Gian Piero Motti, il Nuovo Mattino, e i suoi equivoci (RE 028)
di Lino Fornelli
(da Annuario del CAAI 2019)
Gian Piero Motti, classe 1946, è stato un alpinista e scrittore torinese; praticamente di casa in Val di Lanzo, in particolare nella Val Grande dove la sua famiglia possedeva una villa a Breno, Groscavallo, dove lui sin da piccolo passava le vacanze estive. Amava scrivere e scriveva molto, autore tra l’altro di una storia dell’alpinismo, un lavoro così dettagliato e completo che farà dire a Massimo Mila: “… un’opera che non ha l’eguale in italiano; ma anche all’estero esiste qualcosa che si possa paragonare a questa Storia per ampiezza di informazione, per appassionata vivacità di partecipazione, confortata dall’esperienza personale?” (La Stampa, 29/9/ 1978). Questo è forse il vero capolavoro di Motti, un’opera fondamentale per chi voglia formarsi una cultura alpinistica. Fu autore anche di guide sulle palestre di arrampicata torinesi: Rocca Sbarua/Tre Denti del 1969 e Palestre delle Valli di Lanzo del 1974, e altro ancora. Guide ottime per precisione e completezza, edite dalla GEAT, sottosezione del CAI-Torino di cui lui era socio.
Motti è stato un alpinista di alto bordo ed eccellente arrampicatore. Dotato di un bel fisico atletico riusciva facilmente in ogni attività sportiva in cui si impegnasse. Praticò altri sport prima di dedicarsi all’alpinismo, ma infine fu la montagna ad assorbirlo totalmente. Entrato nella Scuola Gervasutti come allievo, ne divenne presto istruttore. Fu chiamato a far parte del CAAI e del GHM (Groupe Haute Montagne) francese. Al suo nome è stata intitolata la Scuola di Alpinismo a Settimo Torinese.
Motti è anche stato lo scopritore della bella palestra di ottima roccia del gruppo di Roci Ruta e Bec di Mea, presso gli Alboni, in val Grande di Lanzo.
Ma soprattutto è stato certamente l’uomo più discusso del dopoguerra nell’ambiente alpinistico di Torino, per essere stato l’ideologo di un nuovo modo di interpretare l’alpinismo, conosciuto come: “Il Nuovo Mattino”. Un nome che presupponeva la rinascita della filosofia dell’alpinismo. Le idee alla base di questa filosofia hanno prodotto all’epoca grandi discussioni e dibattiti, ma hanno avuto vita breve.
Motti proveniva da una famiglia benestante che gli ha permesso di studiare, di formarsi una buona cultura e di godersi il tempo libero, tempo che dopo gli studi dedicherà interamente all’alpinismo. “Era uno dei pochi giovani che sin dagli anni ’60 già possedeva un’automobile per recarsi in montagna” (e non si trattava di un’utilitaria bensì di un modello sportivo, NdA). Possedeva sempre i migliori materiali, e quando era in giro per arrampicare amava trattarsi bene scegliendo buoni ristoranti per pranzare e alberghi anziché campeggi per dormire“. Questo si leggeva in un articolo di Ugo Manera su Scandere 1989.
E ancora: “Questo suo modo di vivere abbinato a qualche atteggiamento apparentemente egocentrico gli valse l’appellativo un po’ polemico di Principe”.
Terminati gli studi si dedicò interamente all’attività alpinistica. Furono anni intensi e frenetici, che lo portarono ben presto ai massimi livelli di allora. Tanto per intenderci: la Walker in condizioni pessime, col compagno Alberto Re colpito da un sasso; la direttissima Brandler-Hasse, ancora con Re, alla Nord della Cima Grande di Lavaredo; la prima solitaria dello sperone Gervasutti al Mont Blanc du Tacul, quello su cui aveva perso la vita il “Fortissimo”; e altro ancora, non escludendo salite di falesia, se cosi si può dire, come il Diedro del Terrore alla Parete del Militi (Bardonecchia), in prima ascensione, con Giancarlo Grassi.
Ma per conoscere meglio l’uomo è necessario sapere quanto scriveva lui di se stesso: “L’importante è allenarsi, sempre e di continuo, non perdere una giornata, avere il culto del proprio fisico e della propria forma… ciò che conta è arrampicare sempre al limite delle possibilità, ciò che vale è la difficoltà pura, il tecnicismo, la ricerca esasperata del sempre più difficile“. Questo scriveva nell’articolo I Falliti, Rivista Mensile CAI, 9/1972.
E ancora: “esaltato, nevrotico, indifferente quando non assente, ostinato e caparbio nell’inseguire una meta sbagliata eppure cosciente dell’errore“.
“Arrampicare, arrampicare sempre e null’altro che arrampicare, chiudersi sempre più in sé stesso, leggere quasi con frenesia tutto ciò che riguarda l’alpinismo e dimenticare, triste realtà, le letture che sempre hanno saputo darmi qualcosa di vero e che con l’alpinismo non hanno nulla da spartire“.
Era l’alpinismo portato all’esasperazione, al parossismo, senza più contatti con la realtà, con la vita. È chiaro che a questi livelli qualcosa può saltare. Motti si rese conto a un certo punto che tutta quella attività non portava da nessuna parte, che era qualcosa di inutile.
“… ma qualcosa comincia a non funzionare: ritornando a casa la sera mi sento svuotato deluso, mi sento soprattutto inutile a me stesso e agli altri, mi sembra, anzi ne ho la netta sensazione, che l’intimo di me stesso si stia ribellando a poco a poco a questo stato di cose, che il mio cervello non tolleri più questo modo di vivere. Ed ecco che giunge la crisi, terribile e cupa“.
Su Scandere 1984: “… hai sempre condannato chi si droga e non ti rendi conto che anche tu sei drogato, perché la roccia è la tua droga”. E poi; “Per giustificare o meglio mascherare il mio fallimento mi atteggiai a ribelle nei confronti della società, cercai di entrare nella parte dell’anarchico che disprezza i comuni mortali, anche nel vestire cercai di adeguarmi al soggetto proposto: barba, capelli lunghi, abiti logori e sdruciti, atteggiamenti molto pacati. Esaurimento nervoso di grossa portata con perdita completa del sonno“.
Era la sua sensibilità che gli rimproverava di non dare alcun contributo alla società in cui viveva? Si può spiegare tutto ciò con l’assenza di un impegno professionale lavorativo? Sarà infine Guido Rossa a dirgli: “L’errore più grande è quello di vedere nella vita solo l’alpinismo“. Lui se ne rendeva forse conto, ma sentirlo da uno come Guido Rossa lo porterà a riflettere seriamente. Ammetterà poi: “Ho capito l’errore, troppo a lungo ho vissuto in una piccola stanza dove ho chiuso ermeticamente finestre e porte e lì, da solo, nel buio, mi sono illuso che il mondo fosse tutto racchiuso fra quattro pareti. Poi una finestra si è leggermente dischiusa e un filo di luce vi è penetrato…” … “… e poi ci saranno altre persone, tutti gli amici che stupidamente avevo perduto e che ritroverò ad uno ad uno e che mi aiuteranno moltissimo“.
