Il Club della Pila e le “cappelle”

Il Club della Pila e le “cappelle”
di Carlo Crovella

I ripetuti casi (autunno 2021) di escursionisti sorpresi dall’incombente oscurità, per il ritorno all’ora solare (?!?), mi suscitano sorrisini di tenerezza, ma anche di severo diniego. Insomma, ma dove vivono questi signori? E’ forse la prima volta nella storia dell’umanità che in autunno “torna” l’ora solare?

Tutto ciò la dice lunga sulla superficialità con la quale ci si avventura, oggi, in montagna: gente che inizia le escursioni ad ore non congrue, in questo caso non congrue con l’imbrunire. L’habitus mentale è ormai identico a quello di chi va a fare una corsa nel parco cittadino: lì non ti preoccupi, tanto se viene buio si accendono i lampioni o, al massimo, esci dal parco e ti trovi in una normale via cittadina. In montagna, ovviamente, non è così.

Gran parte delle “cappelle” che si registrano oggi in montagna sono figlie di questo errore nell’impostazione di fondo: si pensa che andare in montagna sia uno sport qualsiasi, uno sport che puoi praticare in alternativa alla corsa al parco o ad una seduta in sala pesi. Invece no: la montagna è severa, se sbagli paghi.

Mi si obietta spesso che “cappelle” se ne sono fatte anche in passato. Vero, se lo intendiamo in senso assoluto. Falso (o quanto meno non preciso), se lo consideriamo in termini relativi. Intendo dire che le “cappelle” sono aumentate in termini esponenziali, molto più dell’aumento (anch’esso marcato) dei frequentatori della montagna.

Non ho statistiche oggettive, ma lo posso assicurare per osservazione diretta.

Io ho avuto la fortuna di esser stato portato in montagna dalla mia famiglia, sempre su itinerari congrui con le mia età (step by step), fin dai miei primi passi: diciamo che faccio gite da metà degli anni ‘60. Nel periodo in cui mi muovevo sotto l’egida dei genitori, ovviamente non avevo ancora la capacità di osservazione che ho poi sviluppato in seguito.

Ho iniziato a prender contezza delle cose della vita intorno ai mie quindici anni (cioè a metà dei ’70), con l’accesso alla scuola superiore. Intendo dire contezza della vita a 360 gradi. Ragionare su questioni politiche, ideologiche, sindacali, culturali, esistenziali mi ha aperto la mente: è stata davvero una grande fortuna.

Sarà per questo fenomeno oppure perché, nel frattempo, ero entrato nella Scuola di scialpinismo, ma dai miei 15-16 anni in poi ho iniziato ad osservare con attenzione tutto ciò che mi capitava attorno sia nella vita di tutti i giorni sia durante una qualsiasi gita in montagna (con o senza sci). E’ un’abitudine che mi ha accompagnato, giorno per giorno, in tutte le fasi della mia vita e che si esprime ancora adesso, anzi…

In montagna questa propensione è diventata “sistematica” una volta che sono passato istruttore (devi sempre tener sotto controllo i tuoi 4-5 allievi) e addirittura “irreversibile” quando sono diventato Direttore della Scuola a metà degli anni ‘80: devi avere tutto sott’occhio e, con 200 persone contemporaneamente in gita, ti si affina a dismisura la capacità di analisi.

A volte, con l’intero gruppone sgranato, fra apertura e chiusura della Scuola ci potevano essere 300 m di dislivello e forse anche di più. L’occhio del Direttore diventa quello di un falco e nulla sfugge: ti basta vedere uno laggiù e da come cammina, dove si sta indirizzando, che diavolo sta combinando ti si rizzano le antenne: un “colpo” di radio rimette subito le cose a posto.

L’evoluzione dell’intero scialpinismo ha successivamente comportato una riduzione numerica dei partecipanti alle uscite della nostra Scuola (ora si hanno molte più opportunità per accedere a questa disciplina), ma ancora oggi le uscite invernali registrano almeno 100 partecipanti (60 circa quelle primaverili in rifugio e in quota). Quindi l’occhio di falco deve esserci anche da parte degli attuali Direttori (e in effetti c’è, eccome), perché il gruppo non va mai lasciato a se stesso.

Questo approccio diventa irreversibile, come ho detto, e ti resta addosso anche dopo, quando hai terminato il periodo da Direttore. Anzi l’approccio ti resta per sempre ed emerge addirittura nelle uscite private in montagna, durante le quali (camminando per i fatti tuoi) inevitabilmente l’occhio registra silenziosamente tutto quello che accade intorno a te. TUTTO.

Nelle uscite private l’attenzione è spesso attirata dal comportamento degli altri individui: i compagni di giornata in primo luogo, ma poi anche gli estranei che si incontrano lungo il percorso o di cui si notano le precedenti tracce sul terreno.

Il tutto si verifica anche d’estate, ma durante i mesi innevati i segnali sono ancor più evidenti: le tracce dei giorni scorsi restano fino alla prossima nevicata. Camminando sopra pensiero, noti subito i “tagli da urlo” su pendii semiverticali, le serpentine in canali stracolmi di neve, le tracce sottovento subito sotto ai crinali spazzolati da Eolo sul versante opposto e chi più ne ha più ne metta. Insomma ti guardi intorno e non vedi altro che cappelle a non finire.

Posso assicurare che dall’anno 2000 (circa) in avanti questi segnali “squinternati” sono aumentati a dismisura, in particolare poi negli ultimi 10 anni: ecco perché sostengo che “cappelle”, oggi, se ne facciano molte di più che in passato. Pare ormai che andare in montagna sia la quintessenza del fare cappelle.

C’è però una questione che si intreccia, ovvero l’aumento delle cappelle percepite. Si tratta della loro enfasi conseguente all’effetto mediatico. Un tempo se quattro gadani si perdevano o facevano un taglio da urlo, al massimo lo sapevano i loro famigliari e gli amici stretti. Prima tutti strizzavano, poi (scampato il pericolo) si rideva insieme, magari davanti ad un bicchiere di rosso.

Oggi, invece, qualsiasi evento viene immediatamente sparato ai quattro venti dai giornali, da internet, dalla TV. Le cappelle diventano di dominio pubblico. Si ha quindi la percezione che viviamo attorniati dalle “cappelle” dei gadani.

C’è purtroppo una conseguenza perversa: l’enfasi mediatica invece di rafforzare il timore reverenziale verso il pericolo, sdogana la gravità delle cappelle. “Che sarà mai se ho fatto tardi, se mi son perso, se ho tagliato un pendio sottovento? Capita così spesso, vuol dire che è fisiologico, è normale. Lo fanno tutti: prendi il giornale e leggerai mille altri casi, non farla lunga, dai, non rompere le palle…”

E’ questo modo di ragionare che non va bene. Occorre invece martellare sul concetto che in montagna, per prima cosa, non si deve proprio sbagliare (né orario, né percorso, né compagni di gita, né altro…) e, in via subordinata, devi esser attrezzato ad affrontare le avversità. Attrezzati mentalmente, emotivamente e tecnicamente.

