La Fonténa del Omblìa
(scritto nel 1996)
Lettura: spessore-weight(2), impegno-effort(1), disimpegno-entertainment(2)
Sono nel mio giardino e respiro l’aria di Milano. Se io fossi trasportato all’istante alla quota di duemila metri sentirei l’aria diversa? Una di quelle domande cui non si dà risposta perché, come appare fulminea, altrettanto rapida se ne va. Ma potremmo noi cogliere una diversità se fossimo dispensati dal viaggio necessario tra una quota e l’altra? Una differenza che superi gli odori o i colori della luce, un particolare che ci aiuti a capire perché i cittadini siano così, dimentichi delle albe e dei tramonti.
“Bianco di stella alpina, rosso di rododendri, alba, alba, vieni nei miei occhi”, dice una poesia ladina. Potrebbe essere anche una serena preghiera alla propria terra e al proprio cielo di un popolo che, da millenni coinvolto senza colpa in lotte fra altri popoli, ha voluto conservare nel ciclone delle invasioni una sua identità culturale. Una resistenza nata agli albori del Medioevo, quando la dominazione romana fu spazzata via dalle invasioni barbariche, che si appoggia su tradizioni addirittura preistoriche: assieme ai liguri, ai celti, ai veneti e agli illiri, i reti (antenati degli attuali ladini) furono infatti i più antichi abitatori delle valli alpine. Romanizzati ai tempi di Tiberio, la loro lingua non scomparve del tutto: ne sopravvissero degli elementi che, mescolati al neolatino, furono determinanti all’attuale idioma ladino. Questo poté formarsi per l’isolamento in cui vivevano quelle popolazioni: le valli attorno al Sella erano difese da ostacoli naturali, le strade del Pordoi e del Sella erano inesistenti e i sentieri poco conosciuti. Il Vescovo di Bressanone, per recarsi in visita pastorale in Val di Fassa, passò dal valico roccioso nel cuore del Catinaccio che poi prese nome da quell’evento, il Passo Principe.
In contrasto a tutto ciò, il termine “ladino” è assai recente. Ad usarlo per primo fu un glottologo del secolo scorso, Graziadio Isaia Ascoli. Nato a Gorizia nel 1829, nel 1873 pubblicò i Saggi Ladini, nei quali diede la seguente definizione: “Comprendendo sotto la denominazione generica di favella ladina, o dialetti ladini, quella serie di idiomi romanzi, stretti fra loro per vincoli di affinità peculiare, la quale, seguendo la curva delle Alpi, va dalle sorgenti del Reno Anteriore insino al Mare Adriatico; e chiamo zona ladina il territorio da questi idiomi occupato”.
Ma il territorio dei ladini è assai ridotto rispetto alla superficie occupata: in realtà già lo stesso Ascoli distingueva tre regioni non contigue, quindi a macchia di leopardo, in cui si osservavano tre parlate assai simili: i Grigioni, alcune vallate dolomitiche e il Friuli. Ladin deriva da latinus contrapposto a “barbaro”.
Nella regione dolomitica i ladini sono circa ventimila persone, a isole sparse fra i monti del Sella, della Val Badia, e ancora di Pieve di Livinallongo, Fassa e Val Gardena, fino a Cortina d’Ampezzo e al Comélico. C’è chi parla di quarantamila, ma un censimento esatto non sarà mai possibile, perché molti di loro non possono essere classificati con certezza. Da poco tempo gli è stato garantito il riconoscimento dei diritti autonomistici: la toponomastica e l’insegnamento del ladino nelle scuole sono una realtà a fatica e da poco conquistata. Se fino a vent’anni fa, in Valle di Marebbe, vivevano ancora rispettando l’economia della corte (l’equivalente ladino del maso) e la vita domestica gravitava intorno alla stua, il soggiorno dove la famiglia si radunava la sera per la cena e per i racconti di padre in figlio, poi venne l’impero del turismo, che portò i soldi, l’auto, la TV e la babele delle lingue, travolgendo il passato. Ma non tutto: perché c’è chi dice che i ladini, proprio come nella leggenda, non abbiano mai osato bere alla fonténa del omblìa, la fontana stregata dell’oblio.