Da tutta la sua autocritica, si è tentati di ricavare un’impressione negativa sull’uomo, ma questo sarebbe un errore, perché l’autocritica richiede onestà morale. Lui ha avuto questa onestà! L’amico Manera così dirà di Motti: “Non era né egocentrico né egoista, anzi era invece molto generoso e altruista“. Quindi in quel 1972 doveva ritrovare la serenità con gite facili con amici. Trovò anche un lavoro che lo soddisfaceva e gli lasciava molta libertà, non solo per riprendere ad arrampicare, ma anche per dedicarsi alte mille cose che lo attiravano.
Motti era dotato di forte personalità e di grande carisma e questo portò molti giovani di allora ad adottare e seguire il suo pensiero. Ma a volte la sua autostima lo portava anche a giudicare tutti dall’alto al basso: “… nell’alpinismo sono troppi i falliti e troppi i condizionati… ” “… sovente l’uomo alpinista mi ha profondamente deluso…” “… dieci anni durante i quali ho potuto avvicinare un gran numero di alpinisti di diversa estrazione sociale e di diversa sensibilità. Oggi da questi contatti ne esco un po’ deluso“. Infine: “Molti si illudono di essere qualcuno, credono di essere importanti solo perché nell’alpinismo hanno raggiunto i vertici. Ma se tu trasporti gli stessi individui in un altro ambiente, se li inserisci in un differente contesto sociale, allora li vedi incapaci di sostenere un dialogo qualsiasi, spauriti ed intimiditi, incapaci di intrecciare relazioni umane“.
Ciò potrà anche essere vero, ma lui non indugiava troppo a pensare che quegli alpinisti, quegli “individui”, forse non avevano avuto la fortuna di nascere in una famiglia agiata che avrebbe permesso loro di studiare e formarsi una buona cultura in un ambiente dalle relazioni altolocate. Era il tipico atteggiamento dell’intellettuale senza alcuna esperienza di vita fuori dall’alpinismo, che non si rendeva conto di cosa significasse il lavoro duro, fin da giovanissimi, senza mezzi per studiare. Questo suo giudizio severo, ingeneroso e un po’ sarcastico, di fatto non gli rende onore. A volte si lasciava prendere la mano da questi eccessi nel voler dare giudizi: per esempio Giovanni Dematteis sul Notiziario della Sezione di Rivarolo Canavese del CAI, aprile 2018, ci ricorda che, nella sua Storia dell’Alpinismo, Motti descrive Gervasutti come una “… persona nevrotica, incline alla malinconia, lacerata dalla contraddizione, tormentata da un desiderio di infinito, incapace di vivere la normalità, insomma di un Dio caduto dal cielo ed insoddisfatto di trovarsi uomo”. Questo giudizio fu nettamente rifiutato dai compagni di cordata del Fortissimo“, per citarne alcuni Massimo Mila, Renato Chabod, Paolo Bollini, Aldo Bonacossa, Lucien Devies.
L’alpinismo si è sviluppato in modo differente sui due lati dell’Atlantico. In Europa si era arrivati sino al sesto grado superiore ed erano stati risolti gli ultimi “Grandi Problemi”, le pareti nord delle Grandes Jorasses, del Cervino e dell’Eiger, ancora prima della seconda guerra mondiale. Al di là dell’Atlantico l’alpinismo, partito con un certo ritardo, aveva avuto uno sviluppo diverso. Negli Stati Uniti le grandi montagne di 5000 e 6000 metri sono lontane e di difficile accesso, per cui gli arrampicatori locali hanno finito per eleggere a terreno di sviluppo la famosa Yosemite Valley, in Sierra Nevada. Qui vi sono rilievi di modesta altezza, che presentano però delle immense, straordinarie pareti di granito verticali, pur non trattandosi di montagne culminanti con una vetta, come le intendiamo noi.
Ciò ha portato a sviluppare un diverso concetto di alpinismo e di scalata. Qui non si trattava di superare difficoltà per raggiungere la vetta, ma semplicemente di superare la parete stessa. Grazie a condizioni ambientali favorevoli, quegli scalatori raggiunsero presto un livello notevole sul piano tecnico, sfruttando al massimo fantasia e ingegno nella creazione di nuovi materiali, e sviluppando straordinarie capacità atletiche. È però interessante anche vedere come operavano questi arrampicatori per raggiungere grandi prestazioni. Ce lo spiega Ugo Manera nel suo lucido articolo Settimogradisti parassiti sociali? apparso su Scandere nel 1980: per raggiungere quei risultati bisognava dedicare alla roccia il tempo pieno. Cioè arrampicare tutto l’anno o quasi, senza interruzioni dovute al lavoro. E come potevano vivere? Alcuni con i mezzi propri, ma altri col sussidio di disoccupazione. Si accontentavano di poco, molti hanno vissuto per anni come poveri vagabondi. Motti è stato sicuramente affascinato dall’alpinismo californiano, ed è stato forse questo il momento dell’intuizione del “Nuovo Mattino”: lui pensava certamente a un alpinismo sfrondato dalla retorica ottocentesca, compreso il mito della “vetta”. “Nella Yosemite Valley c’è il Capitan, parete immensa, guscio di granito dalle proporzioni disumane. Balma Fiorant presenta al centro una parete che è un microcosmo del Capitan, noi l’abbiamo chiamato il Caporal (…) Sarei molto felice se su queste pareti potesse evolversi sempre più quella nuova dimensione dell’alpinismo…“, Il Nuovo Mattino, Scandere 1974.
Sicuramente intendeva l’etica californiana, con le sue regole e le sue preclusioni, come un qualcosa di innovativo, di superiore, da prendere a modello. Il Nuovo Mattino è concepito come “un nuovo modo di intendere l’alpinismo”.
Molti anni dopo Marco Blatto scriverà: “Motti fu tra i primi a comprendere la novità del modello californiano e a sostenere che l’alpinismo e la scalata, pur senza rinunciare alla grande avventura, possono essere vissuti senza i dettami tradizionali”. Motti, in pratica, accettò qualcosa al di fuori dell’alpinismo classico, proponendo avventure “senza la vetta” che veniva momentaneamente privata del suo valore simbolico e irrinunciabile, a favore della celebre “filosofia dell’altipiano”. “Si tratta però di una rinuncia temporanea che dovrà ricondurre nuovamente all’alpinismo una volta realizzata la liberazione da certi dogmi conservatori” (Marco Blatto in La libera avventura esplorativa di Giancarlo Grassi, giugno 2018). “Riflettere e una volta liberati dai dogmi conservatori…”, cioè da come si era intesa l’attività in montagna sino a quel momento, per sostituirla con una nuova visione dell’alpinismo, ovviamente in chiave californiana. Ma non è stato Motti stesso, come vedremo più avanti a dire che: “l’alpinismo è una delle più belle manifestazioni anarchiche del pianeta…“?
Se le parole hanno un senso: “uscire dall’alpinismo“, “avventure senza la vetta … momentaneamente privata del suo valore simbolico…” significa abbandonare l’alpinismo per dedicarsi a un’altra attività. Si tratta certo di una tesi rispettabile, un’idea personale poi accettata da molti.
