Giovannino Massari – Questione di stile – 2 (2-2)
a cura di Fulvio Scotto
(già pubblicato sull’Annuario dell’Accademico 2017-2018)
Lettura: spessore-weight(2), impegno-effort(1), disimpegno-entertainment(3)
Solo sulla Diamond BAC Val Corsaglia, febbraio 1991
di Giovannino Massari
Dal 1990 al 1992 ho arrampicato per due intense stagioni su ghiaccio, correndo su e giù durante due inverni particolarmente propizi, almeno tre o quattro volte a settimana, per le valli monregalesi, cuneesi e torinesi. Di seguito il racconto di una di quelle avventurose giornate…
Inverno freddo e attività, come sempre, incontrollatamente intensa… Sto collezionando un gran numero di salite: ieri ho scalato una bella cascata in valle Varaita con il mio gruppo di amici e stamattina, non pago, in un nuvoloso lunedì di febbraio, sono pronto per una nuova avventura su ghiaccio nel modo che preferisco: senza compromessi, in solitaria integrale.
Le temperature sono ancora basse e opto per un’uscita nelle valli cuneesi più meridionali. La scelta cade su Diamond BAC, una ripida e sinuosa goulotte in valle Corsaglia aperta dal forte Sergio Rossi e compagni e per ora irripetuta.
Le salite su ghiaccio delle nostre vallate così vicine al mare non sono certo di quelle che fanno la storia dell’alpinismo ma, pur sconosciute, risultano spesso assai impegnative anche su pendenze non estreme per la dubbia qualità del ghiaccio che, sotto l’influsso dell’aria di mare, rende il gioco delicato e aleatorio. Mi alzo senza fretta e senza orari, questo è il privilegio di arrampicare da soli. Guidando con calma percorro la val Corsaglia in una mattinata grigia in cui, come sospesi nell’aria umida, volteggiano i primi fiocchi di un’imminente nevicata.
La cornice della valle è quella di un marcato isolamento e risulta quasi spettrale sormontata com’è da quel cielo grigiastro con le borgate, una volta brulicanti dell’operosa attività dei montanari, ora vuote, desolate. Sembrano prive di ogni residua forma di vita e mi incutono, ancor di più, un malinconico senso di solitudine.
Mi fermo in uno spiazzo deserto sotto il paese di Fontane, giusto al bivio per la Stalla Rossa: a causa delle recenti copiose nevicate l’avvicinamento di oggi lo dovrò fare giocoforza con gli sci, che non so usare né in salita né tantomeno in discesa, vedrò di arrangiarmi…
Anche se so che quella di oggi sarà una salita piuttosto impegnativa ho deciso lo stesso di percorrerla interamente slegato; la tensione si fa sentire e, per un attimo, quasi spero che la cascata non ci sia…
Sono però ben motivato e pur sapendo che in queste valli dimenticate le salite non fanno certo “curriculum”, dall’altro lato ho la certezza che qui sarò veramente solo e dovrò contare, anche per il minimo problema, sulle mie sole forze vivendo così un’avventura ben più intensa che in zone più frequentate e conosciute.
Sempre di più mi rendo conto che, dopo i primi anni di arrampicate nei quali nutrivo anche il desiderio di mostrare agli altri quanto potessi valere, ora prevale nettamente la sfida con me stesso e solo nella preparazione e nello svolgersi dell’azione vera e propria trovo il fulcro della mia attività: per questo dopo una salita mi fermo il minimo indispensabile a progettarne ed eseguirne un’altra il più rapidamente possibile, nel continuo tentativo di dimostrarmi che “basto” a me stesso.
Durante l’avvicinamento oltrepasso un paio di facili cascate ghiacciate, abbondantemente innevate e mi accorgo che il ghiaccio è gonfio e azzurro, segno evidente di buone condizioni: sarà formato anche il mio itinerario, del quale ho solo minime informazioni.