Anche questo secondo concetto oggi è molto sottostimato (addirittura disprezzato), perché viviamo in tempi in cui l’umanità “crede” ciecamente che il cellulare risolva ogni problema. Equiparare una gita in montagna ad una corsetta nel parco ti porta a non avere con te quei piccoli oggetti che, in situazioni di emergenza, ti possono salvare la vita o, quanto meno, attenuano il disagio degli imprevisti.

Quasi mai, oggi, il piccolo kit di emergenza viene messo in fondo allo zaino. Ciò accade per esigenze di leggerezza, connesse all’ambizione di realizzare performance di rilievo (tanto dislivello in poco tempo o un grado in più sulla roccia o cose del genere).

Invece non sai mai quando la montagna ti riserva sorprese e occorre avere sempre con sé, anche nelle escursioni più banali, un kit di emergenza: pila, telo termico, guanti e berretto pesanti, magari un cambio intimo “asciutto”, calze spesse e calde, un po’ di cibo e di bevande in più, fino a comprendere (ma qui siamo nella fantascienza organizzativa) anche i fiammiferi antivento… Inoltre dò per scontato che, nonostante l’era digitale, si abbia sempre con sé una cartina della zona.

Questo vale durante tutti i dodici mesi, ma ovviamente nel periodo invernale vale ancor di più: giornate corte, temperatura che si inabissa col buio, condizioni meteo potenzialmente più severe, ecc. Quindi non si tratta di una precauzione solo per scialpinisti ma per tutti coloro che si muovono in montagna nei mesi freddi (dal primo autunno alla primavera piena): ciaspolatori, escursionisti, cascatori, cercatori di funghi…

Piccola parentesi: nella patta del mio zaino, oltre ad un coltellino svizzero (versione small), c’è sempre un fischietto. “Un fischietto? Ma devi forse arbitrare una partita di calcio in vetta? Che ridere…”.

Il fischietto serve per farsi localizzare in particolari condizioni meteo (nebbia, buio, bufera, soprattutto NO campo cellulare). In una vita intera di gite in montagna il fischietto serve forse una volta, al massimo due: ma se, in quelle specifiche volte, non hai con te il fischietto, rischi di non esser trovato in tempo dai soccorritori.

Come potrebbe andare a finire, anche senza fischietto? Nessuno lo saprà mai, me nel dubbio meglio avere il fischietto. Siccome non si sa mai quando accadrà questa eventualità, il mio fischietto sta sempre nella patta del mio zaino. Pesa praticamente niente e, se dovesse mai servire, è a portata.

Nota didattica: il fischietto non si usa a casaccio. Le regole internazionali sono le seguenti: chi richiede aiuto deve fare un trillo ogni 10 secondi (sei trilli al minuto), con un minuto di intervallo prima di ripetere e così via. I soccorritori risponderanno con un trillo ogni 20 secondi (tre al minuto), con l’accortezza di inserirsi nel minuto di intervallo del richiedente, una volta intercettati i suoi trilli. Inutile avere il fischietto se non si conoscono le regole d’uso. 

Un altro aggeggio staziona sempre nella patta del mio zaino: una semplice pila (frontalino). Pesa poco e può tornare utile quando meno te lo aspetti: l’ho con me anche quando, in montagna, faccio due passi dietro casa, specie d’inverno (ma non solo). “La montagna è severa”, diciamo noi della vecchia guardia, cioè la montagna non ti manda un WhatsApp per avvertirti che quel giorno ti aspettano dei contrattempi.

Tra l’altro, volendo richiedere aiuto con la pila le regole sono le stesse del fischietto (ovviamente con i lampi al posto dei trilli).

In un articolo di Antonio Giaimo, pubblicato su La Stampa – Cronaca di Torino l’8 novembre 2021, è raccontata l’avventura di un escursionista che, mi pare “cappellando” ben bene l’orario di partenza (si parla di partenza pomeridiana a fine ottobre…), si è trovato al buio e senza campo del cellulare. Però (sarà l’età: 70 anni) ha dimostrato di esser anche lui della vecchia guardia e infatti aveva con sé la pila, pur essendo partito semplicemente per cercar funghi.

Grazie alla pila, costui è riuscito a rintracciare una baita dove, bene o male, ha trascorso la notte incolume. Chissà come gli sarebbe andata senza pila: forse avrebbe bivaccato all’addiaccio dove di trovava (non sappiamo con quali conseguenze…) oppure avrebbe tentato di forzare la discesa alla cieca, ficcandosi in chissà quali guai. Magari non sarebbe necessariamente morto, ma insomma: la pila gli ha tolto le castagne dal fuoco, questo è innegabile.

L’episodio mi ha fatto tornare in mente una certa squadra di sucaini torinesi che, con humor britannico tipico qui da noi, si erano autodefiniti Il Club della Pila.

Erano istruttori incalliti della Scuola, ma nelle loro gite private facevano spesso notte e utilizzavano quasi sempre la pile per tornare all’auto: per questo si sono autodefinitì così. In realtà erano tutt’altro che alpinisti inesperti e svagati: si trattava di vere e proprie “volpi di montagna” come raramente ne ho conosciute.

I loro non erano quindi degli errori, anzi. Piuttosto amavano volutamente impegnarsi in micidiali sgamellate. Si chiamano così in piemontese, da gamèl, cioè cammello: animale inossidabile e complessivamente taciturno, adatto a lunghi e tormentati percorsi in condizioni proibitive. In genere il cammello non protesta durante la marcia: fa scorta d’acqua all’inizio e poi la utilizza pian piano e nelle gobbe ha immagazzinato del grasso da cui trae nutrimento lungo il cammino. Nel nostro giro torinese si dice: “Marcia, ca’t fa bin!”. Ovviamente in silenzio.

Ricordo bene questi amici di una generazione antecedente alla mia: le loro interminabili traversate sciistiche in valloni selvaggi oppure le loro infinite arrampicate su creste dai mille torrioni erano così lunghe e impervie che quasi inevitabilmente, nel ritorno, li coglieva il buio. Ma ho già detto che non erano “cappelle” le loro, bensì scelte ponderate e gestite con grandissima esperienza. Sono stati degli ottimi istruttori e anzi sono stati, per me, dei veri Maestri: per esempio da loro ho imparato come si organizza adeguatamente lo zaino. Cosa si deve metter dentro e in che ordine.

I loro nomi quasi mai sono arrivati alla grande storia dell’alpinismo, ma per me sono davvero stati dei Maestri. Essere ottimi istruttori è cosa assai diversa che esser grandi alpinisti, anzi spesso le due cose sono antitetiche.

