Il Monte Bianco – 2
di Gian Piero Motti
(pubblicato in La storia dell’alpinismo) (GPM-SdA-07)
Dal barometro alla piccozza: il tramonto dell’intento scientifico
Come già si è detto, l’esempio di De Saussure trovò rapidamente imitatori. Per gli studiosi della Natura si apriva un vastissimo campo di studio e di ricerca, un terreno concreto per dar convalida alle teorie formulate sulla formazione dei ghiacciai, delle rocce e dei rilievi.
Così le prime conquiste di vette alpine furono portate a termine da questi alpinisti-scienziati, i quali, però, ben presto furono come attratti e soggiogati dallo straordinario ambiente naturale in cui si vedevano coinvolti. Il timore iniziale che essi avevano provato per questi luoghi orridi, solitari e selvaggi, a poco a poco andava trasformandosi in una sorta di piacere misterioso che si provava in questi luoghi e tra le altezze: i sacerdoti dicevano che ci si sentiva più vicini a Dio; i massoni ed i cultori della Natura giuravano che non vi era nulla di mistico lassù, ma che invece si godeva la Natura, un po’ paganamente, nella sua massima espressione di potenza; gli esteti esaltavano la luce cruda dei monti, le linee dei rilievi, il paesaggio sempre mutevole, i colori delle rocce e dei ghiacci illuminati dal sole.
E fu così che ben presto i vari Franz Joseph Hugi, Louis Agassiz e John Tyndall, geologi e scienziati del tempo, scoprirono anche il fascino dell’avventura in montagna, tanto da divenire accaniti esploratori delle Alpi Occidentali. Anche se i loro resoconti vogliono ancora conservare un tono serio e scientifico, risultando veri e propri trattati pesanti e dottorali, tuttavia essi aprirono il cammino ad un fenomeno più romantico e sentimentale. D’altronde, proprio il Romanticismo tedesco cominciava a farsi strada nella cultura europea, influenzando non poco il pensiero degli altri Stati. Un Romanticismo che sembrava trovare nella natura alpestre il suo ambiente ideale. I silenzi, le cupe foreste di conifere, le ombre dei boschi, i laghi calmi e silenziosi, le bufere, il vento che spazza la neve dalle creste, le gole orride dove si dibattono i torrenti, le masse di nubi bianche e nerastre che si arricciano sui fianchi dei monti, la dolcezza stanca dei tramonti ed il rito arcano e misterioso dell’aurora. Era il mondo ideale in cui l’individuo poteva coltivare le sue esaltazioni e accarezzare melanconie e tristezze sopite, in una continua altalena di gioia e dolore, tale da portarlo a slanci emotivi inauditi per poi subito farlo ricadere in abissali depressioni. Bisogna pur dire che i più restii ad accogliere il pensiero romantico tedesco furono proprio gli inglesi, i quali daranno al Romanticismo un’interpretazione meno lugubre e drammatica, in un certo senso più positiva.
Sempre in seno all’alpinismo inglese si manifesterà anche una tenace opposizione all’alpinismo senza guide, che del pensiero romantico sarà una fedele espressione. Ma su questo punto non tutti sono d’accordo. Vi fu certamente opposizione, fedele riproduzione di un tipico conservatorismo anglosassone, caratteristica saliente di questo popolo durante tutta la Storia. Ma in Inghilterra l’arrampicata su roccia (in Scozia e nelle regioni più meridionali) cominciò ad essere praticata da molti senza guida alcuna, raggiungendo poi un notevolissimo sviluppo come fenomeno a se stante, che poi porterà gli inglesi ad allontanarsi dalle Alpi. Altri sostengono, generalizzando un po’ troppo le cose, che gli inglesi non comprendevano l’alpinismo senza guide perché stavano attraversando un magnifico periodo economico: l’alpinismo era praticato da un ceto sociale decisamente benestante, dove il denaro non costituiva certo problema. Quindi, per costoro, pagare guide e portatori era il modo più semplice e naturale per praticare l’alpinismo, tanto più che l’iniziativa partiva sempre dal cittadino e non certo dal valligiano. Anzi, soprattutto in questo primo periodo, erano proprio i portatori e le guide a dissuadere i cittadini dai loro intenti di salita. Forse gli inglesi dell’epoca videro nell’alpinismo senza guide un rischio inutile. O forse, semplicemente perché non esistevano moventi certi per praticarlo, non lo compresero fino in fondo.
