Gino Soldà
(da Valdagno al K2 passando per le Dolomiti)
di Marcello Mason
(pubblicato su Le Alpi Venete, primavera-estate 2023)
“Gino Soldà arrampica come altri respirano, e a vederlo arrampicare comincio a dubitare di esser stato capace un giorno di respirare (Georges Livanos)”.
Le Piccole Dolomiti te le ritrovi innanzi proprio lì, a Valdagno, nella provincia vicentina. È in quel luogo che l’8 marzo del 1907 viene al mondo Gino Soldà, l’uomo che avrebbe saputo amarle profondamente, estendendo in seguito la passione alle sorelle maggiori. E oltre. Perché Piccole Dolomiti? Indubbiamente in termini dimensionali la definizione appare corretta, viste le loro elevazioni decisamente minori, se paragonate alle altre, eppure esse posseggono linee e meriti propri del tutto indiscutibili, come ha peraltro avuto modo di sottolineare nella seconda metà dell’Ottocento John Ball, fondatore e primo Presidente dell’Alpine Club di Londra, nonché primo salitore del Pelmo nel 1857. Che così le definì: «Le loro forme sono generalmente assai ardite e il paesaggio di molte vallate offre grandi bellezze e varietà».
In Gino però i tempi per guardare alla montagna con l’occhio estasiato dell’inglese non sono ancora maturi, ha ben altro per la testa, tanto più che la vita tra affanni e privazioni lo sta già mettendo a dura prova. Lui è il secondogenito, perché ci sono pure il fratello Aldo che gli è maggiore di due anni, le sorelle Fanny, Aurora e Flora e Italo, l’ultimo nato. Tante bocche da sfamare, considerate le intuibili difficoltà economiche in cui la numerosa famiglia si trova – la Grande Guerra si è solo da poco conclusa – per di più pesantemente aggravate dalla morte, all’inizio del 1919, di papà Leone, vittima della “Spagnola”, la terribile epidemia che sta flagellando l’Europa. Nonostante l’ammirevole impegno della mamma, appare evidente che i figlioli più grandi – ma li si può davvero definire tali a quell’età? – dovranno ben presto darsi da fare. Aldo viene così avviato al mestiere di falegname in veste di apprendista, mentre per Gino il destino potrebbe essere diverso, viste le speranze della mamma di valorizzarne le evidenti qualità, avviandolo al Ginnasio.
Ma è un’illusione, perché ben presto le ristrettezze li obbligano alla dolorosa rinuncia. Si ripiega allora affidandogli il ruolo di commesso presso la farmacia locale. Ma se ciò porterà a qualche modesto introito, imporrà, per converso, un gravoso impegno lavorativo che consente al giovane Gino unicamente qualche ora libera nei pomeriggi festivi. È davvero dura, soprattutto in ragione della giovanissima età. Finché nel 1921 l’intera famiglia, raggiunte condizioni più rassicuranti, decide di trasferirsi a Recoaro.
Adesso che gli orrori della Grande Guerra sono finalmente alle spalle – non certo lasciando indenni i suoi acerbi anni che hanno assistito a tanto sfacelo – Gino inizia ad avvertire curiosità per le montagne sotto casa, intuendo che esse non debbano essere unicamente teatro di violenza e morte, ma ben altra cosa. Il suo è perciò un atteggiamento sostanzialmente mosso da sete di scoperta, curiosità e avventura. Un po’ scapicollato, se vogliamo, come lui stesso sottolinea ai margini di quelle prime visitazioni: «I miei compagni mi seguivano un po’, ma poi mi lasciavano andare, perché pensavano che fosse troppo pericoloso. Invece io continuavo, salivo sempre più in alto. Questo gioco mi piaceva molto, il vuoto mi eccitava e mi dava tanta gioia. Probabilmente, rispetto ai miei compagni, io non avevo più coraggio, ma più incoscienza». Sia come sia, in quel momento la vocazione alpinistica di Gino appare in tutta la sua innegabile portata: ma siamo solo all’inizio. A questo punto al ragazzo tocca prendere decisioni non da poco, come lasciare quel lavoro in farmacia che più lontano non potrebbe essere dalle sue attitudini, soprattutto un lavoro che ne limita la libertà.