Sono rarissimi gli alpinisti di rilievo che sono stati anche efficaci nella trasmissione didattica. E’ una dota che si sta perdendo perché la società del “no limits”, che spinge sempre verso il violare i limiti (in genere tecnici – gradi di difficoltà – oppure atletici – tanto dislivello in poco tempo) sta spegnendo la propensione didattica anche in quei pochi alpinisti “impegnati” che l’avrebbero genuinamente.

In passato non era così: ovviamente io sono condizionato dalla nostra storia torinese, nella quale nomi anche molto altisonanti (Gervasutti per citarne uno, ma ne abbiamo decine e decine…) non avevano remore a trascorrere intere giornate con modestissimi allievi cui insegnare i “trucchi” della nonna per cavarsi d’impaccio e tornarsene a casa, anche senza ambizioni di grandi imprese.

Io ho avuto dei Maestri cui sono molto riconoscente e una bella fetta della mia disponibilità verso le giovani generazioni di allievi deriva proprio dal desiderio di riversare a loro quella “generosità d’animo” che ho ricevuto dai miei referenti, il primo dei quali è stato sicuramente mio padre.

Servono tutte queste cose (la pila, il fischietto, la borraccetta in più…) per andare più forte in montagna? Certo che no! Anzi, teoricamente appesantiscono lo zaino… Servono per fare un grado in più sulla roccia? Certo che no! Servono per sciare in canali ripidi e ripidissimi? Certo che no!

Ma allora a cosa servono? Semplice: ad aumentare le chance di portare a casa la pelle quando le cose si mettono male. Tutto qui: il bravo istruttore questo insegna, saper portare a casa la pelle.

Sempre più raramente, oggi, questa impostazione è nelle corde dell’alpinista di punta anche quando partecipa alle uscite di una qualsiasi scuola. Ma la maggior parte della gente (uscita da scuole o meno) alla fine dimostra di muoversi con preparazione abborracciata. Allora quello che dobbiamo insegnare loro è evitare di fare “cappelle”.

L’estrema difficoltà lasciamola a chi è dotato di natura: quello non ha bisogno della pila di riserva nello zaino, tutti gli altri sì.

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Il Club della Pila e le “cappelle” ultima modifica: 2022-01-31T05:49:00+01:00 da GognaBlog

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45 pensieri su “Il Club della Pila e le “cappelle””

  1. Mi/ci fa una foto? No perchè lei ha commesso tre errori madornali. Primo, non mi ha salutato. Secondo, non mi ha chiesto se mi poteva rompere le palle. Terzo, non mi ha chiesto se per piacere le potevo fare una foto. Se la foto è così importante si porti il cavalletto. La maggior parte se la prende, rarissimi ci ridono sopra, io sempre. Ma tutti questi, quando non c’era lo smortfon come pene facevano? Di macchine fotografiche ne ho sempre viste in giro pochissime.

  2. Ah sì sì, hai perfettamente ragione. Ormai viviamo nella società del “cannibalismo” elevato a sistema. Io stesso me ne rendo conto dal mio personale punto di osservazione (piccolo, ma molto acuto), confrontando la gente che avevo intorno negli anni ’70-80 con gli attuali viventi. Nel mondo nel lavoro (pur considerandomi fortunato perché la Torino sabauda-in cui vivo e lavoro- è decisamente poco cannibalesca ancor oggi), in genere la mentalità è completamente cambiata in 40-50 anni. Il cliché dell’attuale società è la CIALTRONAGGINE: approssimazione, superficialità, coglionaggine e chi più ne ha più ne metta. Hai ragione anche sul fatto che, raffrontata all’intera società, la comunità dei frequentatori della montagna ha probabilmente un tasso di cannibalismo (=cialtronaggine) ancora abbastanza limitato. Tuttavia siccome questo spazio web è incentrato sulla montagna (e non sulla società in generale), qui mi limito a parlare dei coglioni (ops… dei cannibali) che infestano la montagna. La mia politica di “più montagna per pochi” questo obiettivo ha da almeno una 15cina di anni: ripulire la montagna dai cannibali o almeno ridurli fortemente. Basta rendere la montagna più scabra e severa: meno strade, meno impianti, meno rifugi, meno indicazioni, meno comodità… e meno soccorso alpino. Se i tre protagonisti di cui ci hai parlato avessero passato la notte all’addiaccio (anziché chiamare i soccorsi con il telefono), avrebbero provato sulla loro pelle i morsi del freddo. Da cui solo una delle due conseguenze: o sui facevano furbi e avrebbero cambiato il loro modo di affrontare la montagna, smettendo di essere cannibali o concludevano che la montagna non fa per loro e mollavano di andarci. In entrambi i casi, ci saremmo liberati di tre cannibali. Mi augurerei la prima ipotesi, ma non ci credo più nell’umanità, e quindi auspico la seconda. Se desideri metterti in linea con le puntate precedenti su questo tema, utilizza la funzione in altro a destra nel blog. Scegli una parola chiave e il sistema ti scarica tutti i miei articoli che sono stati pubblicati qui sull’argomento. Ciao!

  3. Purtroppo comportamenti cannibalistici abbondano in cronaca(  in strada, lavoro, pareti domestiche) e non avvengono nell’ambiente della Montagna che almeno percentualmente si salva .In questi incidenti  parecchio contributo e’ non l’errore umano ma il menefreghismo di regole :tasso alcoolico 3-4-5 volte oltre, norme di sicurezza sul lavoro non attuate sia  da parte degli imprenditori e tecnici ma anche  dei lavoratori e la lista continuerebbe..dove c’e una regola scatta l’elusione o la trasgressione deliberata. Abbonda anche il cannibalismo finanziario …criminilità all’assalto  di ogni appalto o ecobonus..

  4. @41. Sei relativamente giovane, come anzianità di questo Blog, per cuo non c’eri quando già anni fa ho spiegato perché a Torino (meglio: in un certo spaccato socioculturale di Torino) è diffuso l’uso del termine cannibali. Non ha niente a che fare con il mangiare i propri simili, ma viene usato come sinonimo di selvaggii, non civilizzati. Lo si usa in senso metaforico, ovviamente. Significa: non sai comportarti come si deve, perché non sei stato educato secondo standard da paesi civilizzati. È ovvio che è un retaggio del passato, quando i cannibali erano immaginati con l’anello al naso e mangiavano altri umani proprio perché non dotati dei nostri valori  etico-morali. Da noi il termine cannibale, usato metaforicamente, non è esclusivo della montagna. Ogni volta che uno dimostra di non sapersi comportare in modo adeguato al contesto in cui si trova, si rivela un cannibale. Per farti capire: se uno va alla prima della Scala in short e infradito, anziché in smoking (o abito scuro), è un cannibale. Di fatti noi usiamo spesso il termine nel linguaggio colloquiale  anche riferendolo a contesti non alpinistici. Sta di fatto però che, nel giro alpinistico da cui provengo, il termine cannibale è molto usato con riferimento dell’inadeguatezza in montagna. I tre di cui hai raccontato sono un esempio autoesplicativo di cosa intendiamo per cannibali. Non co sono parole più azzeccate di quanto hanno fatto loro per spiegare cosa siano i cannibali. Ciao!

