L’alpinismo di Boccalatte
di Massimo Mila
(pubblicato su Scandere 1979)
(Accanto alle citazioni dal testo originale di Gabriele Boccalatte sono riportati i numeri di pagina corrispondenti: il primo si riferisce all’edizione originale del 1939, il secondo all’edizione Vivalda 1992. Quest’ultima è stata parzialmente ridotta, con l’eliminazione di alcuni appunti secondari e del capitolo relativo alla spedizione nelle Ande del 1934)
Lettura: spessore-weight(2), impegno-effort(2), disimpegno-entertainment(2)
Nel 1925 l’ambiente alpinistico torinese registrò con compiacimento l’apparizione d’una cordata di giovanissimi, che con rapida disinvoltura si portarono a casa due salite che per quei tempi costituivano le colonne d’Ercole della difficoltà su roccia: Requin e Grépon. Ma l’anno dopo il compiacimento si mutò in sensazione e quasi sbalordimento quando i tre ragazzi uscirono dal seminato e dal massimo delle difficoltà allora padroneggiate dai migliori (Dames Anglaises, punte Castelnuovo e Casati) passarono all’inedito, ripetendo itinerari che parevano prerogativa di leggendarie guide straniere: Nord del Dente del Gigante e fessura Dunod al Grépon, per la prima volta senza lancio di corda.
La sollecita ammissione di Gabriele Boccalatte, Guido De Rege e Michele Rivero nel gruppo occidentale del CAAI mutò lo standard dell’alpinismo piemontese, e anche alpinisti molto più anziani di loro, che avrebbero continuato a sviluppare una gloriosa attività, furono automaticamente trasportati su un livello più alto: le frontiere dell’impossibile si allontanavano un poco e diventarono a portata di mano imprese che, fino allora, sembravano il regno della luna.
Il brillante terzetto giovanile si ruppe nel 1927 quando Boccalatte fu fermato dal servizio militare (avrebbe compiuto vent’anni il 1° dicembre). La cronologia delle salite di Boccalatte in quegli anni non è chiarissima, e qualcuno dovrebbe adoperarsi per stabilirla. Ci fu certamente una traversata dei Rochefort raggiungendo il Dôme per la cresta sud (prima senza guide) e ci fu, pare, un Bianco per la cresta di Peuterey. Una Est del Grépon con Ettore Parmeggiani nel 1929; il Cervino invernale il 18 marzo 1929 (il Cervino d’inverno gli divenne poi quasi un’abitudine, o per lo meno un rito periodico: ci ritornò il 2 febbraio 1932 con Giusto Gervasutti e De Rege, e il 14 marzo del 1938, ultimo anno di sua vita). Del ’30 è la prima salita del Couloir du Diable al Mont Blanc du Tacul, con Renato Chabod, Piero Ghiglione e Guido Antoldi, e la prima traversata completa delle Aiguilles Rouges du Brouillard, con prima ascensione della terza e della quinta, in compagnia di Chabod e Gaetano Polvara. Nuovi compagni, spesso pescati nel vivaio giovanile della SARI, dove Boccalatte, De Rege, Rivero e C. facevano funzione d’istruttori in un tempo in cui non esistevano ancora vere e proprie scuole di roccia. Nuovi compagni finché nell’estate del 1932 non incontrò «il» compagno definitivo, ossia la compagna delle sue future imprese e, dal 1936, della vita, nell’eccezionale alpinista Ninì Pietrasanta. Chabod ha raccontato piacevolmente, nel suo libro di ricordi La Cima di Entrelor, come fiorì quell’idillio e come ebbe inizio quel legame, sanzionato per allora dalla conquista e battesimo della Pointe Ninì, nella frastagliata catena delle Périades. Il catalogo delle sue ascensioni, esteso a poco a poco a tutto l’arco delle Alpi con frequenti puntate nelle Dolomiti, si arricchisce nel 1934 della partecipazione alla spedizione andina del CAI di Torino con la conquista, per parte sua, del Nevado de los Leones 6275 m. La cronologia diventa sicura a partire dal 1932, quando cominciano gli appunti di quel suo Diario alpinistico, pubblicato postumo dalla vedova, col titolo Piccole e grandi ore alpine.
Che tipo di alpinista fu Gabriele Boccalatte?
È noto che, figlio di artisti (pittori), fu artista lui stesso: musicista. Diplomato brillantemente in pianoforte nel Conservatorio di Torino alla scuola di Federico Bufaletti, per il quale nutriva quella devota venerazione comune a tutti gli allievi di quel misterioso e carismatico maestro, si accingeva a iniziare la carriera di concertista quando la fatale frana di sassi lo travolse sulla parete sud dell’Aiguille de Triolet, insieme con Mario Piolti, il 24 agosto 1938.