Ma era davvero necessario dimenticare Paccard, Balmat, Whymper, Coolidge, Knubel, Mummery, Rey, Preuss, Dülfer, Comici, Cassin, Gervasutti, Bonatti, Buhl, cioè la storia dell’alpinismo, per passare attraverso un periodo di “purificazione” prima di ritornare alla montagna? Siamo proprio sicuri che l’alpinismo consista esclusivamente nel ricercare vie nuove su qualunque struttura rocciosa a qualunque quota? Che ripetere vie classiche sulle Alpi non sia più alpinismo? Che, tanto per fare un piccolo esempio, sia meno alpinismo salire il Dente del Gigante da nord che arrampicare su un qualche sperone roccioso di uguale difficoltà nel verde di qualche sperduto vallone?
Ora la maggioranza degli “alpinisti” preferisce arrampicare (scalare) su falesie o massi di fondo valle, con prestazioni di livello veramente alto. L’alta montagna vede diminuire la sua frequentazione (ma non scomparire). Qualcuno sostiene che questa sia l’evoluzione dell’alpinismo, ma credo che si tratti invece di “evoluzione della tecnica” dell’alpinismo. L’alpinismo inteso come “sentire” la montagna, “vedere” la montagna e apprezzarne gli aspetti grandiosi e bellissimi, la sua poesia, è un’altra cosa, che non è in discussione. È chiaro però che si può contemporaneamente apprezzare sia le grandi scalate che l’aspetto estetico della montagna, come diceva già il Mummery: “… Il fatto che un uomo si diverta a scalare rocce a picco, in nessun caso lo rende insensibile a tutto ciò che di bello vi è nella natura. I due piaceri non sono dello stesso ordine: un uomo può amar le scalate e infischiarsene dei paesaggi della montagna, e viceversa può essere appassionato per le bellezze della natura e odiare la scalata; ma può provare insieme i due sentimenti. Si può certamente presumere che coloro i quali sono maggiormente attirati dalle montagne e che con maggiore costanza fanno ritorno ai loro splendori sono quelli che possiedono al più alto grado queste due sorgenti di gradimento” (Mummery, Le mie scalate nelle Alpi e nel Caucaso).
Ma il tempo cammina e intanto in Europa qualcosa si stava muovendo. Dalla Francia, la “Grande Contestazione Giovanile” che darà vita al famoso maggio parigino del 1968, era presto dilagata in tutta Europa, Italia compresa. Si proponeva, tra l’altro, di contestare, modificare e magari abbattere tutto ciò che sapeva di borghese. I borghesi si presentavano con “decoro”, allora bisognava vestire in modo “indecoroso”, con abiti logori, sdruciti, barba e capelli lunghi”. Anche Motti ne era rimasto contagiato, come abbiamo visto. L’alpinismo era una creatura borghese quindi era inevitabile che la fronda arrivasse prima o poi a colpire anche lì; questo nonostante “l’Ondata Proletaria“, per dirla con Giuseppe Garimoldi in La Minoranza Arrampicante, avesse già raggiunto l’alpinismo torinese, e Adolfo Balliano parlasse, con un po’ di sufficienza, dei giovani alpinisti di allora come di “ragazzetti usciti dalle officine“. Se i borghesi scalavano le pareti delle montagne per raggiungere una vetta, si poteva scalare la parete e basta, cioè limitarsi alla parte più esaltante e più succosa dell’alpinismo. I più hanno interpretato le idee di Motti come un invito a disertare l’alta montagna, a considerare solo più massi e falesie. Questa era l’idea del Nuovo Mattino percepita da molti giovani di allora, che con l’entusiasmo proprio dell’età, e anche grazie appunto al carisma e alla personalità di Motti, furono portati a seguirne acriticamente il pensiero. Nell’articolo già citato Blatto afferma: “… la rigidità di un ambiente alpinistico torinese sospeso a metà tra l’idealismo del regime e il contraltare proletario del dopoguerra, ugualmente rigido…“.
Si tratta ahimè di luoghi comuni che ignorano quale fosse, al di là della facciata ufficiale, la vera atmosfera che si respirava in quel periodo. È stato giustamente detto che ogni generazione che si appresta ad affrontare la montagna sale sulle spalle di quella che l’ha preceduta. Gli odierni scalatori che superano il nono grado e forse il decimo, non esisterebbero se non ci fossero state prima generazioni di arrampicatori che hanno fatto la storia dell’alpinismo. Con i californiani la tecnica dell’arrampicata aveva fatto un altro passo avanti. In un certo senso si ripeteva quanto avvenuto con la Scuola di Monaco, la scala Welzenbach e l’invenzione del sesto grado negli anni ’20-30 del secolo scorso. Motti, forte scalatore europeo che aveva conosciuto e superato le massime difficoltà di tipo alpino del tempo, subì il fascino della mentalità yosemitiana: affrontare e superare ogni realtà rocciosa che offrisse la possibilità di confronto con la scalata, anche senza l’obiettivo di una vetta.
A questo punto però, a complicare le cose con un linguaggio enfatico e fanatico, fecero la loro comparsa altri protagonisti: su la Rivista della Montagna, aprile 1987, Roberto Mantovani parlò del Nuovo Mattino come di: “… una corrente di pensiero e di azione così potente da coagulare attorno a sé una vastissima fascia di alpinisti… una vera “rivoluzione copernicana“: questa era una chiara esagerazione, che però porterà in breve tempo alla distorsione del ragionamento mottiano. E altri: “l’universo alpinistico… in lenta decomposizione…” “Alcuni dei giovani più sensibili vivono l’esperienza della montagna in modo lacerante… in contrapposizione con l’uomo nuovo che sta cercando di farsi strada“. Pietro Crivellaro su Scandere 1984 scrive che: “con l’universale affermazione delle “varappes”, stanno cadendo in disuso gli scarponi da montagna e tra un po’ si farà anche a meno dello zaino: del pari la partita dell’alpinismo è già stata quasi tutta giocata, siamo agli ultimi minuti dei tempi supplementari, col free climbing che si prepara ad una allegra invasione di campo“. Fraseologia e mentalità calcistica! Pare che alcuni vedessero il campo d’azione dell’alpinismo come una catena di montagne tronche, a bassa quota e senza più l’inutile vetta. È stata certamente la platea dei fan a fraintendere e deformare il pensiero di Motti, trasformandolo in rifiuto dell’alta montagna e limitandolo all’attività sulle rocce di fondo valle: “non più l’alta montagna generatrice di sofferenza, ma la montagna solare, le grandi placconate che salgono dal fondo valle, le pareti di calcare che vanno verso il cielo e finiscono tuttalpiù su un altopiano o tra i boschi“: Roberto Mantovani, Rivista della Montagna, 1987. Sorge qui spontanea una domanda: ma quando mai qualcuno ha proibito di dedicarsi alla “montagna solare, alle grandi placconate, di salire in jeans e maglietta”, tanto da giustificare una “ribellione”? Ciò non sta scritto da nessuna parte, ognuno interpreta l’alpinismo secondo la propria sensibilità. “L’alpinismo è una delle più belle manifestazioni anarchiche che esistano sul pianeta e tale deve rimanere: senza leggi, senza regole, senza imposizioni dall’alto, senza padroni e senza padreterni…!” questo afferma lo stesso Motti su: La Storia dell’Alpinismo, Vol. 2, p. 364. Appunto.
Bisogna infatti riconoscere che lui non ha mai detto che fosse giunto il momento di abbandonare l’alta montagna per dedicarsi solo più alle falesie.