  5. “Imbranati” se si trovano difficolta’ eliminabili e prevedibili ma si riesce a cavarsela da soli, e poi  si rimedia. Cannibali perche’?? In  senso figurato  cannibalismo è un termine che indica la pratica del “mangiare” i propri simili.Ovvero  di sottrarre ,per bazzeccole , impegno ed energie   ai soccorritori e alla sanità,  degni  di essere impiegati per casi  estremi veramente  gravi .

  6. Oggi conclusa tristemente la vicenda del Bambino  caduto nel pozzo, in Marocco. Giorni di scavi, potenti mezzi messi in azione  sotto le telecamere e centinaia di persone col fiato sospeso, volontari, diffusione globale , ..quando con un piastrone pesante  posto sopra l’imboccatura, anche a mano con poche braccia scelte tra centinaia venute dopo, .niente sarebbe successo!.Rendono molto MEDIATICAMENTE  i documentari-reality sulle azioni dei soccorritori del soccorso alpino,pero’ chi vuole una istruzione tradizionale PREVENTIVA POCO MEDIATICA, TROVA!https://www.trekking.it/i-nostri-consigli/preparare-lo-zaino-6-mosse/O WEB “come preparare lo zaino per alpinismo”anche con filmati per chi non ha un buon feeling con lettura( 1 saper leggere, 2 comprendere, 3 applicare, 4 valutare tra diverse opzioni e scegliere  la migliore, 5 fare revisione critica delleesperienze)

  7. Episodio calzante e illuminante. Chiara dimostrazione di quanto siano numerosi e infestanti i cannibali. Lo sono in montagna, tema base di questo blog, ma lo sono nella vita di tutti i giorni. Difficile che tre storditi del genere, in città siano maturi, responsabili e consapevoli. Sono squinternati nella quotidiantà e  la trasportano in montagna.  Specie nell’attuale società detta “liquida” (definizione del noto sociologo Bauman), io verifico che l’umanità è fondamentalmente costituita da individui squinternati (da me detti cannibali). Per noi, appassionati “veri” della montagna, il problema è chiaro, ma grave: la maggior facilità di accesso alla montagna (in termini di fruitori), avvenuta dal 2000 circa in poi, ha aperto le porte a moltitudini sconfinate di individui, che in gran parte sono squinternati, cioè cannibali. Ce li troviamo fra i piedi anche nel nostro mondo ideale, cioè fra le vette. Ma la domanda chiave è: che ce ne frega di tutti ‘sti cannibali? Portano forse un valor aggiunto al mondo dell’alpinismo? Ma no, solo fastidi, costi aggiuntivi, scempio, sporcizia ecc ecc. Non credo che neppure i costi finanziari (come le fattura del soccorso a ‘sti tre fenomeni) faranno da deterrente, anche perché spesso c’è papino che ci pensa. Sarebbe stato meglio lasciare quei tre a passare una notte all’addiaccio, anche senza conseguenze fatali. Il morso del freddo sulle loro carni avrebbe fatto capire il vero valore della montagna. La speranza mia è che il morso del freddo li convinca a cambiare sport.
    Non sono a favore della chiusura apriopristica per i non avvezzi. Anzi, la mia vocazione didattica è principalmente destinata agli inesperti. Ho contribuito a forgiare decine, forse addirittura centinaia, di allievi. Però mi fa piacere che uno si rivolga a me, o a qualsiasi altro “istruttori” (del CAI, amici, guide ecc)  e dica “Di montagna non so nulla, per favore mi insegni?”. Ne ho presi, di “impediti”, a vagonate e li ho portati ad avere consapevolezza dell’andar in montagna. Ogni volta che incontro un allievo (e con 40 anni da istruttore alle spalle, di allievi ne incontro a dozzine ogni stagione…) non fanno altro che ringraziarmi sperticatamente perché ho insegnato loro come si va in montagna con la testa sul collo. Magari, a suo tempo, in vetta ad una scialpinistica con la scuola, ho fatto smontare, a quelli del mio gruppo, lo zaino e sono passato a controllare cosa avevano e come lo avevano riposto nello zaino stesso. Se ho insegnato loro alcuni trucchi della nonna, come avere un fischietto e con quali modalità usarlo in caso di necessità, non mi hanno riso in faccia: ne hanno fatto tesoro e, appunto, se mi incontrano dopo magari 30 anni, mi ringraziano di cuore. Nessuno dei nostri allievi è un cannibale. Per quel che mi risulta, tutte le scuole del CAI hanno questa impostazione.

  8. 15)La sai l’ultima?  senza  guardarsi in giro  in situazione , basta sbirciare nei giornali online, cronaca  friulana di sabato 5/02
    “Si è concluso poco prima delle 22 di ieri, giovedì 3 febbraio, un intervento dei soccorritori della stazione di Forni Avoltri assieme a quelli della Guardia di Finanza – sei persone in tutto – , che hanno raggiunto e scortato a valle a Dierico tre giovani che avevano in progetto di andare a passare la notte al Bivacco Del Mestri, nel gruppo del Sernio Grauzaria, Alpi Carniche Orientali, ma durante la salita, prima di raggiungere il bivacco, si sono trovati in difficoltà per la neve presente sull’itinerario.I tre si sono fermati una volta arrivati nei pressi del Foran de La Gjaline, ad una quota tra i 1200 e i 1300 metri, anche per il sopraggiungere del buio. A seguito della richiesta di soccorso, è stata attivata la stazione di Forni Avoltri del Soccorso Alpino con la squadra di Paularo. I soccorritori hanno raggiunto a piedi il gruppo poco dopo le 20, accompagnandolo in discesa.I giovani si erano ritrovati in difficoltà a causa di un tratto con neve, che li ha affaticati e resi fradici, anche perché non indossavano calzature né attrezzatura adeguata ad affrontarla. ”
    In pratica erano carenti in tutto, tranne che nel telefonino per la chiamata. quindi ormai la discussione e’ chiusa. Anzi no, per i tre arriveranno le fatture, non essendovi ragioni sanitarie..

  9.   36)pienamente in accordo…esercitarsi e poi applicare anche improvvisando e variando ed adattandosi.Vale per molte attivita’ ed apprendimenti.