Chi gli fu molto vicino, come De Rege, assicura che le due passioni – montagna e musica – si univano in lui strettamente e si alimentavano l’una con l’altra. Ne rimane traccia nel necrologio che «i compagni di cordata» stesero per la Rivista Mensile del 1938/39, raccogliendo, tra l’altro, l’elenco per ora più attendibile delle sue ascensioni principali. Ma per chi non gli fosse molto intimo, non appariva nulla di tutto ciò. Anche nel suo Diario di montagna non si va al di là d’una sensibilità paesistica molto aperta alle bellezze della Natura. Soltanto una volta, salvo errore, il musicista salta fuori in una definizione di «paesaggio wagneriano» per le Dolomiti di San Martino di Castrozza. Altrimenti le notazioni paesistiche (uniche evasioni dall’asciutta sobrietà della cronaca di fatti, a parte due toccanti riflessioni sulla propria responsabilità verso l’amata compagna di pericoli estremi) non mescolano la musica alla specifica sensibilità per la bellezza e la varietà inesauribile della natura alpina.
Con i normali compagni d’alpinismo Boccalatte nascondeva la sua qualità di artista. Il suo comportamento era sempre scherzoso e, per così dire, umoristico, governato da quel «carattere modesto e schivo», da quella «pudicizia nel palesare, anche con gli intimi, il proprio pensiero», a cui fa riferimento Ninì Pietrasanta nella prefazione al libro.
Il versante nord-est del Mont Blanc du Tacul
Quel temperamento artistico che Gabriele celava gelosamente nella vita privata, si manifestava invece nella sua azione alpinistica. La legge che governa le sue salite è una sola, il bello. Amava tanto la roccia che il ghiaccio, certamente più quella che questo, le Alpi Occidentali come le Dolomiti, le vie nuove come le ripetizioni, spesso più fastidiosamente impegnative perché implicano un pericoloso confronto con chi è già riuscito sulle medesime difficoltà. Ma né la via nuova gli importava veramente in quanto tale, né la ripetizione importante, né la salita classica o di moda: la sola cosa che gli importava è che fossero belle salite. L’aggettivo che ritorna più spesso nei suoi ricordi d’alpinista è: «elegante». Affronta e supera la fessura Knubel, di cui trova esagerata la fama di difficoltà, un po’ affaticato, e riflette: «Non avendo le dita stanche, si può superare questa fessura (tecnicamente molto interessante) con maggior eleganza, disinvoltura e decisione, portandosi completamente all’infuori in parete, salendo unicamente per appigli, piccoli ma buoni, invece che salirla con metà corpo incastrato nella fessura» (pag. 16, pag. 34). Sulla Sud della Noire assapora le «sensazioni raffinate dell’arrampicamento e dell’equilibrio» (pag. 83, pag. 100). Nella prima assoluta del Pic Adolphe, così lungamente assediato dagli alpinisti torinesi, quel che ricorda con maggior piacere è «l’elegantissimo passaggio della traversata» (pag. 92, pag. 110). Alla palestra del Plu esegue una piccola variante solo per procurarsi «un passaggio più estetico e divertente» (pag. 88, pag. 104). Perfino sulla Ovest della Noire, prima che una spaventosa bufera venga a mettere in pericolo la vita sua e di Ninì, si gode la «arrampicata deliziosa» (pag. 100, pag. 120); e «passaggi elegantissimi ed esposti» vi ritroverà pochi giorni dopo, quando riusciranno felicemente l’ascensione. «Oggi è un piacere l’arrampicare… Salgo con movimenti studiati, precisi ed elastici, per sfruttare i rari appoggi sfuggenti che servono solo per i piedi: bisogna avere molto equilibrio e sicurezza» (pag. 110, pag. 134).
Questo era il modo d’arrampicare di Boccalatte, che aveva teorizzato un suo sistema della spinta e controspinta, cioè non tirarsi su di peso brutalmente con due mani in alto, ma possibilmente usarne una sola per tirare e l’altra averla in basso per spingere il corpo. Era una concezione eminentemente ritmica della progressione su roccia e qui, sì, il musicista si sposava tecnicamente con l’arrampicatore. Un gatto, era, su roccia; e del gatto aveva qualche cosa anche nel fisico, non alto, ma armoniosamente proporzionato.
A Courmayeur conduce la guida svizzera Fritz Steuri al Sasso Preuss, il famoso pietrone in mezzo ai prati de La Saxe, inaugurato dal grande rocciatore austriaco per l’allenamento (e l’esibizionismo) di centinaia o migliaia di continuatori. Nota che il solido montanaro d’oltralpe «se la cava molto bene, va però più di forza che di stile» (pag. 174, pag. 224). Anche scendendo in pedule dalla Noire, disastrosamente coperta di neve fresca, annotava compiaciuto: «io scendo facendo anche dello stile» (pag. 115, pag. 142).