Dopo circa un’ora che arranco con gli sci nella neve alta giungo in vista del mio obiettivo: la cascata è perfetta e si erge azzurra, verticale e senza interruzioni per oltre un centinaio di metri. Mi fermo a studiarne i punti deboli e già immagino le sezioni che mi daranno maggior filo da torcere.
Mi piacciono questi momenti del tutto intimi in cui progetto l’azione che dovrà svolgersi pochi istanti dopo e mi piace pregustare l’ignoto cui vado incontro in quella strana miscellanea di paura, tensione e consapevolezza dei miei mezzi: è un po’ come se ogni salita fosse un esame all’università e io fossi lì, parlando con me stesso, a ripetermi la lezione!
Giovannino Massari, Falesia di Bagnasco
Imbocco il sentiero che conduce al bivacco F. Cavarero e, in corrispondenza della cascata che ora mi si para di fronte in tutta la sua grandezza, attraverso un ruscello e, poco dopo, deposito gli sci alla base del grosso conoide della slavina staccatasi da non molto dalla cima della ripida goulotte che intendo salire. Ora nevica copiosamente e la tormenta mi avvolge mentre, ramponi ai piedi e piccozze nelle mani, salgo gli ultimi metri di neve prima di avvinghiarmi al ghiaccio.
L’arrampicata, fin da subito continua e verticale, non consente errori, e progredisco guardingo pulendo accuratamente la superficie del ghiaccio, crostoso a causa del rigelo, per cercare ancoraggi sicuri con le piccozze.
Salgo concentrato il ripido scivolo roccioso grazie allo spesso ghiaccio che lo incrosta mentre intorno a me quasi non mi accorgo che infuria una nevicata che mi avvolge sempre più e mi lascia soltanto la visibilità di quei pochi metri in cui, come in un microcosmo fisico ma anche mentale, esisto solo io con il mio respiro un po’ affannato e il rumore secco e ritmico degli attrezzi che si alternano sulla superficie ghiacciata.
La mente e il corpo si dividono, distanti ma ben coordinati. Trascorrono minuti senza tempo che potrebbero essere ore come secondi e la nevicata si interrompe: tutto si schiarisce, guardo tra le gambe e vedo, ormai piccola sotto di me, la base della cascata e il gran vuoto sul ripido scivolo di ghiaccio che sto percorrendo.
Con una percezione sensoriale aumentata ma una dimensione temporale del tutto parziale sono già salito quasi in trance nella bufera un centinaio di metri e, proprio sopra di me, sottile tra le rocce, mi attende il tratto più etereo e verticale della salita.
Un drappeggio azzurro, sospeso nell’anfiteatro roccioso, scende alla mia destra in piena esposizione e il ghiaccio morbido mi invita a salire, faccio un timido tentativo ma la consistenza della colata, fragile e stalattitica, mi fa desistere; dovrò salire giocoforza la sottile goulotte tra le rocce sperando di trovare materiale ghiacciato a sufficienza per poter progredire.
La attacco senza esitazione, l’esposizione è totale, vedo ancora una volta tra le punte dei ramponi i miei sci che mi aspettano lontani, giù in basso, ma è solo un attimo, la concentrazione prende il sopravvento e mi immergo nell’azione. Salgo con delicatezza, sono stretto tra le pareti rocciose su una fragile bava gelata verticale incastonata nella roccia, larga non più di 40 cm e spessa neanche una spanna, sono slegato ma mi rendo conto che anche arrampicando in cordata la protezione sarebbe stata precaria; per fortuna il ghiaccio tiene e il tratto è lungo soltanto una decina di metri. Tiro fuori tutta la tecnica accumulata in anni di solitarie: calma, decisione, soprattutto movimenti misurati senza picchiare troppo forte sul ghiaccio esile… quasi senza rendermene conto sono fuori dalle difficoltà: mi invade un’onda di calore e la mente sussurra al corpo: “non puoi più sbagliare!”
Ora la goulotte prosegue per una trentina di metri sempre più coricata per perdersi nel bosco, all’inizio della parete rocciosa. Percorro, leggero come gli esili fiocchi di neve che mi turbinano intorno, l’ultima parte di ghiaccio morbido e bagnato ormai certo che il peggio è passato, senza però aver fatto i conti con la discesa: mi aspetta un bosco ripidissimo con neve alta fino alla vita, una situazione che si prospetta temibile vista la mia abilità poco più che nulla nello sci.