  10. Guardate che passate da un equivoco all’altro: io faccio riferimento alla “praticaccia”, di cui eventualmente le lezioni teoriche e/o lo studio a tavolino dei manuali sono un prerequisito, ma non la sostituiscono mai. Per tornare all’episodio del bivacco imprevisto, tutti i partecipanti “sapevano” cosa fare e come farlo, perché lo avevano provato diverse volte in esercitazioni pratiche. In quel periodo, infatti, io avevo inserito l’obbligo di esercitazione di notte in truna, almeno una volta a stagione (ovviamente durante le uscite della scuola). Nelle esercitazioni era concesso, o meglio era “non vietato”, l’uso del fornelletto per scaldare una minestra serale e l’uso di sacco a pelo e materassino per la notte. In realtà caldeggiavano di provarsi durante l’esercitazione simulando il bivacco imprevisto, laddove ti trovi coinvolti SENZA fornelletto né sacco a pelo. Questo proprio perché le reazioni ad una notte all’addiaccio sono molto soggettive e ciascuno deve provarle sulla sua pelle per capire cosa predilige il suo fisico. C’è chi preferisce il passamontagna e chi un berrettone spesso, chi la canottiera della mamma (a fil di pelle) e chi la maglietta hight tech, chi mangia una barretta e chi ha bisogno di speck e toma… I presenti al bivacco imprevisto di cui soipra avevano alle spalle almeno 3-4 esercitazioni di quel tipo: ecco perché nessuno ha battuto ciglio. Tutti sapevano già. Lo stesso vale per i rimedi della nonna su cui è incentrato l’articolo: io stesso ho imparato moltissimo, dai componenti del Club della Pila, in termini di “astuzie da vecchia volpe” e, quando ero responsabile della scuola, ho sempre improntato la didattica a tal fine, piuttosto che su nozioni teoriche. (Segnalo per inciso che molti miei successori sono risultati allineati a questa ideologia). In alcuni casi, però (come nella tecnica di scavo di cui abbiamo parlato un mesetto fa), prima di buttarsi a scavare a vanvera, occorre studiare la procedura a tavolino, ma poi bisogno applicarla in RIPETUTE esercitazioni, in modo tale che, se dovesse servire per emergenza, “sai” cosa fare e come farlo. Tutto l’andar in montagna deve diventare un riflesso condizionato: lo fai, nelle diverse situazioni, proprio perché hai memorizzato le procedure, a tavolino dove necessario e poi sul terreno. L’approccio dominante ai giorni nostri nel mondo dello scialpinismo è invece “mordi e fuggi”: vai quanto ti pare, come ti pare, dove ti pare, tanto “puoi” tutto. Solo che la montagna è sempre la stessa, anzi si è perfino incattivita (per le conseguenze dei cambiamenti climatici)… ecco perché si vedono tante cappelle in giro.

  11. 32) l’esperienza aiuta, ma a volte non si torna dalla prima esperienza che dovrebbe fare da monito.Una scappatoia per sfuggire ai maestri-istruttori   potrebbe essere  infilarsi di proposito in situazioni disagevoli ma fuori casa .Per esempio girare in bici nella nebbia fitta, dormire al freddo sul poggiolo, , prendersi acqua o grandine con fulmini che fioccano tutto intorno ..e una persona fidata che ci segue in auto col riscaldamento funzionante o un rifugio a portata . Allora l’utilita’ di aggeggi che pesano nello zaino  ci convincera’ piu’di mille lezioncine e manuali. Comunque meglio avere un istruttore o insegnante(o manuale  cartaceo o elettronico)che  spiega troppo che uno che omette e sorvola. Dice proverbio Fassano”Guai a se lamentar de la suppa grassa!” .

  12. Non mi permetto di commentare ciò che l’Autore dice soprattutto perchè non condivido l’estremizzazione di alcuni concetti che spesso esprime. Resta però il fatto che l’unica struttura organizzata che con metodo porta avanti, con tutti i suoi limiti, la preparazione  di base alla montagna è quella delle scuole CAI. Il lavoro gratuito degli istruttori consente infatti tempi, assistenza e durata dei corsi che altre iniziative, pur valide,  non possono offrire. Tutto ciò anche se il livello di capacità alpinistica  degli istruttori è inferiore a quello delle GA che sono sicuramente dei fuoriclasse . Questo a mio modo di vedere non è un limite poichè lo scopo principale delle scuole CAI è quello della formazione di base non quella dell’accompagnamento. Ribadisco il concetto di “metodo”. Spesso deriso da molti il metodo d’insegnamento ormai perfezionato  in decenni di attività sul campo, consente di creare una formazione di base che spesso torna utile nei momento delle decisioni e di difficoltà. Devo anche confermare le notevoli difficoltà che la struttura delle scuole trova nel reperimento di nuovi istruttori cui viene richiesto un sempre più alto livello di impegno sia personale che didattico. La richiesta di corsi è sempre altissima.  La formazione di base si ottiene solo “spalando neve”  e non certo davanti ad uno schermo che da solo false certezze e rende facile e sicuro  ciò che non lo è assolutamente convincendo purtroppo molti che prudenza e metodo non servono e appartengono al passato.

  13. @32 Quella è la tua convinzione, ma la sbandieri a sproposito, dimostrando che non hai inquadrato il tema. Il concetto dell’articolo è che può capitare anche alle volpi di montagna di “perdersi” in montagna, ma “sanno sempre cosa fare” e come “fronteggiare adeguatamente gli intoppi”. Per saperlo, occorre impararlo. Anche a me e ai mie compari sono capitate quelle cose che tu affermi essere “andare veramente in montagna”, ma le abbiamo gestite a puntino (questa seconda cosa, e non la prima, è il vero sale dell’andar in montagna). Ho già raccontato anche su questo blog (https://gognablog.sherpa-gate.com/nella-taverna-di-lillas-pastia/) di quando siamo incappati in un bivacco imprevisto a 3300 m su un ghiacciaio a fine marzo, durante un raid in sci nella Val Ferret svizzera. Quel giorno i tempi si sono allungati non per errori o cappelle imputabili alla nostra incapacità, ma per le cattive condizioni della montagna nella traversata molto tecnica della Grande Lui. Bene, come ti invito a leggere in quell’articolo, nessuno dei 18 partecipanti al raid ha avuto il minimo timor panico: tutti sapevano “cosa fare” (da come si scava una truna a come ci si prepara per una notte imprevista), tutti avevano le cose giuste per passare la notte (abbigliamento caldo e asciutto, cibo e bevande in più…), ecc ecc, quindi la notte è trascorsa senza nessun rischio e in condizioni accettabili. Tutti sapevano cosa fare e come farlo perché, nelle uscite della scuola, insegniamo ad affrontare i vari rischi della montagna e quindi tutti sono adeguatamente istruiti a fronteggiare ogni tipo di intoppo, compreso il bivacco imprevisto. Al contrario, un cannibale è impreparato, in montagna va di pancia e non di testa: può darsi che sopravviva anche alla notte, come la “tutina” di cui abbiamo parlato qualche settimana fa, ma è più frutto del caso (o della sua robusta costituzione) che di una sua programmazione “ingegneristica”. Questo si insegna sicuramente nella ns scuola e, per quello che conosco di persona, anche in tutte le altre scuole (ti assicuro che di scuole ne ho viste di persona a decine, in oltre 40 anni di attività didattica…). Non capire questo concetto basilare, e anzi addirittura rifiutarlo ridendoci sopra, è un ostacolo insormontabile al sollevarsi dal proprio status di cannibale. Poco importa se uno arrampica sull’8c o se scia sui 55 gradi: se non si eleva dal suo status di cannibale, resta un cannibale. Liberissimo tu di preferire questa tua situazione (se davvero è quella che ti contraddistingue), ma altrettanto libero io di stigmatizzare i cannibali.