Invece niente gli dispiaceva di più che sfacchinare ottusamente a pestare neve molle. Quando gli accade, lo registra come il colmo dell’obbrobrio. Alla Meije: «Il ghiacciaio è assai faticoso per la neve molle» (pag. 90, pag. 106). Nella traversata notturna con gli sci ed enormi sacchi dal colle di Furggen all’Hörnli, per fare il Cervino invernale dalla cresta svizzera, «si affonda enormemente e non si riesce ad andare avanti che a grande fatica e lentamente» (pag. 195, pag. 247).
Conosceva benissimo i limiti e le possibilità del proprio organismo, e si costruiva un modo d’andare in montagna sapientemente subordinato a quei limiti. Affrontando poco allenato il durissimo passaggio iniziale del Campanile di Brabante, lo tenta due o tre volte ed è respinto. Molto seccato, ci riflette su e spiega a se stesso l’insuccesso: «essendo un passaggio di forza sulle mani, non è nella mia specialità, trovandomi io invece molto più sicuro dov’è in gioco l’equilibrio e la leggerezza. Gli appigli non mancano, ma è la forza delle mie dita che non è sufficiente; dovrei essere un po’ più allenato e allora non escluderei di farlo anche con disinvoltura, essendo riuscito in passaggi tecnicamente più raffinati e difficili» (pag. 120, pag. 148).
Un’altra volta gli accade di lamentare «il dispendio di forza» che gli richiede, allo spigolo sud della Presolana, un banale contrattempo: «resto impigliato con un anello di corda (che porto sempre a tracolla) in una piccola sporgenza di roccia e devo, per liberarmi, fare qualche acrobatismo poco piacevole e faticoso, tanto che termino il passaggio molto malamente, tenendomi incastrato nella fessura, senza alcuno stile» (pag. 153, pag. 244).
La seconda edizione di Piccole e grandi ore alpine (Vivalda editore, 1992)
Tuttavia non si avrebbe un’idea esatta dell’alpinista che era Boccalatte se, in base a questi riferimenti, si credesse di poterlo ricondurre unicamente a una qualità di alpinismo acrobatico. Le Dolomiti gli piacevano, e gli piacque la palestra della Grigna frequentata assiduamente dopo che il matrimonio l’aveva portato a stabilirsi a Milano. Ma era nell’animo, e anche nel modo di andare in montagna, un occidentalista (si tenga presente che la distinzione era allora fortemente sentita). Tirando un bilancio della bella via aperta sulla Nord del Gruetta, la valuta di V grado continuo con «qualche tratto sicuramente di VI, e in più la noia del ghiaccio». Ma subito ci tiene a precisare tra parentesi: «per me non è noia, anzi mi piace molto lavorare su terreno misto» (pag. 185, pag. 233). E durante un bivacco alla Noire, dopo la vittoria sulla parete ovest, si abbandona a rivelatrici «considerazioni sull’alpinismo». Pensa al fatale degrado cui vanno incontro le vie nuove, quando «la parete salita verrà, negli anni futuri, calpestata dal giudizio di arrampicatori che saliranno colla descrizione dell’itinerario nel taschino della giacca, leggendola ad ogni piè sospinto, senza preoccupazioni sulla ricerca della via, coll’unico impegno di superare le sole difficoltà tecniche (piantando magari un’infinità di chiodi) e, a salita compiuta, diranno che la credevano più difficile» (pag. 113, pag. 139).
Quello dell’orientamento era un pallino cui Boccalatte teneva moltissimo, tanto quanto, almeno, all’eleganza dello stile d’arrampicata. Tornando dal primo tentativo alla Ovest della Noire, dopo diciotto corde doppie sulla parete ricuperano gli scarponi alla cengia-base e s’incamminano «fra la fittissima nebbia» sul tormentato ghiacciaio del Frêney. «Non si vede a dieci passi di distanza; però, coll’aiuto della mia memoria e dell’istinto, per cui assai difficilmente smarrisco una via, percorsa anche una sola volta e dopo molto tempo, riesco a seguire, con incredibile esattezza, l’intricato itinerario che si snoda tra i seracchi e i crepacci dello sconvolto ghiacciaio» (pag. 106, pag. 129).
Ma torniamo alle meditazioni notturne sulla natura dell’alpinismo, in cima alla Noire. Vi si fa strada una concezione classica dell’alpinismo come esplorazione – come ricognizione della Natura e contatto, compenetrazione con essa – che lo porta, di fatto, a privilegiare le grosse, scomode e faticose montagne occidentali.