Ecco allora che gli si offre la possibilità di un apprendistato in un’officina di Recoaro: unirà in tal modo l’utile al dilettevole – è proprio il caso di dirlo – visto che i suoi chiodi da roccia li forgerà da sé. Sono giorni, quelli, segnati dalla passione anche per un’altra attività che la montagna sa offrirgli, tanto che di lì a poco comincerà a frequentarla con gli sci. Ogni cosa, in quelle esperienze invernali, sarà all’insegna di un’essenzialità quasi francescana, tanto che in presenza di giornate particolarmente rigide sarà per lui giocoforza accontentarsi di una coperta arrotolata da portare appresso, mentre un pezzo di pane in tasca (nulla di più, sia chiaro…) dovrà bastargli come sostentamento.
Ad avvicinarlo ancor più alla montagna provvederà, nel 1923, il nuovo incarico assegnatogli in veste di garzone dell’Hotel Dolomiti a Pian delle Fugazze, i cui vicini fianchi rocciosi divengono in breve la sua palestra di arrampicata. Ambiente che, naturalmente, non tarda ad andargli stretto, portandolo inevitabilmente, quanto rapidamente, alle impegnative vie offerte dalle Piccole Dolomiti. Come il 17 gennaio dell’anno successivo, quando si incaponisce a voler fare lo spigolo del Baffelàn. Ma lasciamo che sia lui stesso a raccontare quella salita: «Quel giorno non sono riuscito a convincere nessuno, così sono andato da solo. Prima mille metri di dislivello nella neve, a batter pista: e da notare che avevo i calzoni corti. Poi la salita vera e propria. Il canale d’attacco era tutto di ghiaccio, da far paura: ed io ero lì, a far gradini con un martello da falegname. Più in alto le condizioni erano un po’ migliori. Per farla breve: sono arrivato in cima, sono riuscito a scendere e sono diventato famoso in tutta Recoaro. Ma quella è rimasta la salita più pericolosa della mia vita».
Ci saranno in seguito gli impegni legati al servizio militare, terminati i quali diviene guida alpina: scelta fondamentale che asseconda la sua passione per i monti e nel contempo diviene fonte di sussistenza, accompagnata dalla conduzione di rifugi e – grazie al suo ingegno – dalla produzione artigianale di apprezzate paraffine per gli sci. E pazienza poi se i miasmi che esse inevitabilmente procurano dovranno essere sopportati dalla famiglia.
Ma anche la Sezione di Vicenza del CAI lo ha tenuto d’occhio, affidando a lui e al fratello Aldo il ruolo di capocordata nell’ambito della Scuola Vicentina di Roccia. Sono giorni che lo vedono specialmente nel già ricordato Baffelàn o sulla Sisilla, lungo itinerari che già presentano difficoltà di VI grado. Monti ai quali peraltro rimarrà profondamente legato, continuando a frequentarli sino a tarda età. Frattanto giunge il momento dell’incontro con le Dolomiti maggiori: così in quell’estate del 1929 che lo impegna a lungo con i suoi clienti nel Gruppo del Brenta e quindi in Lavaredo. A questo punto la vita di Gino assume un’accelerazione straordinaria su tanti fronti, compreso appunto quello dello sci, uno sport nel quale eccellerà, tanto da divenire uno dei migliori fondisti italiani di quegli anni, partecipando ai campionati di discesa libera, nonché alle Olimpiadi di Lake Placid, negli USA.