Per collocare con maggior consapevolezza il fenomeno “Nuovo Mattino” sarebbe necessario conoscere meglio l’aria che tirava a Torino nell’ambiente alpinistico dalla fine della guerra fino all’arrivo di Motti. Tenterò di descrivere quell’atmosfera, avendo vissuto in prima persona quel periodo. Facevo parte di quei giovani che “… dopo la fine della guerra a poco a poco si erano fatti le ossa (alpinisticamente) praticamente da soli e con quali mezzi…”come scrivevo su Alp n° 87, luglio 1992. Si era da poco usciti dalla guerra, si era conosciuta la fame, non solo metaforicamente, si erano subiti i bombardamenti aerei. Tra parenti e amici qualcuno non era più tornato dal fronte; si cercava di ricominciare a vivere. La montagna rappresentava un ideale di bellezza e di serenità, ora che non era più soltanto un rifugio per i giovani che non volevano sottomettersi al fascismo.
“Dopo la guerra, scomparsi i grandi maestri Gervasutti e Boccalatte, scossi nel morale gli altri sia appunto per la morte dei grandi e sia per la terribile esperienza della guerra, ai giovani e giovanissimi che si avvicinavano alla montagna mancava l’appoggio dell’esperienza e dell’insegnamento dei più anziani. .. E noi, giovani di allora, armati si di un formidabile entusiasmo, ma privi di tutto il resto, tecnica, attrezzatura, esperienza e mezzi finanziari, ci si avvicinava alla montagna difficile a piccoli passi“. Questo scrivevo su Scandere 1986, p. 56.
La Scuola Gervasutti comincerà a funzionare solo nel 1953, ma a questo punto vi entreremo già come istruttori. Qui voglio sfatare quanto ho letto troppe volte sul clima di allora: “… un ambiente fatto di miti… di inibizioni… di prudenza… in un clima da caserma… Le sedi del CAI piene di polvere… tra divieti e tabù gli alpinisti avevano perso la gioia di scalare… Chi diceva non si può; chi abbaiava non si deve… e poi non salivano da nessuna parte. Perché erano degli incapaci”. E ancora: “L’ambiente alpinistico era quanto di più retrivo e ottusamente conservatore si possa pensare. La scuola Gervasutti di Torino ne era un esempio emblematico: si rasentava l’idiozia“. Questo scriveva un certo Massimo Demichela, classe 1954 (da Verso un Nuovo Mattino di Enrico Camanni, Laterza 2018). Qualcuno è arrivato a parlare addirittura di clima da inquisizione!
Che dire di simili sproloqui? Non imputo a Motti le male interpretazioni e le degenerazioni alle sue idee, ma è un fatto che molti allora si facevano vanto di usare un linguaggio arrogante e presuntuoso credendo di interpretare lo spirito del tempo. Qui ora, anche se in ritardo, voglio difendere la memoria di quei giovani di allora, ormai quasi tutti scomparsi, che rinunciavano a parte della loro attività individuale per dedicarsi, da volontari, all’insegnamento della tecnica e della pratica dell’alpinismo nella Scuola Gervasutti. Questi i nomi che ricordo: Dionisi, Ghigo, Marchese, mio fratello Piero, Balzola, Mauro, Viano, Flora, Ennio Cristiano, DeAlbertis, Maccagno, Manera, Malvassora, i fratelli Rosenkrantz, Ghitta, Sanvito, i fratelli Bo, Pistamiglio, Solero, Leo Ravelli, May, Ettore Russo, Franco e Giorgio Ribetti, e da ultimo anche me stesso… Mi scuso per gli eventuali dimenticati.
Voglio ribadire che queste persone non erano né “idioti” né “ottusi conservatori”, bensì tutti ragazzi intelligenti, impegnati e attivi, che offrivano la loro esperienza per insegnare ai più giovani ad affrontare la montagna con la maggior sicurezza possibile, e che all’occorrenza sapevano partire al soccorso di qualcuno in pericolo in montagna, poiché non esisteva ancora il Soccorso Alpino con i mezzi e l’organizzazione attuali, magari perdendo qualche giornata di lavoro, senza rimborso, e subendo anche il rimprovero dei superiori!
È chiaro poi che gli sproloqui di cui sopra li poteva scrivere soltanto chi di quei fatti aveva soltanto sentito parlare e si appoggiava con fantasia a facili pregiudizi. Chi non aveva mai frequentato le due sedi del CAI di Torino in via Barbaroux e in Galleria Subalpina al venerdì o al giovedì sera. Chi non aveva memoria, (a proposito della “polvere nelle sedi CAI”) delle “Gite Scolastiche” che vedevano centinaia di ragazzi delle elementari e medie, trasportati da molti pullman su per le vallate a conoscere la montagna, attività organizzata e diretta dall’infaticabile e dinamico segretario e vicepresidente della sezione di Torino, Ernesto Lavini! Lo stesso Lavini principale artefice del magnifico soggetto culturale che sarà l’annuario Scandere, motivo di vanto per molti anni della sezione. Intanto si era costituita la Scuola Gervasutti, quella di scialpinismo SUCAI, si organizzavano spedizioni extraeuropee, si costituiva il Coro Edelweiss; mentre nella vicina Uget nasceva il Gruppo Alta Montagna, che per molti anni comprenderà i più attivi alpinisti piemontesi, molti della sezione di Torino.
L’obiettivo del CAI non è soltanto quello di occuparsi dell’arrampicata estrema; si rendevano conto quei denigratori di cosa significasse amministrare decine di rifugi (molti dei quali distrutti o mal ridotti) come era il caso della sezione di Torino?
La critica è sempre apprezzabile, ma solo quando è onesta e franca.
Nelle due sedi citate l’allegria era di casa. E all’uscita si finiva per andare in una birreria di via Palazzo di Città, o alla “Crota Paluch”, a finire in allegria la serata.
Gli scherzi poi non mancavano mai. Potrei raccontare infiniti episodi, e anche in arrampicata, tra un tiro di corda e l’altro, le battute abbondavano.
Allora si cantava spesso: in montagna, in rifugio, sul pullman, insomma l’alpinismo era vissuto in modo gioioso, si tendeva a ritornare a una vita normale, vivibile, dopo anni di rinunce, di paure e sacrifici. L’alpinismo era qualcosa di bellissimo, di importante e impegnativo, era un di più che arricchiva la vita.
“L’abbattimento dei miti” avverrà molto più tardi, sull’onda della contestazione francese, quando i nuovi giovani avranno ormai la pancia piena e magari l’automobile sotto casa e si permetteranno di contestare e ridicolizzare tutto, anche l’attrezzatura: basta con gli scarponi pesanti, i pantaloni alla zuava, i maglioni di lana; in montagna ora si va in jeans e maglietta!
Una presunzione che porterà poi a più di un episodio tragico!
C’è ancora un aspetto che vorrei ricordare, e che per quanto mi risulta non è mai stato considerato dai critici del periodo: l’obiettivo primario, l’aspirazione dei giovani di allora, non era tanto emergere in campo alpinistico, ma invece realizzarsi sul piano professionale, affermarsi in qualcosa di concreto e costruttivo. L’alpinismo era una cosa importante, bellissima e impegnativa, ma veniva dopo.
È stato questo che ha fatto parlare qualcuno di “inibiti”, di “pieni di miti”? Non si tratta invece del retaggio della nostra mentalità piemontese, quella di pensare anzitutto a cose concrete, costruttive?
