I vagabondi del Dharma
di Carlo Crovella (5 aprile 2018)
Lettura: spessore-weight(2), impegno-effort(1), disimpegno-entertainment(3)
I vagabondi del Dharma (The Dharma Bums) è un libro scritto dall’americano Jack Kerouac nel 1958, ma edito in italiano nel 1961 e poi nel 1975. Si tratta di un classico testo “on the road” e non a caso è il seguito ideologico del precedente libro intitolato proprio Sulla Strada. Siamo in piena era beat, che, annoverando nella letteratura nomi noti come quello di Allen Ginsberg, si estendeva fino al mondo musicale coinvolgendo anche il celebre cantautore Bob Dylan.
Ne I vagabondi, Kerouac descrive la vita libera e disordinata, alla ricerca di una nuova identità che viene appunto identificata nel Dharma, un concetto ben presente fra i buddisti, per i quali rappresenta il fine ultimo dell’universo e quindi dell’esistenza.
La vita dei beatnik raccontata nel libro di Kerouac spazia dalle sbornie colossali nei fumosi locali di San Francisco, alle notti trascorse sugli assali dei vagoni merci per scroccare un passaggio da Frisco a Los Angeles, fino a lunghe e profonde meditazioni in riva al mare, senza dimenticare gli happening orgiastici (più o meno numerosi) che spesso rivisitavano in chiave erotica i riti orientali da loro ammirati.
Il ritmo incalzante della narrazione di Kerouac arriva a coinvolgere anche le giornate che un gruppetto di personaggi trascorre sulle montagne interne della California. Non si tratta di vere e proprie scalate, quanto di immense sgambate, anche perché tutti loro erano decisamente squattrinati e quindi iniziavano molto in basso le loro ascese.
Edizione più attuale di Sulla strada
Pur nobilitando queste ascese con la ricerca del silenzio e del contatto con la natura, in realtà prima o poi emergeva un lato materiale: megagalattiche abbuffate di cibo e soprattutto grandissime bevute, il piacere di vivere secondo gli istinti del momento, il rifiuto della società organizzata che, non a caso, restava giù, lontana. In termini sintetici: la ricerca della libertà incondizionata.
Questo libro mi capitò fra le mani, quasi casualmente, verso la metà degli anni ’80, anche se la traduzione italiana esisteva, come già detto, da circa una decina di anni. Mi colpì in particolare la parte dedicata alle escursioni montane, perché la riallacciai a una mia esperienza personale di qualche anno prima.
Durante gli anni della mia prima adolescenza (a cavallo fra scuole medie e liceo, stiamo parlando di metà anni ‘70), come ogni “buon” torinese, ho trascorso molti periodi di villeggiatura a Bardonecchia, la nota località dell’alta Val Susa. D’inverno si sciava (allora io preferivo la pista alle gite con le pelli, ma qualche volta dovevo cedere ai desideri paterni…), d’estate alternavo le gite “famigliari” su ghiacciaio, in genere nel vicino Delfinato, con escursioni insieme a miei coetanei. Queste escursioni prevedevano la partenza a piedi direttamente dal Borgo Vecchio di Bardonecchia e spesso terminavano a ora di cena o anche dopo.
In quelle estati trascorsi a Bardonecchia lunghissimi periodi, a volte anche di tre mesi consecutivi, dal termine della scuola a giugno al suo reinizio di settembre. Fu in quel frangente che riuscii a raccogliere un gruppettino di ragazzi che abitavano nelle case vicine: a volte si trattava di altri villeggianti, altre di residenti abituali.
Salvo eccezioni questi ragazzi avevano uno o due anni meno di me, ma non fu questo particolare che determinò il mio ruolo di leader della combriccola, quanto piuttosto che io disponevo (prelevandole dallo zaino paterno) di bussola e le famose cartine militari al 25.000.
In più, sempre di provenienza paterna, potevo consultare la Guida delle Alpi Cozie Centrali, scritta da Eugenio Ferreri nel 1926. Pur con un linguaggio decisamente legato alla sua epoca (mi ricordo ancor oggi frasi del tipo: “poscia avvi fontanetta”), la guida descriveva gli accessi più semplici alle montagne della conca di Bardonecchia e dei suoi valloni collaterali. Una vera manna per noi tredici-quattordicenni che, pur con i polpacci scalpitanti, avevano idee molto vaghe sugli itinerari.
Non so come, ma riuscii a convincere i genitori di questi compagni di avventura e iniziammo le nostre scarpinate. Col senno di poi mi stupisco ancor oggi di quella autorizzazione genitoriale. In un mondo senza cellulari, stavamo fuori dall’alba all’ora di cena (spesso anche dopo) e nessuno aveva nostre notizie per intere giornate. Non si pensava, allora, a concetti quali la responsabilità degli organizzatori, a tenere sempre sotto controllo il tutto. Si riconosceva più fiducia, o almeno a noi capitò così.