«Una ripetizione che cosa vale, oltre alla sola soddisfazione personale di aver superato la data parete? Fra l’aridità di un tecnicismo e la vera e più profonda manifestazione dell’alpinismo, consistente in quella creazione che è la prima ascensione di una grande parete, passa una differenza enorme. I sacrifici, i tormenti, le titubanze, l’applicazione di tutte le proprie risorse, date dalla nostra esperienza occorsa, la lotta con gli elementi avversi – e noi sappiamo quanto lo sono stati – la costanza necessaria per ritornare più volte all’attacco, attraverso il cammino intricato del ghiacciaio, l’andare verso l’ignoto per un puro ideale, hanno impresso in noi il senso di una conquista veramente completa sulla montagna, non solo sulle sue difficoltà, ma su tutti gli ostacoli che essa può opporre nel modo più terribile e spaventoso.
Che cos’è il superare le rocce più lisce e difficili, in confronto alla forza necessaria per sostenere ore e ore, giorni e notti, le più grandi bufere nei luoghi più impervi, dove ogni attimo di tempo richiede l’astuzia più raffinata e l’impegno totale della propria forza morale? Il così detto spirito eroico del VI grado, dove si è assicurati ai chiodi, e dove è possibile salvare la propria esistenza con un ritorno lungo le corde, impallidisce in confronto di quello richiesto dalle situazioni spaventose, dalle trappole tese dal brutto tempo, dove nulla può aiutarci se non la nostra tenacia, la nostra resistenza, la calma, la forza morale, spinte all’estremo» (pagg. 113-114, pagg. 139-140). Questo passaggio ci consente di mettere in chiaro un altro aspetto determinante dell’alpinismo di Boccalatte. L’unico che finora si sia proposto seriamente di definirlo è Armando Biancardi, che in uno studio rigorosamente scientifico, alieno cioè dal patos di rievocazioni affettive, si è mostrato abbastanza critico nei riguardi del tipo di alpinismo praticato e proposto da Boccalatte. Lo ha fatto in Un campione dell’alpinismo degli anni Trenta: Gabriele Boccalatte, in Rassegna Alpina, gennaio 1971.
Chiedendosi quale abbia ad essere considerata la più bella salita di Boccalatte, Biancardi rileva che la via aperta sulla Ovest dell’Aiguille Noire «è in parole molto povere storta, non mira alla vetta, che raggiunge invece dalla famosa cresta sud». E anche in altre grandi vie nuove di Boccalatte «si rileva questo sforzo di voler tirar fuori la prima, ma con ripieghi, non di pieno petto». C’è in lui «una tensione per il raggiungimento della vetta… non c’è altrettanto cruccio per la via seguita». Anche quando corregge splendidamente la propria via del ’34 sulla parete est dell’Aiguille de la Brenva, nella parte superiore «spara una splendida arrampicata, dritta come una fucilata». Ma in basso: «stessa deviazione e pressoché lo stesso gran traverso su cengia della ’34. Bisognerà aspettare un Giuseppe Gagliardone per il completamento della via integrale».
Eppure non si trattava d’insufficienza tecnica né atletica. Biancardi, dopo avere esposto il problema, suggerisce lui stesso i dati per risolverlo: «Forse Boccalatte aveva acquisito molto dell’astuzia del valligiano e delle guide occidentali, che sanno sempre scovare un punto debole e se ne accontentano». Sì, è così, o quasi così. Soltanto che non si trattava di «accontentarsi», quasi che quelle vie «storte» fossero una scelta forzata, tanto così per riuscire a vincere la montagna in qualche modo. Per capire l’etica alpinistica di Boccalatte bisogna levarsi dalla testa la parola «vincere» e sostituirla con un’altra: comprendere, o magari perfino sposare la montagna. Come osserva infatti lo stesso Biancardi, non è che la parte inferiore della Boccalatte ’35 all’Aiguille de la Brenva «sia poi stata tirata fuori solo a furia di chiodi: poteva essere benissimo fatta anche da lui». Il piacere astratto dell’arrampicata Boccalatte lo sentiva fortissimo, prova ne sia quel «placcone d’una trentina di metri sulla stessa ’35, salito, si direbbe, più per gioco che per necessità», e che ora «i signori del chiodo si guardano bene dal ripetere, come in fin dei conti è logico, aggirandolo per una fessura laterale».