La prima generazione del dopoguerra era uscita dal conflitto con i nervi a pezzi. Non si aveva nessuna intenzione di usare l’alpinismo come arma di ribellione, non c’era necessità di contestare, di trasgredire: l’alpinismo significava ritornare a una vita normale, vivibile, dopo anni di rinunce, di paure e di sacrifici. Si apprezzavano certi valori che in alpinismo sono indiscutibili, come ad esempio il piacere estetico di una bella salita in alta montagna, anche se già percorsa da altri, l’ebbrezza di arrampicare su rocce primordiali verso l’alto, verso il cielo, lo studio e la ricerca dell’itinerario, il calcolo degli orari, la scelta dell’equipaggiamento, l’incognita meteo, a volte anche l’incognita della discesa, e in generale il senso dell’avventura, del rischio, della libertà. Tutte prerogative queste che non possono essere disgiunte dall’alpinismo. Non sono pochi coloro che salgono le vette per le vie normali, evitando le difficoltà, per il puro piacere di godere dell’alta montagna. Contrapponendo alla celebre “filosofia dell’altipiano” l’antica “filosofia della montagna”. Per dirla con Simone Moro “… è importante cercare sempre la bellezza in quello che facciamo piuttosto che enfatizzare la prestazione fine a se stessa…”.
I più hanno interpretato le idee di Motti come un invito a disertare l’alta montagna: “Basta con la schiavitù della vetta“, questa e altre frasi simili si leggevano spesso allora. Questa era l’idea del Nuovo Mattino percepita da molti giovani, allora. È certo vero che in passato si sia fatta molta retorica sul mito della vetta, ma eliminare la vetta “tout court” per ripulirla dalla retorica equivale a “buttar via il bambino con l’acqua sporca”.
Motti restò dunque profondamente deluso da come erano state interpretate le sue idee: “… tutti hanno creduto che io volessi dire: basta con l’alta montagna, solo più i sassi. Che peccato, lo volevo solo dire: chissà se un giorno saremo così intelligenti e umili da poter finalmente accedere al regno delle grandi pareti senza pagare un prezzo di dolore“.
Questa frase un po’ enigmatica probabilmente si riferiva alla necessità di una vera consapevolezza e preparazione su cosa si va ad affrontare. Certo, salire le grandi pareti comporta sempre fatica, e a volte sofferenza e dolore, come lui stesso aveva sperimentato, almeno sulla Walker.
“Si è frainteso tutto. Non si è capito che la montagna resta sempre la montagna, e ciò che era sacro resta veramente sacro e non può essere distrutto e dissacrato“.
Motti aveva anche previsto e temuto quel momento: “… la palestra crea anche degli svantaggi piuttosto notevoli… diviene il fine, e non più il mezzo, banco di scuola su cui imparare a leggere e scrivere… con conseguente disprezzo per la montagna facile e con la convinzione che l’alpinismo altro non sia se non un modo di mettere in pratica su più larga scala quelle esercitazioni più adatte a una palestra ginnica che a una montagna (da Rocca Sbarua e Tre Denti)“.
Nel momento in cui il Nuovo Mattino era all’apogeo, qualcuno a Torino aveva pensato che, come avvenuto per altre iniziative nate in questa città in campo alpinistico, ma non solo, e poi rapidamente diffusesi in tutta l’Italia come lo stesso Club Alpino, il CAAI, il GISM, anche il nuovo verbo si sarebbe diffuso del pari. Ma non fu così, il Nuovo Mattino di fatto non uscì mai fuori della cerchia cittadina, travolto probabilmente dalla prorompente sfrontatezza e dal definitivo cambio di orizzonte operato dall’emergente scalata sportiva.
Tanto che, a un certo punto, si assisterà addirittura ad un ripensamento.
Lo stesso Crivellaro, ancora su Scandere 1984, scriverà: “… la più importante enunciazione fatta dallo stesso Motti, dei principi del rinnovamento dell’alpinismo, divenuto col passar degli anni motivo di profonde delusioni…”. Su la Rivista della Montagna, aprile 1987, Roberto Mantovani scrisse che: “… oggi il termine è sbiadito, non più di moda, superato“.
Motti fu anche protagonista di un fatto singolare, strano: fu dato per disperso sui monti tra la Val Grande e Ceresole Reale. Si mobilitarono le squadre del Soccorso Alpino del Piemonte e della Val D’Aosta, ma senza risultato. Dopo cinque giorni, riapparve senza però riuscire a dare una spiegazione convincente della sua scomparsa. Tanto bastò alle malelingue per costruire sul fatto le storie più fantasiose e malevoli. Lui ne soffrì molto, si chiuse ancor più in se stesso. Chi lo conosceva dice che continuava a fare una modesta attività alpinistica, ma senza apparire.
Sono passati ormai molti anni da allora, gli animi si sono placati, le polemiche si sono assopite. I giovani che praticano ora l’arrampicata sportiva hanno ben chiaro che questa e l’alpinismo sono due cose diverse. Molti di loro hanno sì e no “sentito parlare” di Motti. Nei dintorni di Torino è ancora attiva la Scuola di Alpinismo col suo nome, ma fuori dalla cintura torinese non è rimasto molto.
Qui non si è inteso dare un giudizio sul creatore del “Nuovo Mattino”.
Altri lo hanno fatto o lo faranno.
Qui si è semplicemente voluto sottolineare alcuni aspetti delle sue vedute, inserite nel momento in cui queste hanno preso vita dalla storia che le ha precedute, e rimarcare quanto sostenevano e sostengono i suoi antagonisti, per poter comprendere meglio il personaggio, l’uomo. Che morirà suicida nel giugno del 1983. A trentasette anni.
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OPPS !
Falsi e cortesi sono solo i torinesi. 🙂
Adesso la “Gerva” come va ?
Problemi “economici” risolti ?
O sbaglio a citarli ?
Quindi chiedo solo: la “Gerva” come è adesso ?
Ma anche l’altra naviga così, forse un po? meglio ?
Dai piemontesi falsi e cortesi 🙂 , parlate una volta del presente, o almeno del recente !
Grazie Maurizio, mi ha fatto piacere la tua precisazione, io ho inteso soltanto contestare un giudizio negativo sulla “Gervasutti” e su Dionisi. Ne ho sentiti altri, nel tempo e li ho sempre trovati ingiusti, poichè la “Gerva” io l’ho conosciuta sin dall’inizio e ne ho un’opinione diversa. Quanto a Demichela poi: “lasciamo perdere!” Ti saluto cordialmente. Lino.
Preciso per Lino che non mi pare di aver descritto la Scuola Gervasutti come qualcosa di totalmente negativo, ho raccontato l’esperienza di mio padre perchè lui purtroppo a 90 anni non è arrivato e non avrebbe potuto raccontarla qui in prima persona. Questa è stata la sua vicenda, sarà stato sfortunato o avrà risposto male a Dionisi non lo so, a questo punto devo credere che probabilmente è stata tutta colpa sua 😉 Altri sicuramente si son trovati benissimo, ma lui di sicuro no. Per quanto riguarda me non ho mai partecipato a corsi della Scuola Gervasutti (quello che citavo era dell’UGET). Conosco oggi molti istruttori che ne fanno parte e sono ottime persone con i quali ho anche rapporti di amicizia. Massimo Demichela l’ho conosciuto bene e la sua affermazione non mi sorprende affatto, era perfettamente nel suo stile. E’ sempre stato un dissacratore, quindi non prenderei con tanta serietà quelle che erano evidentemente delle provocazioni
Molto bello il superamento di alpinismo borghese e proletario fatto da Lino Fornelli nel suo pensiero conclusivo !