Nonostante il testo del Ferreri, ci lasciavamo guidare dall’improvvisazione e spesso ci trovammo in luoghi non molto consigliati. Neppure le nostre furono delle vere e proprie scalate, erano piuttosto delle immense camminate, sovente fuori dai sentieri battuti. In certi tratti, più che arrampicare, dovevamo appoggiare le mani. Insomma un’attività che proprio gli anglosassoni hanno codificato con il termine di scrambling: scarpinare, appunto.
Non paghi dei chilometri da percorrere, ci caricavamo di ogni materiale possibile. Con un fornello a meta, residuo di qualche attrezzatura trovata in soffitta, organizzammo un lauto banchetto per il mio compleanno, compresa una pastasciutta con il ragù, il tutto su una vetta di oltre 3.000 metri. Un pintone di rosso, comperato alla cooperativa, fu il nostro nirvana, finché arrivò un’improvvisa tempesta, che ci svegliò dal torpore e ci fece scappare giù a gambe levate.
Camminavano con i calzettoni arrotolati sulle caviglie e ci sembrava una trasgressione quasi immorale. Senza saper quasi nulla dei beat americani, fischiettavamo Bob Dylan, in particolare blowin’ in the wind e, in particolare, quel verso che più o meno dice “quanta strada deve fare un uomo per essere chiamato uomo?” I più coraggiosi entravano in paese con un foulard arrotolato sulla fronte e poi tuti insieme, sporchi e sudati, andavamo alla fontana per scandalizzare i villeggiati nella loro passeggiatina del dopo cena.
Edizione più attuale di I Vagabondi del Dharma
Insomma, vivevamo la nostra libertà. La trovavamo in giornate piene, lungo pietraie assolate, sfidando il vento sulle creste e, soprattutto, con il sorriso sempre sulle labbra. Libertà e felicità costituiscono un binomio inossidabile: questo fu il lascito ideologico di quegli anni.
Senza saperlo, abbiamo vissuto nel nostro piccolo le esperienze dei beatnik californiani, ad eccezione dell’assunzione di droghe e di quello che allora si chiamava l’amore libero. Ma per il resto non c’erano differenze significative fra le sensazioni descritte da Kerouac nella Sierra californiana e le nostre scarpinate sui 3.000 intorno a Bardonecchia. Magari il nostro era un tono minore, ma la linea era di sicuro la stessa.
Dopo la prima estate di escursioni esclusivamente in giornata, l’anno successivo alzammo il tiro. Ci siamo procurati sacchi a pelo militari e un paio di tende monotelo, nuovissime nella concezione (sì leggere, ma decisamente poco impermeabili…). Con mezzi pubblici (treno, corriere) ci allontanammo anche dallo stretto perimetro della conca di Bardonecchia, ampliando il raggio di azione. Ma lo spirito rimase lo stesso anche nella seconda estate.
Anzi la possibilità di dormire fuori, spesso lontano da agglomerati urbani, aumentò il tasso di avventura. Una notte eravamo accampati sulla riva dei laghi della Gran Tempesta, piccoli e quasi insignificanti specchi d’acqua in fondo alla Valle Stretta. Era una notte di luna piena, senza una nuvola in cielo. Un po’ di vento smuoveva la superfice dell’acqua e si sentiva un rumore di risacca, prodotto dalle onde contro le sponde. Qualche tonfo qua e là ci faceva immaginare i salti dei pesci per acchiappar insetti o i movimenti dei piccoli mammiferi in uscita notturna.
Il cuore ci batteva all’impazzata, non riuscivamo a prendere sonno. Ad un tratto sentii uno scossone contro la tenda, forse una volpe o un altro animale di taglia medio-piccola. Scappò immediatamente. La primissima reazione impaurita lasciò immediatamente spazio in me alla curiosità: uscii dalla tenda e fui quasi abbagliato dal riflesso della luna piena sulla superficie dell’acqua. Spasimi di emozione, che ricordo alla perfezione ancor oggi, mi attraversarono il corpo e la mente: mi inginocchiai sulla riva e ululai alla luna…
Fu il canto del cigno della nostra esperienza beat. L’estate stava finendo e, l’anno dopo, numerosi cambiamenti nei programmi familiari scompaginarono la nostra compagnia di giovani adolescenti. Forse era questo in ogni caso il nostro destino, crescendo non avremmo più avuto la stessa sintonia e ci saremmo persi comunque. Chissà…
In seguito ho frequentato assiduamente la montagna, senza perdere un’annata, andandoci in ogni stagione dell’anno e con approcci via via più tecnici e, per questo, sempre più “ingabbiati”, sempre meno liberi. Nel mio piccolo ho vissuto anche annate di performance di rilievo, pur non considerandomi un top climber. Ma con gli sci e sulla roccia ho scritto anche io le mie piccole pagine di gloria.
Eppure nessuna esperienza successiva mi è scesa fin nelle viscere come quelle due estati intorno a Bardonecchia. Conoscemmo la vera libertà: per questo ci sentivamo padroni del mondo.