Bene, questo è un caso in cui il passaggista – che in Boccalatte c’era e faceva di lui il re del Sasso Preuss, dove si vantava d’essere salito per ogni sorta di varianti mai ripetute – aveva preso la mano all’alpinista. Questo gli poteva accadere su una salita magari durissima, ma un poco di formato mignon, come la Est dell’Aiguille de la Brenva. Invece la grande montagna era sacra per Boccalatte, ed era interamente oggetto di conoscenza, esercizio d’intelligenza affettuosa e, nel senso letterale della parola, di simpatia. Può darsi che sia un caso, oppure dipenda dal fatto che le creste vergini si sono esaurite prima, ma è innegabile che la più gran parte delle sue quaranta e più vie nuove sono in parete, dove la via bisogna cercarsela comprendendo la struttura della montagna.
Ricorriamo ancora una volta a Piccole e grandi ore alpine per una conferma che non potrebbe essere più evidente. Nel 1937, quando in una giornata di malavoglia, propria e del compagno, rinuncia allo spigolo sud della Punta Gugliermina che supererà poi l’anno dopo insieme con Gervasutti, ecco la ragione che ne adduce: «tanto più che ci sembra trattarsi di una via più sportiva che alpinistica, che richiede, per la natura della roccia poco arrampicabile, una chiodatura quasi ininterrotta» (pag. 180, pag. 226). E pochi giorni dopo in Dolomiti, rinunciando ugualmente alla parete sud della Cima d’Ambiez, commenta: «Questa è una di quelle salite sportive, che col tempo verranno risolte a furia di chiodi, ma che interessano poco dal lato alpinistico» (pag. 191, pag. 241).
Non si trattava di moralismo puritano contro l’uso dei chiodi, che Boccalatte adoperava benissimo con confidenza e disinvoltura che a quei tempi erano ancora poco diffuse nell’ambiente occidentale. Il fatto è che le vie a goccia d’acqua non «interessavano» Boccalatte, perché violentando la montagna gli toglievano il piacere più grande dell’alpinismo: capire la montagna. La pratica e il costume di Boccalatte sono la prova palmare che l’alpinismo è, nella sua intima essenza, conoscenza e pertanto un fatto di cultura. Conoscenza del terreno, della crosta terrestre, e pertanto, in sostanza, esplorazione, anche quando si tratta soltanto di esplorare pochi metri quadrati arrampicabili in seno a una parete. L’astuzia del montanaro che cerca i punti deboli non era dettata in Boccalatte dal proposito utilitario di ottenere il maggior risultato col minor dispendio di energie. A questo calcolo contraddiceva in lui il gusto spiccatissimo del passaggista. Ma la via a goccia d’acqua, che spiana le difficoltà verticali come potrebbe fare, in piano, un carro armato o una macchina schiacciasassi, era per lui la negazione dell’intelligenza alpinistica. Comprendere la montagna era per Boccalatte il piacere supremo dell’alpinismo, maggiore ancora che la soddisfazione della vittoria o il divertimento del passaggista. Non credo che Boccalatte ne sapesse niente, in teoria, della distinzione di pensiero e azione, del conoscere e del fare, le due supreme facoltà dell’uomo, che la filosofia ha sempre cercato disperatamente di unificare, concludendo che quella unità si verifica solamente in Dio, che conosce il mondo nell’atto di crearlo, oppure, secondo Giambattista Vico, nella Storia, unico campo dove l’uomo è pari a Dio perché in essa conosce quello che fa. Non credo che Boccalatte s’impicciasse di queste cose, ma nel suo modo di andare in montagna e di gustare l’alpinismo c’è l’intuizione inconscia che lì, veramente, l’uomo conosce attraverso l’azione, e perciò se c’è un’attività nella quale l’uomo può sentirsi davvero pari al Dio dei teologi, questa è l’alpinismo, quando non venga amputato della sua natura esplorativa, cioè del fattore «conoscenza». E «conoscenza», comprensione della struttura della montagna, erano appunto le famose vie «storte» di Gabriele, «conoscenza» era il lungo traverso alla base dell’Aiguille de la Brenva, «conoscenza» i zig-zag avventurosi e astuti attraverso i piloni di destra al Mont Blanc du Tacul. Magari avrebbe potuto benissimo tirar su dritto, e ciao: ma che gusto c’era?
Alcuni piccoli particolari esterni vanno tenuti presenti per collocare esattamente l’alpinismo di Boccalatte nelle circostanze del suo tempo, particolari che occorre fissare attraverso il ricordo, prima che ne svanisca ogni memoria. Per esempio, l’operare alpinistico di Boccalatte avvenne, o meglio giunse al termine proprio nel periodo in cui si attuava quella rivoluzione copernicana che fu nell’alpinismo, specialmente occidentale, l’introduzione della suola di gomma. Boccalatte vi si convertì tardi. Sua moglie, cresciuta nel clima più dinamico e intraprendente dell’ambiente milanese, le adottò prima, e lui la guardava compiaciuto piroettare sulla cresta nord dell’Aiguille de Leschaux, il 2 settembre del 1936, un paio di mesi prima del matrimonio: «Ninì ha le scarpe con suole di gomma nera, che le servono benissimo, tanto su roccia quanto su ghiaccio» (pag. 156, pag. 195). Lui invece era stato un maestro e un mago della pedula.