  14. “Difficile quindi che faccia cappelle. Non imposdibile, ma statisticamente difficile. 
    Ribadisco: chi non si è mai perso nella nebbia, chi non si è mai infilato su nel canalone sbagliato, chi non ha mai perso una traccia o una via, chi non ha mai fatto notte o ravanato in posti improbabili, chi non ha mai dovuto ritirarsi, chi non ha mai sbagliato una valutazione e commesso una “cappella”, non è mai andato in montagna sul serio.

  15.  Fatto 30, facciamo 31:non dimenticate  la chiave di riserva  di apertura porte auto .. qualche compagno di gita  aveva  abbassato le sicurezze e chiuso le porte e ..la chiave maestra era ancora inserita nel cruscotto.(vecchi modelli) Fortuna che la seconda chiave era   occultata ma accessibile dall’esterno , prontamente recuperata a fine gita quando  verso  sera  i gradi di temperatura scendevano rapidamente sottozero..il parcheggio era vuoto e mancavano i telefonini.. Se gli struttori sono inascoltati o suscitano persino polemiche un po’ e’ colpa chi  non ascolta  e non mette in pratica, un poco FORSE per lo stile di chi  impartisce istruzioni. Forse troppo martellante o scaricante una valanga  di  conoscenze  in poco tempo, che causa indigestione e non viene assimilata.

  16. Cappelle, cannibali, detti dialettali, sono espressioni a la Tognazzi (grande attore) di un tempo. Ho un amico d’infanzia che fa le stesse e identiche battute di quando avevamo 10 anni. Dice da 50 anni le stesse cose esattamente nello stesso modo. Ride solo lui e la moglie lo cornifica pure. Poraccio.

  17. Le scuole CAI non sono ovviamene l’unico contesto in cui imparare ad andare in montagna con giudizio e maturità, ma certo sono il più rilevante di tali contesti. È molto raro che chi esce da queste scuole, dopo un adeguato ciclo didattico di 3-4 anni almeno, abbia un approccio superficiale e approssimativo. Difficile quindi che faccia cappelle. Non imposdibile, ma statisticamente difficile. Non fosse altro che abitudine, uno assimila un certo imprinting e lo mantiene per tutta la vita. Un po’ come citava Pasini per le corse: se c’è qualcuno che ti “obbliga” ogni volta a fare così e cosa’, alla fine ti si memorizza dentro. Vale per lo scialpinismo, ma vale per qualsiasi disciplina di montagna: difficile che chi esce dalle scuole (a meno che registri solo due uscite in croce), in roccia faccia sicura alla viva il parroco, come invece si vede così spesso in giro… Il numero del gruppo in gita non solo non incide negativamente su tale discorso, ma anzi aumenta l’efficacia dell’insegnamento. Non potremmo permetterci di avere un pancia dei cannibali, non riusciremmo a starci dietro. Per cui i gruppi si muovono con grande efficacia didattica. Se vuoi “sopravvivere” nell’ambiente, ti devi svegliare e anche alla svelta…

  18. Ti dimentichi sempre di una r. Mi chiamo Crovella, non sai neppure leggere. E poi perché dovrei mettere in riga la ns scuola? Esistiamo da 70 anni e da sempre formiamo scialpinisti maturi e consapevoli e non dei cannibali. A proposito, anche qui arrivi tardi: ho già spiegato milioni di volte che a Torino, almeno in un certo spaccato della Torino alpinistica (quello che frequento io), il termine “cannibale” è di uso abitiale e storico, sono decenni e decenni che lo usiamo e noi sappiamo benissimo cosa intendiamo. Termine più azzeccato non c’è.

  19. “ha successivamente comportato una riduzione numerica dei partecipanti alle uscite della nostra Scuola [..], ma ancora oggi le uscite invernali registrano almeno 100 partecipanti (60 circa quelle primaverili in rifugio e in quota)”
    Covella, queste cose le hai scritte tu, non io.Prima di distribuire la tua saggezza contro i cannibali (che termine insulso, tra l’altro) qui, pensa a mettere in riga la tua scuola CAI.

  20.  Cosa portare nello zaino  e cosa lasciare a casa  in rapporto a quanto peso massimo  è sopportabile?
    http://www.or.deis.unibo.it/knapsack.html
    https://it.wikipedia.org/wiki/Problema_dello_zaino
    giusto per sterilizzare le polemiche ed affrontare da un punto divista razionale.
      Si chiude una porta e se ne apre un’altra: , il peso massimo e’  individuale e poi chi e come si valuta l’utilita’ Ui di un oggetto I che pesa Pi ??La somma dei pesi non deve superare il peso massimo previsto e si deve ottenere la massima utilita’ complessiva..Per alcuni  Ui  e’ 1(cioe’ immancabile) e per altri vale   qualcosa fino  a zero. Quindi Portare o no la torcia elettrica (o altro attrezzo) è  faccenda individuale e variabile a seconda dell’impresa da affrontare , non ci sono  regole…ma opportunità.Importante innanzi tutto e’ averne una efficiente con pile di riserva messa sul tavolo  e sottoposta a esame di utilità  versus peso nel riempire il sacco. .Se manca  nelle disponibilita’ , non entra nella valutazione…al massimo ci si sente inadeguati ,si rischia , e prima o poi si compra.L’ideale e’ che  la somma dei pesi di tutti gli oggetti a disposizione, sia sempre meno del peso massimo sopportabile,  quindi meglio  avere un fisico bestiale…o allenarsi a portare sempre pesi maggiori… anche  sulle scale di casa. Alcuni alpinisti erano noti sbolognatori di proprie attrezzature ad altri della comitiva… e  questo sbolognamento  di pesi e preoccupazioni ed incombenze si verifica in molte altre situazioni della vita..
     