Finché la sorte non lo conduce al Sassolungo, attratto dal Gran Campanile, o Campanile Wessely. È il 13 luglio 1936 che lo vede, assieme al compagno di cordata Franco Bertoldi, ai piedi del diedro ovest di quel campanile lungo il quale arrampicano senza sosta per tutto il giorno, sinché un violento nubifragio li obbligherà alla ritirata. Né l’impegno dell’indomani sarà da meno, ma l’eccessiva presenza sulla montagna di ghiaccio e neve li convince che la sfida vada rimandata a tempi in cui la parete si dimostri più abbordabile. Appena due giorni di riposo ed eccoli ai piedi della Prima Torre del Sassopiatto che con i suoi 300 m e difficoltà di VI grado li coinvolgerà sino a tardi, tanto che il custode del rifugio Vicenza dovrà rassegnarsi ad aprir loro la porta addirittura all’una di notte. Quello stesso agosto, casualmente e dopo varie ascensioni, incontra Raffaelle Carlesso con il quale matura l’idea di ripetere assieme la Cassin-Ratti alla Ovest di Lavaredo, via aperta dall’alpinista lecchese giusto l’anno prima. L’ascensione, con protagonisti di tale livello, non poteva che aver successo, tuttavia pur nei toni cordiali in cui si svolse, ci ricorda quanto ciascuno aspirasse al ruolo di capocordata, sicché il problema si dovette risolvere salomonicamente tirando a sorte: un tiro di corda a me, l’altro a te, pur con scarso entusiasmo da parte di entrambi. E così via, sino alla cima.
Seguirà di lì a poco la ripetizione con Umberto Conforto della via Tissi sulla parete sud della Torre Venezia e quindi la salita della Nord del Sassolungo, un conto rimasto in sospeso almeno sino al 25 agosto quando, nuovamente in cordata con Bertoldi, risolve il problema in giornata. Le difficoltà rimangono di prim’ordine, tuttavia l’auspicata minor presenza di neve e ghiaccio consente loro di superare i passaggi in precedenza apparsi proibitivi.
Ma un progetto superbo è nell’aria: la salita della parete sud-ovest della Marmolada, un versante che da tempo affascina il fior fiore degli scalatori, a cominciare da Ettore Castiglioni che se ne era perdutamente invaghito, tuttavia senza successo nonostante i tentativi compiuti. Assieme a Conforto (Bertoldi ha purtroppo ormai esaurito il suo periodo di ferie) Gino si avvia perciò alla volta del rifugio Contrin. Fatalità vuole che lì, quella stessa sera, essi si accorgano della presenza di uno dei più forti alpinisti dell’epoca: Emilio Comici, arrivato con lo stesso programma. L’imbarazzo e la freddezza conseguenti sono palpabili, così come è chiaro che nessuno intende rinunciare.
A risolvere la questione ci penserà la furbizia di Gino nel chiedere al custode di svegliarlo alle tre, ossia un’ora prima di Emilio. È un margine esiguo, certamente, ma quanto basta a metter fuori causa il triestino che in seguito, osservando i contendenti nella prima fase dell’arrampicata, non potrà che prender atto, con intuibile dolorosa rassegnazione, della loro bravura. Aveva visto giusto, perché né la parete con le sue enormi difficoltà, né il tempo divenuto in seguito fortemente perturbato, sarebbero in realtà riusciti a domare i due, pur se a segnare l’ascensione saranno penosi bivacchi in posizioni del tutto impossibili. Così Gino alla fine sottolineerà la storica impresa: «Grido la mia gioia a Conforto che sale e si ricongiunge a me sulla vetta ormai nostra. Ora il vento può urlare, ma dai nostri cuori erompe la canzone più forte dell’uragano. Anche il freddo non può spegnere il calore sovrumano che ci esalta e ci rende felici».