Alla Ovest della Noire ne aveva due paia, a suola di manchon e a suola di para, e le alternava secondo la natura della roccia, mentre gli scarponi chiodati restavano su qualche cengia alla base della parete, oggetto poi di faticose deviazioni per il ricupero al ritorno. È solo il 30 maggio 1937, in Valle Stretta, che Boccalatte annota: «lo ho le scarpe nuove con la suola di gomma nera» (pag. 168, pag. 210) e lungo la traversata Rocca di Miglia-Cammelli, con un nugolo d’allievi e di colleghi istruttori, rileva con soddisfazione: «Le mie scarpette vanno a meraviglia: è davvero il più razionale ritrovato in fatto di calzature alpinistiche. Vanno bene sia su placche che su appigli piccoli, su rocce bagnate e su neve, e sono abbastanza leggere» (pag. 169, pag. 211). Ma non era una conversione definitiva.
Le porta ancora, il 15 luglio 1937, in un tentativo alla parete nord del Greuvetta (pag. 178, pag. 223: «le scarpe con le suole di gomma nera tengono magnificamente, sia per aderenza che su piccoli appigli»), ed è molto probabile che le avesse anche quattro giorni prima sulla via Preuss dell’Aiguille Savoye, sebbene non lo registri. Ma nell’inverno seguente, al Cervino, eccolo di nuovo con gli scarponi chiodati (pag. 197, pag. 248).
Un altro particolare esterno che occorre tener presente per comprendere il tipo dell’alpinismo di Boccalatte è l’uso – ossia lo scarso uso – dell’automobile. Ci sono poche automobili nelle prime annate di Piccole e grandi ore alpine.
Solo negli ultimi anni, dopo il matrimonio e il trasferimento a Milano, cominceranno ad apparire frequenti, consentendo un ampio raggio di spostamenti. L’assenza dell’automobile, che oggi è coefficente indispensabile (almeno là dove l’ecologia ti permette di adoperarla), conservava all’alpinismo intorno al 1930 un carattere patriarcale arieggiante alle abitudini dei pionieri inglesi nell’Ottocento, che si trasferivano in Italia e in Svizzera con armi e bagagli e magari domestici, per tutta l’estate. Ossia, la «stagione» alpina, la «campagna» alpinistica durava ininterrotta per una parte dell’anno, mentre oggi invece spesso accade che uno scalatore compie un’impresa memorabile e poi se ne torna a casa sua a riposare, o magari a lavorare anche in piena estate.
Era tutto un altro ritmo di approccio alla montagna, più lento ma più intimo che consentiva un contatto approfondito con l’ambiente alpino, anche nei suoi aspetti antropologici. Si trattava di vivere in montagna, per un mese o per tutta la stagione estiva, entrando nei suoi usi e costumi: non arrivare lì di corsa come Giulio Cesare – veni, vidi, vici – conquistare la vetta, risolvere il problema, e poi via di nuovo in macchina verso la città, e chi s’è visto s’è visto.
La «campagna» alpinistica, allora, era un’istituzione, con le sue regole, i suoi riti e le sue leggi non scritte. I primi giorni, per esempio, si «comprava l’aria». Mentre adesso, su per giù, siamo sempre allenati, perché ogni domenica che Dio manda in terra saltiamo sull’auto e, se fa bello, ci portiamo a tre, anche a quattromila metri, allora si arrivava all’estate dopo una lunga assenza dall’alta montagna e perciò si saliva in alto progressivamente, a rate, graduando i dislivelli (Questa faccenda del «comprare l’aria», per ridicola che possa sembrare, è ancora presente in ambienti alpinistici che si trovino a distanze enormi dalle montagne: per esempio a Mosca. L’ottimo direttore sanitario del campo Elbruz era esterrefatto dall’impazienza che noi italiani mostravamo di salire subito in vetta approfittando del bel tempo, mentre c’era, invece, da stare una settimana a comprar l’aria dei 2500 metri nel campeggio, con una dieta di piccole salitine sperimentali a bassa quota. Va da sé che anche in URSS tutto il cerimoniale dell’acclimatazione viene omesso dagli alpinisti che vivono nella regione dei Kabardini o nella repubblica di Georgia, cioè vicino alle montagne).