     

  21. Insegnare  e’ necessario ma non sufficiente, bisogna avere un buon metodo.C’e’ chi  addestrando ha difficolta’ con 2 allievi e chi  ne  gestisce efficacemente decine .Per apprendere e introitare i vari insegnamenti  e metterli in pratica..le vie sono infinite.Molti si regolano imitando gli altri, per cui dopo la lezione , bisogna  fornire un buon esempio..   altrimenti fanno scuola le cappellate .  Personalmente ho caricato in ambualnza sciatori senza caschetto ma con un vezzoso foulard a bandana ed una altro legato al ginocchio, lamoda era quella.Trovarsi in difficolta’ a ravanare puo’capitare a molti, se poi nel gruppo c’e’quello che portando peso in piu’ risolve  una situazione, poi bisogna premiarlo..ed i modi di premiare sono parecchi.

  22. Fabio. Dipende sempre dalle persone. Tu puoi fare tutto quello che puoi a livello preventivo, educativo, informativo, di diagnosi precoce, di premi e punizioni ma poi “chi non si salva da se’ non lo salva nessuno”. E su come davvero funzionino gli uomini abbiamo ancora molta nebbia e conoscenze provvisorie. Però è giusto provarci senza schemi preconcetti tipo competizione/prestazione = imprudenza. Lo sappiamo bene entrambi. Ciao

  23. @19 guarda che sono almeno 15 anni, forse addirittura 20, che divulgo l’ideologia di vedere meno cannibali in montagna. Mi sa che ti perso molte cose… fattele raccontate dagli altri che io non ho voglia di riscriverle. Ciao!

  24. ——  DIALOGO  TRA  IL PASINI  E  IL BERTONCELLI ——
     
    P.: «Dipende».
    B.: «Dipende? Da che dipende?».
    P.: «Da come guardi il mondo tutto dipende».
    B.: «Quasi tutto. Ma non tutto: manca il piú importante».
    P.: «E che cos’è?».
    B.: «Eh, questo bisogna scoprirlo da sé, con gli anni. Tu, data l’età e visto ciò che scrivi sul GognaBlog, l’hai già imparato: non fare il finto tonto».
     

  25. Covella, chi va in giro con 60 persone sugli sci, in primavera, ha perso il diritto di dare qualsiasi tipo di lezione, informazione o suggerimento, figuriamoci poi cosa se ne possa pensare della tua idea di smantellare il CNSAS!! Davvero un peccato che tu non abbia un amico che ti impedisca di mandare in vacca tutto ciò che di buono hai fatto nella vita con questi scritti.

  26. A volte le vie della Provvidenza sono meno lineari di come uno se lo aspetta. Nel mondo del trail running, ad esempio, sono proprio le gare, ovviamente quelle in ambiente montano, a svolgere una funzione educativa imponendo dotazioni di sicurezza obbligatorie, ad esempio la doppia frontale o le batterie di ricambio, perché lampadine e batterie possono non funzionare quando ne hai bisogno. Per quello che ho potuto constatare queste accortezze permangono anche fuori gara. Poi per carità tutti facciamo cappelle e può succedere di non avere quello che serve proprio quando ne hai bisogno, però certe cose imposte ti rimangono in testa ed entrano nel tuo schema mentale. Come si è già detto rispetto ad altro, a volte è il comportamento, magari anche “spintaneo” , che genera la convinzione e non viceversa. Quindi competizione e prestazione non sempre sono sinonimo di imprudenza. Dipende.

  27. @11 e 12. Da tempo mi sono convinto che non sarebbe male smantellare il soccorso alpino. Dopo un po’ si diffonderebbe la consapevolezza di quanto sia oggettivamente impegnativo andar in montagna contando solo su se stessi. Questo diraderebbe la presenza futura dei cannibali.

  28. @14 Ho scritto che, per cogliere le cappelle, oggi basta guardarsi in giro mentre si fa una gita. Bisogna avere spirito di osservazione, questo sì.

  29. @13 Arrivi tardi, già spiegato milioni di volte che era un altro mondo. Inoltre il tutto e’ come un esercito, molto ben organizzato, mai visto un cannibale né nelle ns uscite ufficiali né nelle successive gite degli allievi diplomati. Anzi, un nostro allievo lo riconosco da distante per come si muove, come è vestito, la sequenza di quello che fa… c’è un imprimatur nel ns modo di far crescere i ns allievi che resta nei decenni. Inoltre nelle uscite ufficiali il controllo avveniva (e avviene ancor oggi anche se il gruppo e’ fisiologicamente meno numeroso) non solo per l’attenzione del direttore di turno, ma per un’organizzazione molto capillare. Se interessato ad approfondire, ti suggerisco di leggere sul sito ufficiale della scuola. Per quanto riguarda la mia idiosinsacria per i giorni attuali, vedo che non riuscite a cogliere che non è l’affollamento in sé che mi infastidisce, ma l’affollamento di cannibali. Troppi cannibali in giro, troppe cappelle in montagna (e non solo, a dire il vero). Così tanti cannibali negli anni 70 e 80 non c’erano. Oggi sembra che si vadano quasi a cercare le cappelle, come se facesse figo compiere cappelle. Noi insegnavano e continuiamo a insegnare ancor oggi (anche ad allievi anagraficamente giovani o molto giovani) a evitare a priori le cappelle e, in subordine, ad esser preparati per affrontare i mille contrattempi che ti può contrapporre la montagna. Questo è il vero sale dell’andar in montagna, come anchr io a suo tempo ho imparato dai miei Maestri, fra cui quelli del Club della Pila, vere volpi delle nevi e della roccia!

  30. Crovella osserva e ha percezione che le cappelle sono aumentate, non le misura, non ci sono dati raccolti in modo sistematico, insomma fortunatamente nessuno perde tempo a misurare le cappelle, quindi le esternazioni di Crovella non hanno nessun valore, se non anedottico è moralistico. 
    Comunque è sempre in tempo per pianificare uno studio, anche solo osservazione, ma con un preciso disegno e specifici obiettivi, poi magari viene pubblicato dopo una Peer review. 
    Aspettiamo con ansia
     

  31. Crovella! Ti lamenti quotidianamente dell’affollamento, dei “cannibali”, delle “cappelle”, di questo e di quello, e poi si scopre che organizzavi gite con 200 (duecento) persone distribuite su 300 (trecento) metri di dislivello… ma naturalmente riuscivi a controllarli uno a uno (e ciascuno contemporaneamente), anche quelli che erano ancora dietro il costone, o non ancora usciti dal bosco (così, per ravvivare un po’ la discussione).

  32. @ albert all’ 11. Preso atto di quello che vedo in giro dalle mie parti, direi che sei l’unico a saperlo.