Scusate se arrivo in ritardo , ma l’interessante articolo di Lino Fornelli è l’occasione per portare la mia opinione e testimonianza sulla infelice citazione di Massimo Demichela riguardo alla Scuola Gervasutti . Citazione che ultimamente ci è stata ricordata con una certa frequenza. Era infatti già apparsa nell’articolo di Giuseppe Penotti “1978-1984 , Scuole di Alpinismo a Torino ” e poco prima in “1968, rinascimento alpinistico”.Già in quell’occasione Ugo Manera aveva replicato in modo preciso e corretto per ristabilire la verità dei fatti.
Nel 1971 grazie a Giancarlo Grassi ero stato accettato direttamente al terzo corso della Scuola Gervasutti. Il direttore era quell’ottima persona di Ennio Cristiano, tutt’altro che burbero e militaresco. Tra gli istruttori ricordo volentieri Rabbi ,Manera , Locatelli , Comba , Castellero detto “Layton Curt”, Vareno Boreatti detto ” Savata” ( particolarmente allegro e scherzoso ). Anche Gian Piero partecipava ad alcune uscite della Scuola. L’atmosfera era piacevole e rilassata.
Giuseppe Dionisi tenne una bella lezione sul ghiaccio. Mi colpì per l’entusiasmo e la passione che poneva in ciò che stava insegnando. Lui che precedentemente aveva guidato la Scuola , forse con uno stile figlio del suo tempo, contrariamente alla prima impressione, era una persona cortese, sensibile e disponibile. Quando ero ricoverato all’Ospedale Traumatologico , quasi tutto ingessato, venne ben due volte e per lunghe ore a farmi compagnia e coraggio. Negli anni successivi fu sempre pronto a procurare materiale tecnico ed a spiegare con competenza ogni più piccolo dettaglio . Ce ne fossero di Giuseppe Dionisi……
Quindi ritornando all’infelice citazione, in tutta onestà , penso che non si possa travisare così palesemente ed ingiustamente la realtà dei fatti . Ho l’impressione che sia un sentito dire ( infatti non mi risulta che Massimo Demichela abbia mai partecipato ai corsi della Scuola) mal interpretato e molto amplificato che purtroppo ha danneggiato immeritatamente l’immagine della Scuola Gervasutti specialmente negli ambienti non torinesi.
Grazie Ugo e grazie Lino, per la vostra testimonianza sull’uomo e sul periodo e le sue tensioni.
In questo genere di post c’è sempre il modo di interrogarsi un po’ tutti sul mondo da cui provenivano culturalmente, con le sue spinte e le sue contraddizioni, i modi di pensare la montagna e i loro cambiamenti.
mi sarebbe piaciuto poter conoscere Motti perchè ai miei occhi appare non come un mito, ma come una persona molto interessante, che aveva molto da dire e molto da chiedersi. Questo non vuol dire certamente che avesse sempre ragione, ma sicuramente molti di cui discutere, confrontarsi.
Credo che sia anche questo, nonostante i tanti anni passati, che rende questo personaggio ancora molto interessate. E, non da ultimo, purtroppo, anche la sua scelta di porre fine alla sua vita.
Per Lino Fornelli: in qualità di redattore, ci tengo a sottolineare che non ho aggiunto nulla al tuo testo apparso su Annuario Accademico 2019. Né ho modificato alcunché. Grazie del commento.
Il mio scritto su Motti è venuto alla luce solo perchè faceva parte dei personaggi che hanno operato nelle Valli di Lanzo, e su cui ho scritto un libro che probabilmente non troverà mai un editore. Io Motti l’ho appena conosciuto, quando lui è apparso sulla scena alpinistica torinese io avevo ormai già compiuto la mia non straordinaria attività alpinistica. In quegli anni avevo ben altri problemi che mi assiilavano. Ricordo solo che mi dava fastidio sapere di una teoria che considerava inutile il raggiungimento della vetta.
Ora, in pensione, devo pur riempire le giornate e ho voluto approfondire la mia conoscenza dei fatti. Ho così cercato le riviste che riportavano scritti di Motti e su Motti, ho letto il suo libro sulla storia dell’alpinismo, ho sentito il parere di amici che lo hanno conosciuto meglio di me. Ho cercato di essere scrupolosamente imparziale riportando quanto appreso su di lui, sia di positivo che di negativo. Per mia formazione mentale rifiuto l’idea del Mito, dell’Uomo che ha sempre e solo ragione. Sono vecchio, ho ormai superato i 90 e ricordo troppo bene i miti della prima metà del secolo scorso che ci hanno portati al disastro planetario della seconda guerra mondiale. Certo non intendo paragonare Motti a quei tragici personaggi, ci mancherebbe, ma semplicemente intendo dire che considerarlo un mito infallibile, come fa qualcuno mi da fastidio. Ho scritto e riscritto infinite volte quanto avete letto sul blog, poi l’ho fatto leggere al Cai Torino di cui sono socio dal 1945, è stato pubblicato sul sito della sezione, sull’Annuario del CAAI e ora su questo autorevole blog. Non mi sarei mai aspettato tanto interesse. E’ evidente che anche se l’argomento é ormai superato il personaggio Motti è ancora presente in molti. Per quanto riguarda l’opinione che mi sono fatta di lui è evidente nello scritto: ne ho considerato sia i pregi che i difetti: Motti era un uomo e in quanto tale possedeva sia gli uni che gli altri. Posso dire che oltre al blog l’ho fatto leggere ad alcuni amici alpinisti, accademici (magari ben conosciuti in campo nazionale e anche fuori, ma non ne faccio i nomi per non coinvolgerli, non essendo autorizzato) e non accademici. Ho ricevuto consensi e complimenti tranne che da due di loro. Per quanto riguarda l’amico Ugo gli ho già risposto direttamente per mail, mi limiterò qui a dire che la sua affermazione secondo la quale la mia generazione temeva che la “visione intellettuale di Motti potesse ricondurre ad un ad un alpinismo elitario e borghese” é errata. Alpinismo proletario, borghese ecc….per me quando un uomo o donna sale su di una montagna affrontandone i rischi e le fatiche non è ne proletario ne borghese è un alpinista!
Ora due parole sul Redattore: ha apportato alcune piccole modifiche che migliotrano il mio scrtitto e di questo lo ringrazio, ma non sono d’accordo quando dice che l’amore per la montagna nel Nuovo Mattino non era in discussione: non in Motti, ma in molti dei suoi fan sicuramente si: per esempio quando si parla di “una rivoluzione copernicana” rispetto all’alpinismo classico di alta montagna (alpinismo della sofferenza) o di considerare solo più le “placche solari”ecc…..
Che dire poi di Oviglia che descrive la scuola Gervasutti come qualcosa di totalmente negativo: si vede che è stato particolamte sfortunato, se la scuola fosse stata quella sarebbe morta in due anni. Sono stato istruttore della scuola nei primi anni e non ricordo niente di simile, è vero che Dionisi esigeva una certa disciplina, lui era di formazione militare, ma niente di più. Non tutti, ma molti dei migliori alpinisti torinesi e piemontesi sona passati attraverso la “Gerva”e non penso che da istruttori fossero diventati così malvagi.