Del 1938, il giorno 7 maggio, è il suo matrimonio con Maddalena Trevisan: un legame felice destinato a durare una vita, nel quale questa donna saprà confluire armonia e sostegno costante nel loro rapporto, accettando le frequenti inevitabili assenze che l’attività professionale del marito comportava, quanto seguendolo nei momenti difficili che il tempo non avrebbe loro risparmiato. Proseguono naturalmente a gran ritmo le sue scalate, tanto nelle Piccole Dolomiti come nel regno della Civetta o in Lavaredo, talora per conto proprio, più spesso accompagnando gli affezionati clienti che non smettono di cercarlo.
Frattanto sopravvengono anni assai dolorosi per l’Italia, segnati dall’entrata in guerra e dalla successiva caduta del fascismo, accompagnati da un’inquietante e massiccia presenza germanica alla quale seguiranno le prime organizzazioni di formazione partigiana. Pur in questo clima continua, finché possibile, l’attività di custode di rifugio da parte di Gino e Maddalena assieme a quella di guida alpina. Da rilevare, in tale contesto, la sua prima ripetizione, nel 1943, della via Bettella-Scalco sulla Sud-ovest dell’Antelao. Una via che la cordata padovana aveva aperto due anni prima incontrando condizioni atmosferiche proibitive che la ostacolò quasi dall’inizio, richiedendo quattro bivacchi, di cui uno alla base, e ora da Gino risolta in giornata.
Questa ripetizione egli l’aveva poi a lungo taciuta, spiegando quanto la stessa apparisse di poco conto in quel momento, viste le terribili traversie che il Paese stava vivendo a causa della guerra. Gli avvenimenti successivi gli fanno comprendere definitivamente come il fascismo sia distante dalla sua persona, accorgendosi di un regime interessato solo a un idealizzato Gino Soldà atleta, superuomo, non certamente all’uomo e ai suoi sentimenti. Analogamente, a ben guardare, a quanto era successo a un altro illustre collega, lo stesso Emilio Comici, la cui figura era stata pure fortemente strumentalizzata. Ed è in questo clima che matura in lui la decisione di entrare nella clandestinità e di partecipare senza indugi alla lotta di liberazione.
Sarà un’esperienza quanto mai dolorosa, naturalmente, che tuttavia ne metterà in luce il coraggio nelle numerose missioni alle quali parteciperà, oltretutto accompagnando in Svizzera, e quindi verso la salvezza, ebrei in fuga o alleati scappati dai campi di concentramento nazisti.
Gli anni che seguono la conclusione della guerra gli consentono finalmente di riprendere la sua attività di guida alpina e quindi la ripetizione di importanti vie, ma anche prime ascensioni tra Pale di San Martino, Molazza, Cadini di Misurina, Sella, Boè e Sassolungo, nonché di proseguire l’amata attività di maestro di sci. Si arriva così al 1954, l’anno in cui una spedizione alpinistica italiana, patrocinata dal CAI, si avvia con successo alla volta del K2, la montagna che con i suoi 8611 m sovrasta le altre cime del Karakorum. Anche Gino figura tra i convocati e avrà modo di vivere una indimenticabile esperienza, durante la quale avrà l’ennesima opportunità di dare prova della sua non comune forza muscolare e polmonare, messa instancabilmente e generosamente a servizio dell’impresa. Un impegno quanto mai gravoso, accompagnato purtroppo da coliche epatiche che talora lo faranno soffrire.
Il ritorno in patria lo vedrà di nuovo in giro per i suoi monti, quelli più prossimi quanto sulle Dolomiti maggiori. Impossibile poterle qui ricordare singolarmente, tuttavia tra le tante ascensioni è da segnalare la quarta ripetizione della via degli Scoiattoli alla Nord della Cima Ovest di Lavaredo, nell’estate del 1960. Sono sempre quei giorni a impegnarlo con il noto alpinista e cineasta bavarese Lothar Brandler nella bella avventura che documenta su pellicola tale scalata, in un film che per i suoi indubbi meriti vincerà al Filmfestival di Trento il premio “Mario Bello” del Club Alpino Italiano. Da tempo il cinema si stava interessando all’alpinismo, così era stato inevitabile per il regista (che con Direttissima per la prima volta portava la cinepresa su una parete di sesto grado) ricorrere a un nome prestigioso come quello di Gino. Il quale si destreggerà su quella muraglia con naturalezza e sicurezza tali da lasciare sbalorditi sia Brandler quanto il giovanissimo Wulf Scheffler che con i suoi 23 anni ricopriva il ruolo di capocordata. Uno stupore, il loro, del tutto comprensibile, ove si tenga conto che il vicentino contava allora 53 primavere.
