione che non ti ha mai messo in pensione ! BRAVISSIMO! GRAZIE!