Quasi nuotando con la neve fino alla cintura compio un lungo semicerchio a destra della struttura e faticosamente nel ripido pendio, aggrappandomi da un albero all’altro come fossi Tarzan, raggiungo gli sci alla base della cascata.
È pomeriggio inoltrato e ricomincia lenta e con grossi fiocchi la nevicata, si è esaurita dentro di me la fremente attesa dell’ascensione e il pensiero torna alla vita quotidiana, ai suoi impegni e ai volti che la alimentano; ancora una volta sono riuscito nel mio intento e domani tornerò ai soliti compiti con la testa già rivolta alla prossima salita; quella di oggi sarà incasellata nei ricordi pronta a tornare alla mente come se fosse un disco caricato in un jukebox che suona la nostra musica preferita quando serve per darci quell’attimo di carica in più.
Ora però devo pensare a scendere e la situazione si presenta subito tragicomica, sono incapace di sciare e la neve è fresca e pesante: tra brevi discese e numerose cadute raggiungo lo stradino e finalmente posso lasciar “correre” gli sci, naturalmente senza aver tolto le pelli!
All’imbrunire sono all’auto e, piuttosto demolito dalla giornata, mi abbandono al tranquillo ritorno alla guida godendomi il tepore del riscaldamento.
Pian piano i muscoli si raffreddano e prende il sopravvento una dolce sensazione di stanchezza, è un momento piacevole nel quale ripenso alla giornata di oggi con la malinconia di un giorno ormai passato ma anche di un nuovo piccolo progetto realizzato in questa foga, che sento inestinguibile, di inseguire quello che forse non saprò mai definire ma che mi fa continuare a voler vivere.
È giunta ormai la sera e sono a casa per cenare, nella tranquilla quiete familiare, con i miei genitori ancora una volta ignari di quello che ho combinato davvero oggi nella mia piccola avventura alpina; racconto ben poco della mia gita ma a loro, a differenza del mio inquieto procedere tra ghiacci e rocce, basta vedermi soddisfatto e felice per placare ogni curiosità.
Le disperate 24h non-stop di Giova, ragazzo androide
Goulotte Grassi-Tessera al Monte Ferra (Valle Varaita), 15 dicembre 1991
di Giovannino Massari
II periodo delle mie arrampicate su ghiaccio era iniziato quello stesso anno nel mese di gennaio dopo un fastidioso ricovero ospedaliero che mi aveva lasciato indebolito ma non del tutto demotivato e anzi desideroso di recuperare, non pago di nuove sfide con la gravità e con me stesso.
La passione per questa nuova e stimolante attività mi aveva immediatamente travolto, tanto da convincermi a praticarla appena possibile, con la mia personalissima nevrotica e totalizzante dedizione.
Con numerose e già impegnative salite alle spalle nei mesi di gennaio e febbraio e dopo un’estate di arrampicate su roccia, mi sentivo ragionevolmente pronto per una nuova e più intensa stagione.
Avevo già salito alcune cascate di allenamento e ora mi sentivo in grado di cimentarmi su itinerari più seri e remunerativi. Mio compagno e mentore nelle ascensioni su ghiaccio e non solo era Angelo Siri, un amico fraterno che, sempre alle ricerca del nuovo e del bello, mi aveva proposto di ripetere la goulotte Grassi-Tessera al Monte Ferra, itinerario all’epoca ancora poco conosciuto e del quale non esisteva che una scarna relazione dei primi salitori. L’avevano definita un lungo couloir ghiacciato degno delle migliori classiche del gruppo del monte Bianco, costituito com’era da un nastro gelato praticamente ininterrotto e verticale, proprio al centro di una bella parete nord, con una logica uscita in punta a un’elegante cima alpina.