Negli anni a seguire le Piccole Dolomiti continueranno a essere teatro delle sue imprese, non meno del Sella o il Catinaccio e – perché no? – la Gran Becca, sua maestà il Cervino, assecondando così anche gli occasionali desideri di clienti che gli propongono di recarsi nelle Occidentali. Compagni di scalata che spesso concludevano: «Di Gino posso dire che è sempre più difficile stargli dietro… » Così sarà poi, tra gli altri, per il Gran Paradiso, il Gran Combin e il Monte Bianco. Davvero nulla sembra poter fiaccare il desiderio di scoperta di montagne in quest’uomo frattanto divenuto, per raggiunto limite di età, guida emerita. Sfortunatamente il nuovo decennio – siamo frattanto nel 1971 – è segnato da un gravissimo incidente occorsogli sulla Pietra di Bismantova, nell’Appennino Reggiano, dove era stato invitato per un’arrampicata dimostrativa.

Fu questione di attimi: mentre egli stava afferrando un appiglio questo gli si era letteralmente sbriciolato tra le dita, facendogli compiere un volo frenato a stento dall’occasionale compagno. Prontamente soccorso, Gino era stato portato all’Ospedale di Castelnovo Monti dove però i medici temevano seriamente per la sua sorte. Era giunta quindi la fine? Macché, forse grazie al suo Angelo Custode che non si era distratto, o alle inesauribili risorse del vicentino, fatto sta che se la cavò. Va detto poi che se quel medesimo anno segna la cessazione della sua attività professionale di maestro di sci, lo vedrà invece ancora in azione in roccia, compiendo nel 1974 la prima ascensione dello spigolo nord-ovest del Baffelàn. Frattanto la passione per lo sci pare proprio destinata a non spegnersi, né le soddisfazioni che tale attività spesso comporta, visto che nel 1980 a Courmayeur, a 73 anni, vince il campionato mondiale veterani nella categoria over 70 di Slalom gigante. L’anno dopo ecco il titolo mondiale di Slalom gigante per le guide alpine, pure over 70 a Madonna di Campiglio e così nel 1982 a Piancavallo nella gara “veterani” over 70.

E l’ultima arrampicata? È di qualche anno precedente, assieme al figlio Manlio e a Giorgia, figlia di quest’ultimo. Manlio la ricorda così: «Papà aveva già 78 anni e io per la verità provavo una stretta al cuore per il suo faticare sul ghiaione. Ma quando appoggiò le mani sulla roccia ebbe una vera e propria metamorfosi rigenerativa: egli saliva accarezzandola con l’eleganza e la maestria che ha sempre distinto il suo stile; la sfiorava appena, sembrava molto più leggero e giovane di quando poco prima risaliva a fatica il ghiaione».
Uno stato di grazia, una condizione che sembra non abbandonarlo un minuto, tanto che l’11 aprile 1989 lui stesso annota: «La neve si è fatta desiderare eccessivamente ed io ho fatto solo un paio di sciate che, in compenso, ho potuto godere fino in fondo».