Una fontana così sottintende che c’è molto da ricordare. I ladini, nati e cresciuti nella solitudine delle loro montagne, vivevano con la natura, potremmo dire con gli insegnamenti della natura: regole chiare e semplici e fantasie senza alcuna briglia erano il materiale grezzo dell’esperienza di questo popolo, che viveva giorni di solitudine totale in baite di legno che si seccava con le stagioni, sere intere ad osservare i contorcimenti di un fuoco che disegnava sui muri affumicati gli incubi altrimenti più nascosti, notti di luna che invertivano i contorni del giorno facendo vivere gli oggetti di una vita del tutto parallela. E poi le alte creste, le bufere, i colori agivano su una religione fuori controllo ecclesiastico, popolata dagli esseri più strani, ognuno con il loro piccolo regno e la loro influenza. Ma se questa era la vita interiore del montanaro ladino, la convivenza tra incubo e serenità era la caratteristica che incollava gli individui ad una società così particolare. Hubert Mumelter, in La Saga di Lagorai, così fa parlare Morin, un anziano malgaro fassano, rivolgendosi a Casan, un giovane maestrino che in buona fede vorrebbe alcune innovazioni: “Ricordati bene, Casan: quello che insegna il mondo non ha nulla in comune con quello che ci insegna la nostra vita. Imprimiti bene nella mente: noi ladini siamo una cosa sola con questi monti e queste alpi; queste crode e questi pascoli sono una cosa sola con noi ladini. Siamo un popolo misterioso come le nostre montagne, viviamo ed esistiamo nei loro sogni millenari. Che cosa siamo, se ce ne allontaniamo? Se sei un ladino, maestro, ed hai studiato fuori delle nostre valli, tu lo sai; e lo sa chiunque di noi sia uscito di qui. Fra gli altri popoli siamo degli estranei, degli esuli di un paese singolare in cui abitano le nostre anime e i nostri sentimenti. Se sei un ladino, tu lo sai che abbiamo una patria segreta in cui possiamo entrare solo noi; essa è un santuario che resta inviolabile fintantoché non lo distruggiamo con le nostre mani, fintantoché non rinneghiamo noi stessi”. Per Mumelter è chiaro cosa significa abbeverarsi alla fontana dell’oblio: “Chi apre le porte dei monti, apre le porte alla rovina ed alla schiavitù, non alla libertà”. E così la pensa l’associazione ladina S.O.S Dolomites, che coniuga la lotta ambientalista con la difesa delle tradizioni e della lingua. Ma la leggenda è assai più sfumata, con un messaggio ambiguo. La storia è quella di due giovani che, alla fine di innumerevoli peripezie vissute tra streghe ed incantesimi, tra lotte per il potere e banali trame più venali, riescono a coronare il loro sogno d’amore non tra i pascoli del loro mondo natio, ma tra i dirupi del Larséc, nel bel mondo magico ma isolato delle Vivane: come se l’aver entrambi bevuto alla fonténa del omblìa, dopo aver cancellato qualunque loro ricordo precedente, li costringesse a vivere prigionieri in un ghetto di assoluta felicità.
7
Si però i commenti su Merlo dillà, che sennò non ci si capisce più un guazzo!
Oppure è solo la fase acuta della merlite che porta a mischiare i post?
Nel dubbio, auguri a Manera.
Effettivamente, l’oscurità voluta dell’ultimo Cominetti (su Uno&Due) deve essergli rimasta appiccicata alle dita sulla tastiera. Vorrei dirlo nella sua esilarante prosa simil Merliana ma è al di là delle mie capacità.
Un saluto affettuoso a Lorenzo, sperando che ci sia ancora occasione di legarsi assieme; conto su una comunicazione interna della cordata scevra di equivoci interpretativi!
la MERLITE è una brutta bestia….
Involontariamente. Era infatti una prova.
Ciao
A Marce’ sei stato contagiato da Merlo? 😀
L’assoluta felicità è infelicitá e insicurezza. L’equilibrio non è ladino ma per essere tale dovrebbe essere assoluto.