Angelo, già esperto e collaudato ghiacciatore, era molto motivato per la ripetizione di questo itinerario allora poco frequentato la cui prima salita risaliva al marzo del 1983.
lo, nonostante fossi allora in trattamento emodialitico trisettimanale, mi sentivo fisicamente e psicologicamente in buone condizioni e non avevo certo intenzione di tirarmi indietro.
Ho sempre cercato, e devo dire spesso riuscendoci, di minimizzare queste mie difficoltà sopperendo alle ovvie problematiche fisiche legate alla patologia con una passione e una motivazione quasi maniacali, ritrovando poi nella vita quotidiana un insperato quanto reale benessere direttamente derivante dalla mia quotidiana attività sportiva e alpinistica, una sorta di inconscio “do ut des” generatore di una benefica forma di resilienza.
Organizzammo così la salita per un mercoledì di dicembre, giornata abituale per le nostre uscite infrasettimanali, con partenza alle 3.30 dalla stazione ferroviaria di Mondovì; orario certo antidiluviano ma necessario per compiere la salita con un buon margine di ore di luce nelle corte giornate di metà dicembre.
Partimmo da Mondovì a bordo del mio mezzo d’allora, un fuoristrada Jeep Cherokee che avevo trasformato in una specie di casetta viaggiante con tutti i confort e con il quale scorrazzavo in lungo e in largo sulle montagne piemontesi senza curarmi troppo delle regole. Percepivamo la notte come particolarmente gelida mentre ci dirigevamo senza tentennamenti verso la Valle Varaita. Giunti a Casteldelfìno, facendo sosta per una breve colazione, notammo che, nonostante fossimo ancora relativamente in basso, la temperatura toccava i -17°C.
Eravamo abituati al freddo delle ascensioni invernali ma la giornata si prospettava davvero glaciale, tanto che decidemmo per uno stile non-stop “dall’auto all’auto”, fermandoci il meno possibile e con il minimo indispensabile di materiale, per essere più leggeri e veloci.
Partiti di buon passo salimmo, a lungo ma agevolmente, al colle, facilitati dall’assenza di neve, quindi, indossata l’attrezzatura, ci dirigemmo a sinistra, traversando in discesa sul lato esposto a nord verso l’attacco della goulotte, sprofondando però faticosamente, dato l’abbondante innevamento di questo versante.
Fino a quel momento ci eravamo scambiati ben poche parole, intontiti dal sonno e dal riscaldamento dell’auto durante il viaggio e intenti, come in un consueto rito scaramantico, a discutere i dettagli tecnici della salita e a preparare il materiale della cordata e personale prima e a sbuffare e faticare salendo il lungo sentiero di accesso alla parete poi.
Come lontani pianeti che ruotano su orbite parallele avvicinandosi senza incontrarsi mai proseguimmo nell’avvicinamento, ciascuno assorto in indecifrabili quesiti personali che si affacciavano alla mente senza la minima connessione con ciò che stavamo facendo. Eravamo come sopraffatti da quell’oscuro timore reverenziale verso l’ignoto che si scopre ancor più evidente al cospetto della soverchiante maestosità della montagna invernale. Era come se apparisse del tutto naturale e doveroso provare un momento di intimo e totale raccoglimento di fronte a quella immensa cattedrale naturale: aspra, severa, apparentemente immutabile.
Una volta riuniti all’attacco però il passaggio all’azione vera e propria diradò rapidamente gli oscuri fantasmi della mente. Ritornò rapido l’affiatamento della cordata e ricomparvero Angelo e Giova, nient’altro che due amici, che possono contare uno sull’altro uniti da quel sottile legame, fisico ma anche ideale, che è la corda di sicurezza; e tra una battuta e una considerazione sulla salita fummo pronti a partire.
La giornata era davvero polare con temperature intorno ai -25°C. Il ghiaccio sembrava pietrificato e la parete di oltre 300 m si ergeva severa sopra di noi avvolta in un silenzio surreale, perfettamente ammantata di ghiaccio e animata soltanto da qualche breve crepitio e distacco spontaneo di materiale ghiacciato. Finalmente si parte.