Con questo non si vuoi dire che l’alpinismo inglese fu estraneo al Romanticismo. Quando ancora la scienza dominava il campo sulle Alpi, uno studioso inglese, James David Forbes, già in età matura compie numerosi viaggi ed esplorazioni sulla catena alpina, dapprima sicuramente con intenti scientifici. Ma ben presto, attraverso i suoi scritti, ci appare come un viandante incantato e stupefatto, che vaga di valle in valle e di monte in monte, seguendo un magico filo di Arianna che lo conduce attraverso un mondo di apparizioni sempre nuove e diverse, in un ambiente naturale che sa rinnovarsi ad ogni istante.
A poco a poco l’alpinista-scienziato si allontanava sempre più dal suo intento rigoroso e scientifico, attratto dal fascino puro dell’avventura individuale. E così si giunse a trascurare, nelle proprie ascensioni, gli immancabili ed intangibili barometro e termometro, accantonando una figura, abbastanza risibile, di alpinista che in ogni istante si ferma a compiere misurazioni della pressione e della temperatura. Anzi, si giunse al sacrilegio (ma De Saussure era già morto…), quando, senza tanti scrupoli, si affermò che tali strumenti erano del tutto inutili per salire le montagne!
Ed era pur vero…! È difficile oggi immaginare tutta l’incoscienza con cui costoro frequentavano il mondo assai pericoloso dell’alta montagna. Non badavano certo al pericolo rappresentato dai crepacci e dai seracchi, in quanto non pensavano neppure che potesse sussistere.
Nelle ore calde si avventuravano nei canaloni e sui pendii dove la neve era completamente marcita dal sole, incuranti del grave pericolo delle valanghe e delle cadute di sassi. Ci vollero naturalmente le tragedie dei primi incidenti mortali per far loro comprendere la reale portata di questi pericoli e per far loro capire che l’alta montagna era un mondo estremamente duro e severo e che, in determinate condizioni ostili, non perdonava affatto.
Eppure, già molto prima, il lungimirante dottor Paccard aveva ammonito chiunque sul pericolo rappresentato dalla possibile caduta dei seracchi e dei ponti di neve sospesi instabilmente sui crepacci.
La cosa apparentemente più strana ed interessante è che proprio la coscienza del pericolo portò ad un atteggiamento più leale e sportivo: sorse il gusto dell’avventura, consistente nell’affrontare il pericolo con mezzi sempre più limitati.
Scalare il Monte Bianco: una moda dell’epoca
Ma, per un certo periodo, l’alpinismo divenne persino una moda del tempo, seguita anche da esponenti maschili e femminili del bel mondo dell’epoca. Non furono pochi coloro che vollero salire sul Bianco quasi per capriccio, per vanto oppure per provare un’emozione nuova e diversa su cui tanto si andava discutendo. Così dapprima toccò al famoso Balmat il compito di guidare una giovane cameriera di Chamonix, Marie Paradis, fin sulla vetta del monte (1808). Poi una facoltosa nobildonna francese, canonichessa ma non per questo aliena dal bel mondo aristocratico, volle organizzare ben due spedizioni per raggiungere la vetta. E vi riuscì nel 1838. A proposito di questo fatto, Claire-Éliane Engel nella sua Storia dell’alpinismo (Einaudi, 1965), si abbandona a qualche commento abbastanza pungente. Ci offre della canonichessa Henriette d’Angeville un ritratto di donna un po’ isterica e nevrotica che forse «amava il Monte Bianco perché non aveva null’altro da amare…». E poi pare che Henriette d’Angeville fosse in aperta rivalità con un’altra prima donna dell’epoca e del bel mondo parigino, la baronessa Amandine Lucile Aurore Dudevant, nata Dupin, tipo assai stravagante che si faceva chiamare George Sand e che amava parecchio presentarsi in abiti mascolini… La salita del Bianco di Henriette, prova di virilità, era dunque una buona carta da giocare nei salotti di Parigi…!
E vi fu anche chi speculò non poco sul fascino della montagna, come, pare, quel tal Albert Smith, la cui passione da molti è messa in serio dubbio, se si pensa che l’inglese, patrocinato nientemeno che dalla Regina, ricavò dalle sue esplorazioni e dalle conferenze tenute, qualcosa come 30.000 sterline! Non siamo quindi molto lontani dal professionismo dei moderni alpinisti, su cui oggi tanto ci si scandalizza.