Strano detto da te che hai l’aria di essere un dissacratore.
Per anni e anni ho trascurato le pareti della valle del Sarca. Perchè andare li a perdere tempo quando ci sono le Dolomiti?
Poi un giorno di ripiego dalle Dolomiti sono andato a fare Mescalito alla Rupe Secca e mi sono reso conto di quanto sbagliavo. Che non c’erano montagne o pareti di serid B o di ripiego. Quello che contava era come lo vivevi e come le guardavi. E anche le serie B avevano tanto da dare.
Io sinceramente faccio un po’ fatica a parlare o commentare l’ennesimo articolo su Motti. Pero’ quando avevo 17 anni, cioe’ nel 1987, ho salito Crazy Horse e la Via della Rivoluzione allo scudo del Caporal. Le salii solo perche’ sul Bianco era brutto tempo. Ma io non avevo una particolare considerazione di quali pareti stessi salendo. Per me era semplicemente un ripiego. Partendo da Genova, andare in valle dell’Orco e non sui “Satelliti”, perlomeno, era del tutto disdicevole. Sara’ stata la Bartolomeo Figari che inculcava strane idee nei suoi piu’ giovani istruttori? Ero allora un prototipo di cannibale? Oggi sinceramente leggere un articolo su Motti non mi dice piu’ nulla. Anzi, mi lascia quella fastidiosa sensazione di vuoto e insensatezza. Bonatti e il lancio della “bolas” sul Dru rimane invece di un altro pianeta. Mi ispira ancora oggi.
buona serata
Ognuno ha la sua storia e gli incontri che fa sono dominati dal caso. In più ognuno elabora la sua interpretazione di ciò che gli accade. La valutazione cambia col tempo, invecchiando ci si inaridisce oppure ci si ammorbidisce. Insomma non è possibile tracciare analisi con validità assoluta, nel tempo e nello spazio.
Ma facevate le gite in montagna oppure in un campo di concentramento?!?!
Io ho inizisto a scalare nel 1978 da autodidatta e sono da quasi subito entrato in una scuola del cai toscana.
Sinceramente non ho mai trovato un’aria cosi pesante da farti passare la voglia.
Anche se non tutto era condivisibile, ho sempre trovato tanta serenità, semplicità e scazzo.
Boohhh????
Sono torinese al 100%, quindi forse ho diritto di parola 🙂 non mi addentro ancora sul dibattito su cosa sia veramente il Nuovo Mattino e la portata di questo movimento pur essendone stato uno dei principali divulgatori negli anni duemila con i miei libri e scritti sulla Valle dell’Orco. Confesso tuttavia di provare un certo fastidio nel leggere oggi queste continue (e spesso opposte) riletture, come a voler a tutti i costi tenere in vita un paziente morto. Ma vabbè, passiamo oltre.
Ho cominciato ad andare in montagna con mio padre nel 1972. Lui era reduce da un corso alla Scuola Gervasutti e ne era stato talmente “provato” da aver deciso per sempre di non arrampicare su roccia. Infatti con lui non ho mai arrampicato su roccia. Non mi ha mai detto cosa veramente successe alla Gervasutti ma mi descrisse il clima sotto la direzione Dionisi come piuttosto (molto) militare. Siccome ora sono istruttore nazionale del CAI anche io posso capire che qualcosa non sia andato bene tra allievo (mio padre) e istruttori ed abbia portato questi giudizi così negativi verso la Scuola di allora. Ho arrampicato molto spesso con Franco Ribetti, Dionisi era suo zio (mi pare) e ne abbiamo parlato spesso. Ma proseguendo nella storia, nel 76, poco prima di morire, mio padre desidera che io abbia la possibilità di fare ciò che lui non ha fatto. Sceglie la sezione del CAI UGET a cui mi aveva iscritto nel 74. Nel 76, dicevo, mi iscrive ad un corso di sci alpinismo. Io ho 13 anni e comincio a fare gite sotto la guida degli istruttori di quel tempo. Non ho un ricordo bello di quelle gite, diciamo così. Ripetutamente vomito per la stanchezza, nessuno mi aspetta, una volta addirittura vengo spinto con il bastoncino nel sedere esortandomi a salire. Non vengo calcolato e accudito, ma piuttosto trattato come un piombo da trascinare su in vetta, dove arrivo regolarmente ultimo. Mio padre muore nel 77, continuo a fare qualche gita (di escursionismo) e decido di lasciare il CAI per la Giovane Montagna. Lì trovo un ambiente diverso e più rilassato. Nelle campagne estive ad Entreves conosco Sergio Billoro di Padova ed il suo gruppo, per non citare gli altri. Vengo instradato all’alpinismo da quel gruppo di istruttori (frequenterò un corso di ghiaccio del CAI di Padova, il che la dice lunga sulle mie scelte di allora) e da Giorgio Rocco della Giovane Montagna. Nel 78/79 le prime arrampicate, sono pronto a lasciarmi alle spalle tutto e tutti e andare finalmente da solo. Giorgio continua a seguirmi non più da maestro ma come compagno dell’allievo che ha formato. Ritornerò al CAI solamente intorno al 2005, con i corsi regionali e poi nazionali. La mia esperienza non certamente indicativa e non voglio contraddire l’amico Ugo. Però certamente non ho avuto la percezione (e mio padre tanto meno) di un ambiente giocoso e rilassato, di allegria e simpatiche battute 😉 Tutto qui
Davvero una bellissima visione di insieme di un momento davvero controverso per l’alpinismo Piemontese e Italiano.
Mi interessa la vicenda umana più del dibattito ideologico un po’ datato. Per ogni generazione il ritorno sulla terra è difficile (35 – 40 anni, oggi spostato in avanti per allungamento vita media). Per quelli della mia generazione nati prima del 1950 è stato particolarmente duro visto che il viaggio era stato intenso, anche se non abbiamo fatto la guerra come molti dei miei colleghi americani in Vietnam. Motti forse non ci è riuscito. Il direttore di Trail Running ha scritto recentemente un articolo provocatorio “Il running non è una cura”, probabilmente preoccupato di quella patologia che si chiama compulsory running (corsa compulsiva), patologia che vedo anch’io diffusa in una certa fascia di mezza età. Il discorso vale anche per l’arrampicata. L’articolo ha provocato vivaci reazioni. Se siete interessati guardate il link. Ha poi interrogato con pragmatismo americano vari specialisti e ha scritto un secondo articolo che si trova sul numero di gennaio distinguendo correttamente a mio parere tra “coping” (gestire) e therapy (curare). Qualcuno autorevole e saggio come il nostro Gogna dovrebbe scrivere un articolo di prevenzione su questo tema. Le storie tragiche ci possono insegnare a prevenire per noi e magari per qualcuno che incontriamo e possiamo consigliare.
https://trailrunnermag.com/people/running-isnt-therapy.html
Il mio professore catanese di filosofia ci diceva spesso:
“si carta lavagnam cadet, totam scienziam scillicat”.
Di solito si osserva che “dire, insegnare, scrivere” sono molto lontani dal “fare”.
Ma ci vogliono tutti per capire qualcosina del fare.
Il problema è che spesso molte persone camuffano il loro fare, o peggio, essendo mediocri nel fare, lo depistano per spropositato orgoglio.