La parete sud-ovest del Pic Gugliermina
Per la stagione estiva raggranellavamo i soldi durante tutto l’anno. I più fortunati ricevevano una sommetta dai genitori, somma che ben difficilmente arrivava al tetto delle mille lire. Generalmente ci bastava per una campagna d’un po’ più d’un mese, dal 20 luglio al 30 agosto. (Si tenga presente che negli anni Trenta la pensione giornaliera in un alberghetto di montagna, specialmente se gestito da un amico come Palumbo, costava sulle venti lire).
Boccalatte aveva una specialità: quei quattro soldi che gli dava sua nonna, lui li faceva durare un tempo incredibile. Da giugno a settembre viveva nella montagna, girovagava sui ghiacciai, si spostava da un rifugio all’altro sui due versanti del Bianco, conducendo l’esistenza d’un nomade d’alta quota.
Scendeva ogni tanto a Courmayeur, in cerca di viveri o d’altri compagni di cordata, magro come un gatto famelico, le guance incavate, gli occhi ardenti nel viso cotto dal sole, gli abiti sdruciti e ricuciti alla meglio da lui stesso o da compassionevoli servette di rifugio. Poi riprendeva la via dei monti e spariva di nuovo, magari per settimane.
A settembre avanzato, quando l’autunno ha già dipinto d’oro i boschi, e le prime nebbioline o la pioggia insistente fanno tirar fuori i soprabiti e i villeggianti preparano le valigie, e gli alpinisti rinfoderano gli ultimi progetti perché la neve si è ormai insediata stabilmente sulle Jorasses e sulle creste del Bianco, regolarmente Boccalatte intonava una canzoncina malinconica e buffa, che diceva, sopra un ritmo circolare:
L’autunno è già vicino,
non lo senti tu?
L’albero del giardino
non ci copre più.
Quanta malinconia,
piccina mia,
d’intorno a me.
Nemmeno una bugia
io trovo più — per te.
Tra le ultime parole, dove ci sono i trattini, bisognava, se si era seduti, sobbalzare due volte col sedere sulla panca; altrimenti battere due colpetti in terra col puntale della piccozza o, meglio di tutto, assestare due pacche ben ritmate sulla schiena o sulla pancia del compagno più vicino.
Era il segnale del Grande Ritorno: la fine della stagione, la chiusura della campagna alpina, anzi, della campagna tout court, cioè di quella vita per cui eravamo tagliati e che avremmo voluto prolungare per dodici mesi dell’anno. Addio monti, addio ghiacciai, addio placche di granito e guglie e fessure. Bisognava ritornare in città a studiare e lavorare; Gabriele a riaprire il pianoforte, che aveva trascurato per tre mesi. Forse una sola volta, in Piccole e grandi ore alpine, si trova annotato: “vado da Gay a esercitarmi sul pianoforte”. Doveva essere uno di quei periodi in cui a Courmayeur piove per quindici giorni di seguito senza interruzione.
Molti gli chiedevano se l’esercizio dell’alpinismo non gli danneggiasse le dita. Lui aveva una sua teoria, del resto condivisa dall’alpinista svizzero Émile-Robert Blanchet, pure lui distinto pianista. Sostenevano che l’arrampicata su roccia non fa male alle dita, anzi, ne sviluppa l’agilità e l’indipendenza. Altro sarebbe – dicevano – impugnare la piccozza per tagliare centinaia di gradini: quello sì, indurisce le dita, come fanno il tennis, il remo, e perfino le bocce. Ma con i ramponi dell’amico Grivel, Boccalatte passava come un angelo su pendii di ghiaccio duro, incidendovi minime scalfitture a uso dei malcapitati compagni di cordata. E bisognava amarlo anche per questo, per l’onorifica fiducia che ti dimostrava, dopo averlo maledetto e insultato per l’indifferenza con cui lasciava che il secondo si sbrigasse da solo i fatti suoi. «Trovo molto piacere, mentre ritiro la corda, nel contemplare il panorama e nel fumare di continuo sigarette» (pag. 144, pag. 178). E a quella corda era legata Ninì, mica un compagno qualunque, e stavano portando a termine la prima salita dell’Aiguille Blanche per la parete sud.