E non molta simpatia riscuote anche John Ruskin, puro ed integerrimo, tutto impregnato di romanticismo vittoriano, poeta e scrittore, che seppe illustrare assai bene certi aspetti della natura alpina. Ma Ruskin aveva avuto un’infanzia molto turbata e difficile, a causa dei genitori estremamente severi e troppo possessivi. Oggi, con un po’ di crudeltà, il «tritatutto» della psicologia lo definirebbe come un soggetto nevrotico o anche un caratteriale. In realtà, a causa forse dei gravi traumi subiti in epoca infantile, aveva probabilmente trasferito gran parte del suo notevole conflitto interiore nell’amore sublimato per la Natura. Un amore un po’ troppo idealizzato ed esasperato, assolutamente platonico e contemplativo. La dura e possessiva figura materna ben si prestava ad essere trasferita nella Montagna, una sorta di Grande Madre vissuta come pura, sacra ed intangibile. Di conseguenza il suo atteggiamento fu duro ed inflessibile verso quelli che, con la pratica dell’alpinismo, profanavano le sue amate «cattedrali della Terra».
Come ben si vede, il vero alpinismo è ancora lontano. Per ora il campo è dominato da inglesi e svizzeri, quasi tutti scienziati piuttosto benestanti. Accanto a loro vediamo guide e portatori indigeni: chiamarli guide, il più delle volte, è certo un premio non meritato, in quanto sovente si dimostrano meno coraggiosi, meno abili e meno desiderosi di compiere l’ascensione dei loro clienti cittadini. Ma il quadro va mutando. Il soffio rinnovatore giunge proprio dalle Alpi Orientali e dagli alpinisti austriaci e tedeschi. A causa della forte spinta romantica ed anche a causa di condizioni sociali, politiche ed economiche differenti, l’alpinismo in questi Stati prenderà una spinta diversa, aprendosi maggiormente verso più larghi strati sociali, però con caratteristiche più individuali. Tanto che, nelle Alpi Orientali, anche le stesse guide montanare svilupperanno un’attività di primissimo piano, disgiunta da qualunque interesse di guadagno. Anche in Italia qualcosa andrà muovendosi, ma in modo assai simile all’Inghilterra; i primi rappresentanti del nostro alpinismo saranno tutti uomini dell’aristocrazia piemontese: nobili, ministri, funzionari di stato, uomini del clero, giuristi e scienziati. Comunque il fenomeno prende considerazione ed assume caratteristiche europee, tali da richiedere le prime organizzazioni. Organizzazioni che troveranno concretezza nella fondazione dei vari club alpini, nella costruzione delle prime capanne e dei ripari (che ancora non possiamo definire rifugi), nella pubblicazione delle prime guide alpinistiche, nello sviluppo economico dei villaggi alpini, dove l’organizzazione a livello ricettivo ed alberghiero diede origine a quel gigantesco fenomeno odierno che è il turismo.
Gli alpinisti inglesi e l’emancipazione delle guide
I contatti culturali avuti con i «signori» di città, non furono certo inutili ed improduttivi per i montanari. A poco a poco essi assimilarono il loro spirito di conquista e cominciarono ad agire non solo in prospettiva di un guadagno, che pur restava il movente primo. I clienti inglesi organizzavano vere e proprie piccole spedizioni per scalare le vette vergini delle Alpi, dove non solo era richiesta la collaborazione della guida, ma anche l’appoggio di numerosi portatori. Naturalmente si concludevano affari d’oro, anche perché gli inglesi, assai facoltosi, non sembravano fare questioni di prezzo.
Indiscutibilmente i valligiani avevano dalla loro una forza fisica superiore ed una maggior resistenza alla fatica. Inoltre, per il fatto stesso che erano cacciatori, cercatori di cristalli e quindi avvezzi alle difficoltà dell’alta montagna, la loro «tecnica», seppur ancora rudimentale, era superiore. Ma toccava al cittadino il compito, non solo di scegliere la vetta e l’itinerario di salita, ma anche quello assai più difficile di invogliare i montanari stessi alla guida. Una volta avvenuta la «messa in moto», sul terreno pratico la guida montanara poteva dare dimostrazione di forza fisica e resistenza non comuni.
Come sempre accade, il contatto tra due culture differenti generò una specie di trasferimento di valori dall’una all’altra. Come si è detto, il cittadino seppe comunicare al valligiano una certa passione per l’avventura che aumenterà sempre più, fino a generare un’iniziativa indipendente nelle guide. Il valligiano seppe dare al cittadino più confidenza con il terreno dell’alta montagna, insegnandogli una tecnica che poi permetterà al cittadino di distaccarsi nettamente dalla guida e realizzare per proprio conto le ascensioni.
Per ora l’esame storico prende in considerazione la prima metà dell’Ottocento, più esattamente gli anni centrali del secolo, periodo chiave in cui venne completata l’esplorazione delle vette sulla catena alpina.