  33. 8)’Perche’preoccuparsi? Perche’se l’intervento non ha un carattere sanitario ( malessere o incidente) e non si ha assicurazione privata o di Club, si paga tutto di tasca.(  ci sono dei bravi amministratori che fanno inchiesta e spediscono fatture , con tanto diavvocati pronti).Perche ‘ il mitizzato telefonino puo’aver un guasto o trovarsi in zona irraggiungibile tipo valle incassata o non coperta da ripetitori e..perche’ si potrebbe distogliere elicottero da altri interventi tipo infarti o partorienti o incidenti sul lavoroe Perche’meglio non rompere le palle ai soccorritori e  per non essere coglionati nei bar o nel giro di conoscenti..a vita  . Se poi si e’ anche guide “recuperate per una o piu’ frequenti cappellate”, i clienti lo vengono a sapere e forse scartano e ne scelgono altre .

  34. come dice un mio amico guida alpina du una certa….età: ” i vecchi devono stare con i giovani”.
    I giovani imparano qualcosa e i vecchi evitano di ammalarsi di rottura di coglioni.
     
    La wonder o vunder come la chiamava un mio “vecchio” amico e certo che me la ricordo. Scatoletta di metallo per la pila collegata con lungo filo alla lampada da mettere sul casco.

  35. Dalle mie parti le pellate notturne sono una tradizione secolare ante tempi della frontale Wonder, per chi se la ricorda.Nelle vicinanze di certe piste ci sono rifugi dotati di ogni comfort che restano aperti fino a notte fonda per accogliere gli scialpinisti, perlopiù locali, che di giorno fanno altri lavori e quindi non possono andare con le pelli a farsi un giro. Ci si può anche dormire se si esagera con il gomito. Ogni tanto qualcuno si schianta contro un larice e crepa lì al gelo, ma crepa anche lo scialpinista cajota dalle mille patacche, la guida esperta, chiunque insomma.
    Io vado in montagna con una frequenza abbastanza alta e ne vedo di ogni colore ma da sempre. Oggi è cambiata la modalità a causa dei social e delle mode, che da sempre vanno e vengono, ma sostanzialmente penso che ci sarà sempre una parte di cazzoni che farà la loro parte come da sempre.Questo lo dico alla luce del non sentirmi invecchiare nei confronti dei giovani incoscienti di cui sopra, ma se mi metto sul piedistallo dei miei 60 anni (e sono pure guida alpina, uuhh) e li guardo con l’occhio del vecchio che vuole fare la morale, allora mi allineo con il crovell-pensiero. Ma non è del tutto così.Vere cannibalate, mi direte (anch’io la penso così) ma 

  36. Ma perché dovrei preoccuparmi per tutto quello che mi potrebbe succedere e poi servire, e di tutto quello di cui avrò bisogno, quando: “Una telefonata ti allunga la vita”? Il più delle volte a gratis e in alcuni casi con costi ridicoli per tutto quello che viene messo in campo, perché la differenza la pagheranno quelli che le tasse le pagano. Ma chi me lo fa fare? Mettetevi nei miei panni, se ne siete in grado.

  37. Io non ho alcun dato per affermare che le “cappelle” siano aumentate o meno, però sostengo che chi non ha mai “cappellato” tornando a tastoni la notte o perdendo la via su qualche parete, chi non ha mai sbagliato discesa o non ha mai preso qualche temporale o qualche bufera, chi non ha ravanato in posti improbabili, bé, costui non è mai andato veramente in montagna!

  38. Grazie per questi riassunto di sempre ottimi consigli. È vero, purtroppo, che ci sono troppe persone che presuntuosamente si sentono dei Kammerlander incompresi e poi si mettono nei guai per cappelle risolvibili.
    Alex
     
     

  39. Carlo, i benemeriti membri del club della pila erano noti anche come i Gufi! Sempre rientrati a casa, anche a ore piuttosto “tarde”, ma senza mai smuovere i soccorsi per andare a cercarli.

  40. Il Gognablog eleverebbe notevolmente la sua qualità non pubblicando farneticazioni come queste.

  41. “Non ho statistiche oggettive ma lo posso assicurare per osservazione diretta” 
    come dire, “sticazzi le statistiche, fidatevi di me che sono Crovella”  C R O V E L L A 
    anche io non ho statistiche oggettive e osservo direttamente come il web abbia aumentato esponenzialmente in quantità il numero di individui che scrivono idiozie. 

  42. La ferma breve o la mini naja negli alpini potrebbero essere state utili in teoria , poi non saprei come e’ andata…dipende dal programma delle attivita’.Nel paesello, il club  alpino Locale e’ molto attivo nella scuola, specie elementare e media ..ed i  giovanissimi sono come spugne , molto entusiasti e ricettivi.Per le superiori  ci potrebbe essere  attivita’ nel volontariato di montagna  Alternanza       Scuola Lavoro. Comunque  per chi non volesse essere dipendente da esperti, basta saper leggere e capire un testo scritto e mettere in pratica..si possono consultare  sul web i Manuali del Cai ed altri… e persino corsi  filmati didattici.Per chi ridacchia al consiglio dell’intimo asciutto , si vede che non ha mai provato il sudore che si ghiaccia e forma una crosticina o una crisi di   evacuazioni ripetute.Ovvio che  ci vuole pure un rotolone o scorta di  tovaglioli o fazzoletti.Vanno bene anche  i pannoloni  maxi per  incontinenti , cosi’ ci si prepara per gli anni che verranno.Per chi teme il peso, si puo’ anche spartire  tra i partecipanti e fare un  controllo    delel dotazioni varie sparse prima di partire.

  43.  Esistono anche torce elettriche   ricaricabili con manovella, che forniscono anche alcuni minuti a cellulare con batterie scariche..basta che ci sia campo , altrimenti..optional fischietto a trillo.Oggi esistono torce a led leggerissime e poco costose…e non sono una spesa superflua..sono utili pure in casa in caso di black out o per giri in bicicletta .   Si organizzano pure gare di sci in notturna con concorrenti muniti di pile frontali.Saper organizzare una discesa in doppia da un poggiolo preventivamente attrezzato.Puo’vernire  utile in caso di incendi interni dato che si legge di  persone che si sono lanciate nel vuoto con gravi conseguenze.. sembra pero’che  PREVEDERE PROGRAMMARE e E ORGANIZZARE SIA FUORI MODA.Basta pensare che,  dopo i noti fatti , nessuno si fosse  premunito di proposte condivise per l’elezione del Presidente della Repubblica…la data di scadenza de lmandato  era nota da 7 anni.Cade a proposito:https://www.ladige.it/territori/fiemme-fassa/2022/01/30/complesso-intervento-di-soccorso-nel-gruppo-del-catinaccio-recuperati-due-escursionisti-scivolati-per-25-metri-1.3117483 ogni lunedi’ si cancella la lavagna con gli incidenti della settimana  prima e si aggiorna.

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