Di quelle peregrinazioni in alta montagna gli restava un bagaglio d’emozioni e di sensazioni estetiche che si traduce, nelle note del suo Diario, in frequenti sfoghi, anche ingenui, d’ammirazione per la bellezza del paesaggio, ma anche, ogni tanto, in notazioni strane, imprevedibili, che hanno un tocco da grande scrittore. Le «due giovani donne francesi» che in una giornata sfolgorante cantano in coro canzoni a due voci sulla vetta del Monte Bianco. Oppure, all’estremo opposto, la lugubre veglia, «in un tramonto straordinario, unico, indimenticabile», alle salme di due tedeschi precipitati dalla Nord dei Drus. Seduti sulle piccozze affondate nella neve, a bere sorsate di rhum e di cognac, «per rianimarci dall’impressione ricevuta», e soprattutto a rimpinzarne il superstite, fermo lì da sei ore accanto a quei morti, col «viso stravolto, gli occhi sbarrati, quasi fuori dall’orbita». Poi arrivano i soccorsi, inizia il traino delle salme, mentre «il sole sta per scomparire al di là del profilo dei monti» e «una luce bleu intenso invade ogni cosa, la neve, le nostre persone, le nostre ombre». Durante la discesa Chabod intona la canzone dello Zillertal, quasi come un ultimo saluto ai due caduti: «l’ambiente selvaggio e la visione di questo sublime tramonto formano un complesso di sensazioni che riempiono il nostro animo di profonda ed estrema commozione».
Vivere in montagna, era l’arte, la vocazione di Boccalatte, e gli alimentava l’animo d’infinite esperienze, che vanno da estremi tragici e gaudiosi come quelli ora ricordati, a inezie bizzarre, come la cornacchia della Brèche Balfour, che si avvicina e «si ferma, in aria, in una posa comicissima, a meno di tre metri, e aspetta immobile che le butti un po’ di cibo». Esperienze che a loro volta alimentano lo stile tutto cose di quel suo carnet de courses che ebbe l’onore di una recensione da parte di Ferdinando Neri, maestro finissimo di letteratura nell’Università di Torino. E infatti s’inserisce come un piccolo classico in quella corrente della letteratura d’azione, che ha il suo capolavoro nelle Noterelle di uno dei Mille di Giuseppe Cesare Abba (se non vogliamo scomodare addirittura Giulio Cesare), e che è così rara nelle verbose abitudini della patria letteratura.
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“Ninì e Gabriele, storia d’amore e di montagna.”
Aprite occhi e cuore, guardate, meditate.
https://youtu.be/r8w8WulwcV0
Quando iniziai ad arrampicare (non vi dico l’anno perché mi vergogno), incominciai anche a leggere di alpinismo e della sua storia. Allora i libri erano molti di meno rispetto al numero attuale, però i grandi nomi dell’alpinismo emergevano subito, anche grazie a quanto si imparava dagli istruttori del corso roccia. Ma tutto era avvolto in un’aura di leggenda, che rendeva l’alpinismo ancora piú affascinante.
Tra i grandi nomi figuravano i mitici Paul Preuss e Hans Dülfer per le Alpi Orientali, e Giusto Gervasutti e Gabriele Boccalatte per le Alpi Occidentali. Almeno, quelli erano i miei eroi e pronunciavo i loro nomi (oltre a quelli di Cassin, Comici, Bonatti, Carlo Mauri, Solleder, Buhl, ecc.) con la massima deferenza. Ora ne so molto di piú e la stima verso quei cavalieri della montagna è cresciuta ancora, per quanto possibile: sono stati tutti uomini che non sono vissuti invano.
Scendeva ogni tanto a Courmayeur, in cerca di viveri o d’altri compagni di cordata, magro come un gatto famelico, le guance incavate, gli occhi ardenti nel viso cotto dal sole, gli abiti sdruciti e ricuciti alla meglio da lui stesso o da compassionevoli servette di rifugio. Poi riprendeva la via dei monti e spariva di nuovo, magari per settimane.
Non è evidentemente quello che fanno gli alpinisti odierni che devono centellinare le ferie vivendo attraverso web meteo e demenziali equazioni tra ore di sonno, svago e lavoro. Molti hanno il fatidico VW California di cui pagano le rate, vestono griffato pescando tra le svendite, insomma, ricollegandomi all’ozio creativo: una vita di merda.
Anni fa mi sono ritrovato a ripercorrere le tracce di una spedizione del 1931 sui ghiacci patagonici, constatando che i nostri predecessori avevano sulle spalle zaini che pesavano almeno il triplo dei nostri, già belli pesantini, e percorrevano giornalmente distanze e dislivelli maggiori dei nostri, che pure non eravamo lenti.
Abitudini di vita ordinaria meno confortevoli rendevano le persone più toste in tutti i sensi e penso anche che si divertissero di più e con molto meno. Eppure le loro vie sono dei capolavori con cui misurarsi ancora oggi per imparare e constatare il loro valore assoluto. Certo, oggi si fanno gradi molto più alti, ma la proporzione stride se si pensa alle allora attrezzature e conoscenze tecniche e del terreno.
Giù il cappello davanti a questi progenitori del moderno alpinismo, apritori inconsapevoli delle porte di un inferno col termostato.