Il lungo scritto di Lino Fornelli, mentre rende giustizia alla sua generazione che ha rilanciato l’alpinismo torinese del dopo guerra e successivo alla morte di Gervasutti. L’alpinismo dei Dionisi, Rabbi, Rossa, Fornelli, Mellano….. e tanti altri, un alpinismo allegro, di solidarietà ed amicizia, per nulla elitario, come racconta giustamente Lino . Si avventura in una ennesima interpretazione del personaggio Motti che io considero errata. Lino mi aveva inviato il suo scritto prima della pubblicazione per un mio commento. Ritengo utile riportare in questo blog quale è stata la mia risposta.
Ciao Lino Ho letto più volte il tuo articolo su Gian Piero. Hai citato tanti interventi, espresso valutazioni tirato conclusioni che confermano quanto ho sempre pensato ed ho anche espresso in qualche scritto e cioè che il personaggio Motti è stato capito da pochi e molti hanno espresso opinioni, analisi e giudizi che poco hanno a che fare con la vera realtà. Probabilmente io sono lo scalatore che ha trascorso maggior tempo con Gian Piero eppure non me la sento di analizzare il personaggio, dare giudizi e trarre conclusioni come puoi vedere da un carteggio tra me e Roberto Bianco che ti allego. Roberto era stato colpito da una mia analisi su Gian Carlo Grassi (allegata) e mi invitava a fare la stessa cosa con Gian Piero, esemplificativa la mia risposta che puoi leggere in allegato. Ci sono cose nel tuo scritto che condivido come la denuncia delle sciocche e false affermazioni attribuite a Demichela e riportate da Camanni e come la sottolineatura dell’importante ruolo della vostra generazione proletaria nel rilanciare l’alpinismo torinese nell’immediato dopo guerra, dopo la morte di Gervasutti. Un alpinismo diverso da quello elitario e borghese degli anni ’30. Fatto questo riconosciuto ed apprezzato sia da Gian Piero che da me, e che ho avuto occasione di esternarlo in vari miei scritti. Proprio la vostra generazione alpinistica non ha invece capito molte cose di Gian Piero, forse perché è sorto in voi il timore che la visione intellettuale di Gian Piero potesse ricondurre ad un alpinismo elitario e borghese. Interpretazione completamente errata. Tante sono le argomentazioni, citazioni, interpretazioni che compaiono nel tuo scritto che proprio non me la sento di commentarle una ad una, voglio però assicurarti che Gian Piero non ha mai guardato nessuno dall’alto in basso, ha sempre avuto un grande rispetto per le imprese alpinistiche altrui realizzate nel rispetto dell’etica tradizionale . Alessandro Gogna nel suo blog, riprende tutti gli scritti di Gian Piero, anche quelli che non compaiono nel libro: “I falliti”, come quelli comparsi sulle riviste FILA. Molti di questi scritti sono di introduzione a personaggi o a imprese alpinistiche. Questi scritti dimostrano quanto rispetto e competenza c’era in Gian Piero nei confronti di imprese e personaggi degni. Le analisi fatte da vari personaggi, per esempio Crivellaro, Blatto eccetera sul personaggio Motti e sul periodo che poi è stato considerato come quello del Nuovo Mattino, poco hanno da spartire con quella che è stata la realtà. Proprio per il Nuovo Mattino si sono dette infinite castronerie. L’interpretazione di ciò che ci ha portati ai dirupi di Balma Fiorant è molto semplice: proprio interpretando ciò che leggevamo proveniente da oltre oceano o dal regno unito e dalla Francia ci eravamo convinti che la grande avventura completa la si poteva ricercare anche sulle pareti che terminavano sull’altopiano e non in vetta, con questo senza rinnegare nulla di quello che poteva offrire l’alta montagna e l’alpinismo tradizionale. Io, con Gian Piero e Gian Carlo siamo stati i maggiori protagonisti di quel periodo e l’attività successiva di Gian Carlo e mia dimostrano quanto fosse lontana dai nostri pensieri l’idea di dedicarsi solo alle pareti di fondovalle. L’altro grande motore del Nuovo Mattino è stata la volontà di uscire dalla retorica dell’alpinismo eroico che ancora esisteva, per esempio nella visione bonattiana: alpinismo sinonimo di sofferenza e di dramma. Il nostro alpinismo e la nostra scalata dovevano diventare una ricerca della vita, non una sfida continua alla morte. Altra castroneria: Nuovo Mattino, versione in alpinismo del ’68. Gian Piero non aveva completato gli studi all’università proprio disgustato dal casino provocato in essa dal ’68, la sua cultura se la era fatta da autodidatta; io ero Capo Officina, quindi la controparte degli autunni caldi; Gian Carlo aveva in testa solo la scalata, questa era la sua unica rivoluzione: come riuscire a scalare a tempo pieno. Altra cosa inesatta: che quel periodo (continuiamo a chiamarlo Nuovo Mattino) si sia esaurito in fretta, tant’è che continua ad essere oggetto di dibattito. Con il movimento dei Sassisti della val di Mello, successivo, ha dato il via ad una visione evolutiva sia della scalata che dell’alpinismo. Per concludere Gian Piero non è stato un nullafacente godurioso, ha svolto attività lavorative con grande professionalità, come ho avuto occasione di costatare personalmente più volte. Cari saluti Ugo
Questo interessante articolo dimostra che ogni realtà è suscettibile di valutazioni personali. A differenza di Fornelli, una certa fascia di torinesi (all’interno della quale mi trovo per questioni anagrafiche) vive costantemente nel mito di Motti. Di persona l’ho intravisto di sfuggita solo un paio di volte nella sede del CDA (editore della Rivista della Montagna), a cavallo fra anni ’70 e ’80. me lo indicarono mentre chiacchierava con qualche altro pezzo da novanta di quell’ambiente. Allora io avevo poco più di 20 anni e iniziavo a scribacchiare di montagna. Muovevo i primi passi un po’ goffi, come un anatroccolo appena uscito dal guscio. Non credo che GPM mi abbia mai messo a fuoco: troppa distanza fra di noi, sia in termini alpinistici che sulla carta stampata. La sua scomparsa mi ha impedito di approfondire la conoscenza diretta, ammesso che ci fossero le condizioni. Ho compensato leggendo praticamente tutto di lui: quello che mi era sfuggito a suo tempo, è stato recuperato grazie alla pregevole azione di Gogna su questo blog. Ciò che mi affascina di Motti, ribadisco conosciuto attraverso la lettura e non di persona, è la sua concezione intellettuale, la sua sensibilità profonda e l’estesa cultura. Diversissimo da me, anzi infinitamente a me superiore sotto ogni punto di vista, ma non venitemi a dire che non fosse, a suo modo, un “aristocratico” della montagna. Mi approprio (pagando con piacere il copyright) della definizione elaborata da Pasini qualche giorno fa. Può apparire paradossale, ma anche nei suo risvolti innovativi (Nuovo Mattino ecc), anzi proprio nei suoi risvolti innovativi, di Motti io “leggo” un risvolto élittario della montagna: altro che afflusso di massa. ciò non toglie che, in alcuni contesti, possa anche esser stato un gioviale compagno di giornata, magari anche all’interno di gruppi numerosi. Le due cose non sono in contraddizione. Sarebbe curioso verificare come Motti commenterebbe oggi la frequentazione della montagna.