Le guide che agiscono al fianco di questi esploratori inglesi, hanno ormai un carattere ed una stoffa ben differenti da quelli di un Balmat. Ormai esse sono in grado di scegliere l’itinerario per il loro cliente e di trarlo anche d’impaccio nelle situazioni più difficili.
Limitando per ora il nostro esame alle Alpi Occidentali, gli uomini che in questo periodo si misero in luce per il gran numero di realizzazioni, furono i Freshfield, i Tuckett, i Moore, i Walker, i Mathews, che legarono i loro nomi alla conquista di tutte le grandi cime delle Alpi Occidentali. Accanto a loro vediamo guide forti e preparate, capaci di condurre sui terreni scabrosi, culturalmente più raffinate per i contatti avuti con il mondo cittadino.
Tre nomi vengono alla ribalta: Michel-August Croz di Chamonix, Melchior Anderegg di Grimsel e gli Almer di Grindelwald. Furono gli accompagnatori preferiti degli inglesi, coi quali cominciarono ad intrecciare rapporti che rasentavano la vera e propria amicizia.
Gli Almer, Christian e Ulrich, di cui il più famoso fu il padre (Christian), furono le guide di un personaggio straordinario che esplicò un’attività imponente su tutta la catena alpina: il reverendo William Auguste Brevoort Coolidge. Durante tutta la sua lunga esistenza, visitò ogni angolo delle Alpi, esplorando settori ancora del tutto sconosciuti e compiendo un numero impressionante di prime ascensioni. Coolidge lavorava a tappeto e sistematicamente. Chi veniva dopo di lui, nella zona in questione avrebbe trovato ancora ben poco da fare. Al suo fianco Almer dimostrò capacità e bravura in ogni situazione, ma soprattutto eccelleva nel gradinare il ghiaccio per ore ed ore con una semplice ascia di ferro (allora non esistevano i ramponi). Coolidge era un uomo coltissimo ed appassionato di montagna nel vero senso della parola. Lasciò innumerevoli scritti, guide alpinistiche di zone ancora sconosciute, monografie, trattati scientifici. Non per nulla, il periodo collegato a questi uomini fu unanimemente riconosciuto come «l’epoca d’oro» dell’alpinismo.
Melchior Anderegg era un uomo di forza eccezionale, contrastante con il suo animo assai sensibile e con il suo modo di fare più consono ad un gentiluomo di città che ad un montanaro. Fu la guida preferita della famiglia Walker, il cui nome oggi è legato alla vetta maggiore delle Grandes Jorasses (Monte Bianco). L’attività dei Walker fu veramente magnifica e spaziò su tutta la catena alpina. Desta simpatia soprattutto il fatto che tutta la famiglia prendeva parte, sovente, alle ascensioni sulle Alpi. Qui ormai non si può più parlare di scienziati, ma di uomini appassionati all’esplorazione e all’alpinismo, se pur così benestanti da potersi permettere soggiorni di mesi sulle Alpi. Fu proprio la figlia di Walker, Lucy, a compiere con Anderegg la prima ascensione femminile del Cervino.
Assai simile a quella dei Walker, fu l’attività di Freshfield. Anzi vi è da aggiungere che Freshfield seppe anche esprimere un’attività culturale imponente, soprattutto in seno all’Alpine Club di cui fu a lungo presidente. Anche Douglas William Freshfield dedicò praticamente tutta la sua esistenza alla montagna, non solo con l’esplorazione sistematica della catena alpina che produsse, come sempre, decine di nuove ascensioni, ma anche con un profondo lavoro di cartografo. Studioso di ogni aspetto concernente la montagna, lasciò innumerevoli scritti sull’Alpine Journal, la magnifica rivista del sodalizio inglese, che ancora oggi è forse la migliore per completezza e serietà di intenti.
Edward Whymper: l’alpinismo come lotta titanica
Ma su tutti, in questo periodo felice dell’alpinismo, domina la figura di Edward Whymper, il cui nome è conosciuto soprattutto per la conquista del Cervino. Lo spirito agguerrito e combattivo di Whymper ci conduce nel vero alpinismo, dove, per la prima volta, compaiono anche rivalità e competizione.
Giunse alle Alpi quasi per caso, per compiervi tutta una serie di disegni. Difatti era incisore assai apprezzato. Ne rimase affascinato. E diede inizio ad una serie ininterrotta di prime ascensioni assai difficili, condotte con una volontà eccezionale, caratteristica essenziale di un uomo duro e tenace, forse un po’ freddo e sprezzante.