L’8 novembre di quel medesimo anno non lascerebbe perciò immaginare che qualcosa di particolare possa accadere nella sua casa a Recoaro: è mezzogiorno e la tavola è come al solito imbandita per il pranzo che avrà luogo di lì a poco. Invece d’un tratto, senza apparente motivo, Gino abbandona la cucina alla volta della camera da letto. Pochi istanti dopo Maddalena ode un rumore sordo che la mette in allarme: corre in camera e steso sul pavimento scorge il marito senza coscienza. Nulla purtroppo può fare il medico immediatamente arrivato: nonostante il tentativo di massaggio cardiaco, alle ore 12.15 egli può solo constatarne la morte.
Testimonianze continue di affetto e stima da ogni dove accompagneranno quei tristi giorni, da parte di chi lo conosceva e aveva voluto personalmente ricordare quanto egli sarebbe mancato a tutti. Un episodio in particolare colpì i familiari, per i rari toni di delicatezza che l’avevano contraddistinto. Proveniva da Walter Bonatti, lo scalatore che aveva incantato mezzo mondo, sceso apposta quel giorno dalla Valtellina. Si era prima recato nella camera ardente e quindi dai Soldà per esprimere il dolore personale per quell’addio. Lì aveva trovato la nipote Elisabetta alla quale, al momento di congedarsi, aveva consegnato un biglietto che ricordava l’affettuoso legame con il compagno della lontana avventura sul K2. Venutane poi a conoscenza, ciò non aveva mancato di commuovere profondamente Maddalena. Non meno della nipote stessa: «Fu un gesto di riguardo che mi colpì e per il quale pensai che davvero era stato una persona speciale».
E Gino, che a sua volta si era formato a misura e somiglianza delle sue montagne, quasi in un processo di osmosi, era un uomo che tali gesti di stima e amicizia se li era meritati ampiamente. Giorno dopo giorno, nel lungo e instancabile peregrinare per cime ammalianti, accompagnato dal suo passo svelto e dall’umanità profonda che gli traspariva costantemente dagli occhi allegri. Davvero il tempo non lo aveva cambiato: era lo sguardo di sempre, lo stesso del suo primo incontro con la montagna.
Approfondimenti
Aurelio Garobbio, Uomini del Sesto grado, Baldini & Castoldi, Milano, 1959;
Stefano Ardito, Incontri ad alta quota, Dall’Oglio, Milano, 1988;
Giulio Ardinghi, Gino Soldà, un uomo, Arti Grafiche Urbani, Sandrigo, 2005;
Tommaso Magalotti, Gino Soldà, dalle Piccole Dolomiti al K2, Nuovi Sentieri, Belluno, 2011.
L’autore ringrazia Bepi Pellebrinon per aver consentito l’utilizzo delle presenti fotografie, tratte dal volume di Tommaso Magalotti Gino Soldà, dalle Piccole Dolomiti al K2, edito da Nuovi Sentieri.
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Ciao Fabio. Sì, la via alla Croda dei Toni è stata effettivamente aperta da Alziro Molin con quell’Andrea Pandolfo che poi aprì la via “Doretta”. In quell’occasione Andrea era giovanissimo e con Alziro aveva un rapporto guida / cliente.
Qualche anno dopo aprì assieme a me la prima via sulla sud del Sass Maor, a quel tempo ancora inviolata. Pensavamo che ci sarebbe toccata parecchia arrampicata artificiale, per cui portammo molta attrezzatura con noi. L’accordo era che Andrea avrebbe fatto l’artificiale (più bravo di me con i chiodi ), io la libera. Invece la via fu risolta solo in libera con pochissimi chiodi, con un tratto di VI.
——— DOMANDA AD ANTONIO BERNARD ———
Caro Antonio, io sono di Castelfranco Emilia (MO) e, temporibus illis, frequentai il Corso Roccia del CAI Modena. Perciò mossi i primi passi di arrampicata alla Pietra di Bismantova e cosí ho conosciuto di fama sia te che il tuo concittadino Andrea Pandolfo.