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i Savoia, pesano…
Ciao a tutti
al seguito di questo articolo ho ricevuto moltissimi apprezzamenti, in corrispondenze personali, proprio sul parallelismo (con le debite distanze) rispetto a Kerouac, ma non sono stupito che vi siano anche opinioni contrarie.
Probabilmente per chi non è torinese (tra l’altro di una “certa” Torino), sfugge tutto il tema della “torinesità” e delle sue rigidi regole, etiche e comportamentali. Il tema della torinesità è stato molto ben trattato da Alessandro Gogna nella sua recensione al mio romanzo Ladri di anime (https://gognablog.sherpa-gate.com/ladri-di-anime/), verso la metà di quel testo.
In un sistema in cui eravamo impaludati a prescindere dalla nostra volontà, per noi ragazzotti di 13-14 anni compiere atti come quelli descritti (es: tenere i calzettoni arrolotati sulle caviglie, quando l’istruzione dell’ambiente e dei genitori era “calzettoni belli dritti lungo il polpaccio”….o anche solo andarsene in giro da soli per intere giornate senza far avere notizia alle famiglie…) rappresentava un modo trasgressivo per infrangere le regole del sistema. Può darsi che oggi faccia ridere questa nostra intesità della trasgressione, ma allora (prima metà anni ’70) lo era in modo particolarmente significativo.
In questo, oltre che nella magia dell’alta Valle Stretta (come mi ha ricordato un amico scrittore, anche lui ammaliato dagli stessi luoghi in età giovanile), regge il parallelismo con i racconti di Kerouac, pur in assenza, da parte nostra, delle loro esperienze oggettivamente molto più trasgressive (droghe, amore libero), tenendo anche conto della differenza di età fra noi scolari delle medie e gli americani che erano già degli uomini fatti.
Ciao!
Marcello sei un mito 🙂
Bé, scomodare Kerouac… È come rifarsi a James Cook per ricordare il senso di libertà di quando andai con i miei amichetti da Spotorno a Bergeggi in canotto.
Ma va bene, lo dico solo per far polemica.
Lo sguardo che riempie il mondo di sé
La meraviglia come guida
La sicurezza come compagna
L’avvenire come presente
Il successo nel fare
La pena come sconosciuta
Le relazioni come complicità
La ratione sparita
Il mistero vissuto
Il respiro dell’Uno
Alberto Benassi (cha saluto e ringrazio) ha focalizzato il concetto…
Il libro di Kerouac è stato per me un “pretesto” per raccontare il substrato emotivo di due mie estati, vissute all’età di 13-15 anni.
Personalmente mi ha colpito, rivisitando a posteriori quelle estati, il senso di libertà e di felicità sconfinate, che nessuna altra successiva esperienza in montagna mi ha garantito…
Ciao!
credo che l’idea di libertà in cui credeva e aspirava Kerouk fosse diversa da quella raccontata nel bellissimo scritto di Crovella.
La libertà di Kerouak mi sa che fosse una necessità di liberarsi dalle convenzioni, che poi erano viste come costrizioni, della società del momento. Una società vista come una prigione dove tutti sono inquadrati e che costringe l’individuo a vivere secondo determinati schemi. Crovella nel raccontare le sue avventure giovanili, parla sopratutto di libertà giovanile, quando un pò tutti ci sentiamo ribelli e antinconformisti. Anche se non so quanto veramente consapevoli di questo. La libertà di Kerouak invece, non credo abbia limiti di età. E anche il lavoro credo fosse visto da lui come una forma di prostituzione.
Senza droghe e amore libero ho dei dubbi che sia stata la stessa cosa dei beatnik americani, ma il sentirsi liberi è questione personale. C’è chi si sente libero lavorando in banca e chi solo su una cima. A ognuno il suo.
Con questo non voglio dire che fare orgie e drogarsi sia libertà (anzi, forse non lo è affatto), ma l’ON THE ROAD di Kerouak &C. mi sembra un’altra cosa.
Ho letto i Vagabondi del Dharma un mese fa e mi è piaciuto forse più di Sulla Strada che per me rimane una pietra miliare della letteratura moderna.
Ho iniziato anche io ad andare da bambino in montagna con mio zio, provetto e instancabile scarpinatore, per poi in età adulta iniziare ad andare da solo.
C’è però un’esperienza, non particolarmente legata alla montagna, che mi rimane nel cuore. Ho passato l’infanzia e l’adolescenza in un piccolo paesino a 10km da Cuneo e sotto la casa dei miei nonni scorreva un torrentello quasi sempre in secca d’estate. Del suo corso conoscevamo il tratto che passava nel paese ma spesso a me e ad altri compagni di gioco veniva da chiederci “Che ci sarà oltre? a monte?”.
Un giorno, convincendo a fatica i genitori, partimmo in 3-4 e risalimmo fino a dove era possibile arrivare camminando nel letto del fiume..fu una piccolissima esperienza che però rimase scolpita nelle nostre menti e che raccontammo agli altri per molto tempo.
Splendido!
beata gioventù….beata spensieratezza.
Invidiabile.