Whymper era l’uomo della realizzazione. Di lui e della sua opera la Engel dice:
«Era compreso di se stesso al punto di non curarsi mai di sapere che cosa altri potevano pensare di lui. Amava opporre il proprio spirito a un duro avversario – tanto dal punto di vista fisico quanto da quello morale – per vedere chi avrebbe finito per avere la meglio. Scoprì poi che le montagne erano più dure di lui, di una durezza terribile, e allora cedette. Ma, per arrivare a questa scoperta, aveva vissuto gli anni più appassionanti della sua vita.
Questo spiega la sorprendente vitalità, la potenza della sua opera. Egli non ebbe mai bisogno di cercare un mezzo di espressione: non ne aveva che uno, tanto per progettare le scalate quanto per raccontarle…
In montagna una cosa lo interessa soprattutto: l’uomo o, più esattamente, se stesso. Egli si ritrae sempre sullo sfondo di una cima: un viso cupo, dalla mascella quadrata e dalla fronte corrugata; gli occhi da visionario del giovane si indurirono a poco a poco per diventare spietati… Ma per tutta la sua vita egli conservò quell’atteggiamento da Titano abbattuto dalla folgore» (Claire-Éliane Engel, Storia dell’alpinismo, pagg. 110-111).
Certo ormai la scienza era lontana da questi uomini e viveva completamente distaccata dall’alpinismo. Poteva forse coesistere, ma era nato l’alpinismo puro, che non necessitava dell’interesse scientifico. Whymper incarna alla perfezione la figura dell’alpinista che a poco a poco viene come incatenato al gioco che prima soltanto lo divertiva ed appassionava. L’individuo si isola nelle sue lotte, rincorre sogni che cerca di materializzare nelle ascensioni. E li realizza con lucida fermezza, con il preciso desiderio di vincere, dando inizio ad una lotta, certamente romantica e criticabile, ma appassionante e magnifica, tra sé e la montagna. Mai odiata come un nemico, sempre amata ed affrontata come qualcosa di grande e sublime, con cui misurarsi fino all’ultimo con lealtà e coraggio. Era il trionfo dello spirito romantico, anche se filtrato dal carattere glaciale di Whymper.
Evidentemente, un carattere come questo non poteva ritenersi soddisfatto dal ripetere ascensioni già compiute da altri. Whymper fu l’uomo che tentò i picchi ritenuti inaccessibili: il Cervino, la Barre des Écrins, le Grandes Jorasses. Tanto che qualche guida arrivò a rimproverargli di voler tentare sempre ascensioni irrealizzabili. Ma Whymper voleva riuscire proprio dove altri non erano riusciti. Lo spirito di superare e superarsi già si delineava in chiarezza.
Al suo fianco ebbe uomini che non erano da meno, anche se montanari. Come la guida di Chamonix Michel-August Croz, suo compagno nella buona e nella cattiva sorte. Uomo forte e tenace, ambizioso e coraggioso, fiero di essere montanaro di Chamonix e della Savoia, al punto di disprezzare i vicini montanari italiani di Valtournenche. Non era uomo da restare in secondo piano; amava scegliersi il cammino e condurre le ascensioni, soprattutto sul ghiaccio, dove eccelleva. Ma anche Whymper non era certo tipo da fare il «signore» alla De Saussure. Amava combattere a corpo a corpo con le difficoltà, anche da solo, come dimostrò sul Cervino. Fu uno dei primi ad impiegare mezzi artificiali, come la corda (che poi tragicamente fu proprio la causa involontaria della sciagura) e gli arpioni di ferro da ancorare alla roccia.
La conquista del Cervino (1865), anche se entrata nella leggenda, è un capitolo epico e suggestivo, importante non tanto per le difficoltà superate, inferiori a quelle vinte nello stesso periodo nelle Alpi Orientali, ma perché è un capitolo di storia tragico e affascinante, capace di definire un quadro fedele dell’epoca, con l’accortezza, però, di non cedere a facili trappole emotive che portarono più d’una volta a mistificare quest’impresa.
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Un racconto storico appassionato e appassionante con una introduzione che è pura poesia
“Nelle ore calde si avventuravano nei canaloni e sui pendii dove la neve era completamente marcita dal sole, incuranti del grave pericolo delle valanghe e delle cadute di sassi. Ci vollero naturalmente le tragedie dei primi incidenti mortali per far loro comprendere la reale portata di questi pericoli”
Precauzioni conseguenti valide ancor oggi.! specialmente oggi!