Ci leghiamo, controlliamo il materiale e gli ultimi particolari. Sale davanti Angelo ma dopo pochi metri, forse per il gran freddo, perde un rampone che gli resta attaccato alla caviglia per il lacciolo di sicurezza. Per fortuna si sostiene sulle piccozze senza cadere e l’incidente si risolve in un niente di drammatico. Angelo, con grande sangue freddo, sistema il rampone da quella precaria posizione e in breve tempo raggiunge la prima sosta “spiccozzando” duramente su ghiaccio ottimo ma molto compatto.
Il ghiaccio è sovente sottile e lascia intravvedere sotto di sé la liscia e scura superficie rocciosa. L’arrampicata non è mai troppo difficile ma a volte insidiosa. L’intensa concentrazione lascia spazio alle divagazioni di una mente che, in perfetta e simbiotica iperattività con il corpo, viene attraversata febbrilmente da una miriade di fitti pensieri.
Mentre salgo i tiri che mi toccano da capocordata, sento Angelo che, dalla sosta, bofonchia lamentando il fatto che non metto protezioni. Avrà anche ragione, penso mentre salgo, ma è più forte di me. Non mi basta salire la via, voglio e devo anche competere con me stesso, cercando di vincere l’ulteriore sfida di utilizzare meno materiale possibile alla ricerca di un rapporto più leale e meno mediato da strumenti artificiali con la montagna.
Arrampicare per me non è solo diporto ma assomiglia più a un viaggio fuori dalla realtà: mi osservo severamente dall’esterno e continuo a ogni passo a mettermi alla prova per autoaffermare dentro di me e anche di fronte agli altri che esisto e che voglio continuare a esistere. Comunque la salita procede rapida e in perfetta armonia e, dopo questo splendido viaggio nel cuore della parete selvaggia, raggiungiamo la vetta nelle prime ore del pomeriggio. Un abbraccio e una stretta di mano e siamo investiti da un pallido sole invernale piacevolmente tiepido che ci accarezza; lascio che mi lambisca dolcemente il viso dal momento che oggi di tepore ne ha sentito ben poco.
Mi siedo e socchiudo gli occhi a quella luce accecante. Dopo qualche secondo che pare eterno li riapro lentamente e scopro che l’ombra ci ha già raggiunto mentre gli ultimi raggi illuminano il cielo oltre l’orizzonte. È già ora di scendere. I bei momenti sono attimi fugaci come fiamme di cerini e ormai sono specializzato, per necessità, a coglierli e a goderne senza farmi troppe domande. Ma so anche che non sono qui per caso e anzi sono attimi, questi, voluti e fortemente cercati, con alle spalle dedizione e disciplina uniti alla ricerca di obiettivi reali e per questo ancor più appaganti.
Riordiniamo rapidamente corde e materiale quindi iniziamo la lunga discesa ripida e diretta per circa 1300 m di dislivello. Procediamo giù per ripidi pendii, prima su neve e poi su durissime zolle ghiacciate sempre con i ramponi ai piedi, torturandoci non poco le gambe e giungendo all’auto dopo un paio d’ore di marcia. Sono trascorse 9 ore dalla nostra partenza e, nonostante la soddisfazione e l’entusiasmo per la perfetta riuscita della salita, mi sento piuttosto provato.
Siamo al termine della discesa, ormai al buio, e cado ripetutamente sulla strada ghiacciata, ormai a pochi metri dall’auto, come un burattino senza fili mentre percepisco chiaramente che i muscoli cominciano a essere un po’ troppo intossicati dallo sforzo; non me ne curo troppo, anzi ci rido sopra con Angelo che sorride a sua volta facendo finta di non preoccuparsi…
Riflettendo, in fondo mi sento pienamente appagato dalla giornata e dalla salita ben sapendo che domattina, con un’accurata e ripetuta “filtrata” del mio sangue, tornerò quasi nuovo. Arrivati all’auto troviamo una “magnifica” sorpresa: il gasolio nel serbatoio è congelato e la jeep, pur avviandosi, procede a sussulti e provoca il nostro sconcerto ma anche la nostra ilarità e una serie di battute legate al potenziale uso improprio di quei sussulti in compagnia femminile.