La guida Dolomiti Orientali. Vol. 1°. Parte 2a di Antonio Berti, 1973, alla p. 284 riporta la seguente via: Croda dei Toni, parete N, via diretta all’anticima NO, di A. Molin, R. Corte Coi, A. Pandolfo, 21-23.7.1968.
Ti domando gentilmente:
1) “A. Pandolfo” è quell’Andrea Pandolfo che aprí la via Doretta e la via CAI Parma a Bismantova?
2) “A. Molin” dovrebbe essere Alziro Molin. È cosí?
3) Esistono altre vie aperte da Pandolfo sulle Dolomiti Orientali e, in generale, sulle Alpi?
Grazie per la risposta.
… … …
Ricordo che due o tre anni fa Alessandro (Gogna) scrisse nel GognaBlog che, per chiarezza, sarebbe bene pubblicare nome e cognome per intero, senza abbreviazioni. Purtroppo nella guida Berti cosí non è stato.
Ho conosciuto (ma come si vedrà, non l’avevo riconosciuto) tanti anni fa Soldà al rifugio Re Alberto, sotto le Torri del Vajolet, dove con mio fratello Salvatore avevamo fatto una breve scalata. Più o meno siamo al 1962/63, ed ero molto appassionato alla Storia dell’Alpinismo. Discorremmo e quell’uomo semplice e perfettamente modesto mi diceva di alcune prima salite che aveva fatto decenni prima, tra cui una molto difficile in Marmolada. Sfacciatamente (non avevo 18 anni) gli chiesi: “Scusi, lei come si chiama?” Mi sorrise in silenzio, e, a voce bassa, mi disse: “Soldà” stringendomi la mano. Così feci la conoscenza di quel leggendario alpinista. Approfitto dello spazio per salutare il carissimo Antonio Bernard, conoscitore insuperabile del Catinaccio (sul quale ha scritto una fondamentale Guida), fortissimo dolomitista, col quale ho fatto alcune splendide classiche dei Monti Pallidi
renzo Bragantini
Gino Soldà, un homme, vrai.
Davvero un bel ritratto!
Da questo e altri racconti di storia dell’alpinismo, deduco che i costi da sostenere per il corso guide dovevano essere inferiori a quelli attuali.
All’articolo vorrei aggiungere un particolare poco noto. A proposito del suo incidente a Bismantova posso aggiungere che il “compagno occasionale” ero io, allora molto giovane. Ci andò veramente di lusso ad essere vivi, poiché Gino era sopra di me una quindicina di metri quando cadde ( era leggermente fuori via). Allora usava ancora l’assicurazione a spalla, e non c’era nessun chiodo intermedio. Io fui sbalzato fuori dalla sosta, ma pur appeso io stesso riuscii a frenare la corda ( con due fratture alla mano ed altrettante alle costole). A tenerci entrambi fu un unico chiodino minuscolo alla sosta ( non uno spit come usa oggi). In qualche modo riuscii a calarlo all’ambulanza che attendeva alla base. In effetti all’ospedale temettero veramente per la vita di Gino.
Andrea, fatta anche io durante un ‘uscita del nostra corso roccia.
Grazie ai due Marcelli per i ricordi #1 e la vita(Mason) di G.Solda’un alpinista ma soprattutto un Uomo Maiuscolo da trarre da esempio.
@Alberto
Nel mio piccolo io mi accontento di avere ripetuto la “Soldà” al Baffelan 🙂
Di Gino Soldà ho repetuto la sua grande via sulla nord del Sassolungo. Una via dal sapore di grande alpinismo, su una parete grandiosa e selvaggia.
Bell’articolo, commovente. Mi ha reso partecipe dell’amore per la montagna che ha avuto.
Ho un ricordo di metà anni ’80 alla gara di sci delle guide alpine in quel di Cortina presso il rifugio Son Forca al Cristallo.
Gino Soldà, Bruno Detassis e Lino Lacedelli che commentano allegramente la caduta di Beniamino Franceschi durante la gara…