Ci fermiamo a un bar per un ultimo spuntino, dato che per essere leggeri durante la salita non avevamo con noi quasi nulla da mangiare. Confrontiamo a caldo impressioni ed emozioni e progettiamo nuove scalate.
Sento dentro di me salire ancora la consapevolezza di quanto sia paradossalmente soddisfatto di come vivo giornate come questa sentendomi ancora padrone del mio tempo. Giornate che, nel corso dell’inverno, ripeterò molte volte e spesso proprio in compagnia di Angelo.
Il ritorno in auto scorre lento ma sembra piacevolmente veloce, proprio come quello che si trascorre con le migliori compagnie e che vorresti non finisse mai, tra discorsi sulla vita e confidenze tra amici rese ancora più complici dall’aver vissuto insieme una bella avventura.
Ci salutiamo alla stazione di Mondovì dove tutto era iniziato quella stessa mattina e ritornato a casa ricevo i rimproveri dei miei, visibilmente preoccupati per la mia salute, mentre percepisco che, passato lo spavento, vorrebbero solo abbracciarmi. Ma la mia giornata non è finita.
In questo periodo della mia vita sento che posso solo correre e vivere ogni momento che mi viene offerto come se il mio orizzonte fosse rappresentato soltanto da quel momento stesso.
Con un corpo piacevolmente dolorante dopo una doccia rovente, senza dimenticare di indossare il mio fasciante completo di Armani e qualche goccia di Eau de Givenchy, mi trascino ancora per la serata in birreria con l’amico Ron, appassionato anche lui di montagna e mio compagno di molte salite.
È bello confrontarsi e condividere passioni ed esperienze con chi ci è caro anche se, nonostante le nostre migliori intenzioni, le trappole dell’incomunicabilità sono sempre dietro l’angolo…
Raggiungiamo insieme la birreria “Le Baladin” a Piozzo, meta abituale delle nostre serate. Mentre gli racconto la mia giornata, i pensieri, le emozioni, i momenti difficili e le grandi fatiche legate alla scalata, lui accenna un malinconico sorriso e scuote bonariamente il capo assentendo stancamente.
Sento che, come stranieri ma della stessa terra, parliamo lingue diverse e non riusciamo a comprenderci. Probabilmente crede che nella mia situazione ci si dovrebbe comportare diversamente.
Ron è un amico ma, forse, prevale nei miei confronti quell’odioso senso di pena, peraltro perfettamente comprensibile, che spesso leggo negli sguardi altrui. Può sembrare comprensibile ma certo poco condivisibile come strumentalizzo le mie arrampicate per sentirmi vivo a chi vive una vita senza particolari problematiche se non quelle degli incessanti ritmi della quotidianità.
Questa lunga giornata, ormai diventata notte fonda, volge infine al termine; mi godo, in un corpo ridotto ormai a un involucro dalle membra intorpidite e, finalmente, con un cervello evaporato come acqua al sole, una meritata birra, la musica dal vivo, la piacevole e variegata compagnia. Anche oggi ho avuto il privilegio e insieme la necessità di poter vivere un’incredibile giornata come un normale ragazzo della mia età.
Tornato a casa crollo finalmente in un sonno plumbeo e senza sogni, poche ore e sarò nuovamente un androide per forza di cose attaccato a quei benedetti-maledetti tubi, a ricevere nuova energia per proseguire la mia incessante corsa.
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Ciao Marcello, la rolls faceva parte del progetto messo su dall’indimenticato Vincenzo Pasquali e da Aldo Audisio a cui avevo più che volentieri aderito.
un abbraccio
Ecco, questo video è un po’ come quelle diapositive che dicevo… Apritore di menti.
LA Rolls Royce te l’aveva prestata Cecu il carrozziere?
A proposito di “Giova ragazzo androide”, suggerisco la visione:
https://www.youtube.com/watch?v=O2TchPZpNow