Il K2 d’inverno rimane inviolato – 1 (1-3)
Lettura: spessore-weight**, impegno-effort***, disimpegno-entertainment***
E’ di non molti giorni fa la notizia della rinuncia della spedizione polacca, preceduta da un’altra rinuncia, ugualmente sofferta, quella di Denis Urubko in piena solitudine fisica e morale.
Il K2 ha dunque respinto il sensazionale attacco solitario di Urubko, ma subito dopo ha costretto a fare i bagagli anche ai suoi compagni di spedizione, inquadrati con molta energia dal capo, il carismatico Krzysztof Wielicki.
Evidentemente l’espulsione di Urubko dal team aveva minato in modo definitivo la generale volontà di continuare e le forti nevicate che sono seguite hanno poi fatto il resto.
Questa sera, a Bergamo, Urubko sarà festeggiato dal Banff Film Festival (ore 20, Cinema Conca Verde, via Mattioli, 65).
La storia dei tentativi invernali
di Alberto Baioni
(pubblicato da http://www.montagna.tv il 6 marzo 2018)
Dopo l’annuncio del termine delle operazioni del team polacco alla base del gigante del Karakorum, ci troviamo anche quest’anno a dover registrare l’imbattibilità del K2 durante la stagione più fredda. Una montagna la cui scalata sembra non solo difficilissima da portare a termine ma anche difficile da tentare. Guardandoci indietro possiamo infatti vedere come i tentativi invernali al K2 si fermino a 4, contro gli oltre 30 compiuti sul Nanga Parbat prima del 2016. Ma quali sono i fattori che concorrono a rendere l’invernale al K2 così al di sopra delle umane possibilità?
Per cercare di analizzarne le caratteristiche non ci resta altro che ripercorrere le fasi dei pochissimi tentativi invernali.
«I told you it’s another planet». Foto: Adam Bielecki
Perché se quest’anno Adam Bielecki l’ha definito come «uno dei posti più inospitali della terra, che sembra appartenere ad un altro pianeta», già Andrzej Zawada, leader della prima spedizione invernale al K2, commentava così il primo infruttuoso tentativo: «Non colpevolizzo noi stessi per non essere riusciti nell’impresa, abbiamo fatto tutto ciò che era umanamente possibile in quelle inospitali condizioni».
Bisogna innanzitutto dire che i fattori che da sempre scoraggiano molti alpinisti dal tentare la vetta del K2 in inverno non sono solo legati alle difficoltà della scalata, ma sono anche di natura logistica, economica e soprattutto ambientale. La montagna è sì caratterizzata da pareti ripide e passaggi alpinistici difficili, ma anche l’avvicinamento alla base della montagna è lungo e impegnativo, esposto ai venti e alle intemperie, poco proteggibile e in certi casi pericoloso oltre che estremamente costoso. Inoltre le condizioni meteo del Karakorum sono da sempre, non peggiori, ma più estreme di quelle offerte dalla catena himalayana, caratterizzate da un clima imprevedibile e da tempeste che durano giorni. Se a questi fattori si aggiunge la possibilità che l’accesso al lato nord-est, che ricade sotto il territorio cinese, possa essere chiuso senza preavviso dal Governo, ben si comprendono le difficoltà che deve affrontare chi decide di perseguire tale obiettivo.
Come dicevamo, l’insieme di queste caratteristiche hanno fatto sì che i tentativi di scalata invernale al K2 – prima di quello polacco di questa stagione – si fermino a 3. Sebbene siano pochi, analizzandoli ci possono dire molto delle asperità a cui è andato incontro il team polacco. Vediamoli quindi da vicino:
Spedizione invernale al K2 1987-88
Il primo tentativo di conquista del K2 nella stagione invernale fu effettuato da un gruppo di alpinisti polacchi, canadesi e inglesi che nel 1987 cercarono di raggiungere la vetta dal lato sud, lungo lo Sperone degli Abruzzi.
Andrzej Zawada durante la spedizione del 1987-88. Foto: @Wspinanie.pl
In realtà tale tentativo iniziò quattro anni prima. Era il 1983 quando i polacchi – galvanizzati dalla prima ascesa invernale dell’Everest compiuta nel 1980 – tentarono, sotto la guida di Andrzej Zawada, uno dei pionieri dell’himalaysmo invernale, di organizzare una spedizione per conquistare il K2. Per raggiungere il budget necessario Zawada cercò e ottenne finanziamenti in Canada tramite Jacques Olek – cittadino polacco canadese nonché himalaysta e amico di vecchia data di Zawada. Nell’inverno del 1983 Zawada e Olek partirono così per il Baltoro, in modo da studiare le condizioni della montagna e progettarne la conquista. Ma le autorità negarono i permessi per un tentativo invernale e la situazione logistica si presentò ben più complicata e costosa di quella auspicata.
K2 Winter Expedition – 1987-88. Foto: @SummitPost.org
Olek e Zawada rientrarono con la convinzione che per attrarre altri finanziamenti sarebbe stato necessario coinvolgere alpinisti provenienti da altri paesi. All’appello rispose un gruppo di alpinisti britannici e finalmente nel 1987 tutto fu pronto per il primo tentativo invernale del K2. La spedizione era corposa: 13 polacchi, 4 britannici e 7 canadesi a cui andava aggiunto un gruppo di portatori. Per evitare i costi “gonfiati” proposti dai portatori nei mesi invernali, il gruppo optò per l’arrivo al campo base verso la fine dell’autunno. Gli alpinisti giunsero quindi in Pakistan all’inizio di dicembre, per poi raggiungere il campo base nel giorno di Natale.
Furono accolti da nevicate e forti raffiche di vento. Condizioni meteo che continuarono per gran parte della stagione, lasciando al gruppo solo 10 giorni di bel tempo in tre mesi di permanenza al Campo Base. Il Campo 1 fu installato il 5 gennaio da Maciej Pawlikowski, Maciej Berbeka, Krzysztof Wielicki e Jon Tinker a 6100 m. Pochi giorni dopo Wielicki e Leszek Cichy superarono il Camino Bill, fissando il Campo 2 a 6700 m.
La via per il campo base attraverso il Baltoro, 1987-88. Foto: @Southasian.com
Ma la finestra di bel tempo si chiuse immediatamente, lasciando spazio ad un lungo periodo di condizioni meteo avverse. Bisognò aspettare il 2 marzo per vedere installato a 7300 m il Campo 3, sempre ad opera di Wielicki e Cichy. I due alpinisti furono raggiunti il 6 marzo da Roger Mear e Jean-Francois Gagnon. Assieme a loro arrivò però anche una forte tempesta, che imperversò per tutta la notte. Gli alpinisti iniziarono la discesa, ed una volta arrivati al campo base presentavano tutti segni iniziali di congelamento, che obbligarono il gruppo a desistere dall’impresa, dopo aver considerato impossibile ogni ulteriore tentativo di scalata. Erano rimasti sulla montagna per 80 giorni ed era giunto il momento di tornare.
La spedizione internazionale del 2002-03
I polacchi abbandonarono per più di dieci anni il sogno di conquistare il K2 in inverno, concentrandosi invece sull’ascesa del Nanga Parbat. Fu sempre Andrzej Zawada ad organizzare nel 2000 il secondo tentativo di scalata in inverno del K2. Il versante scelto non fu più il lato sud, come nel 1987, ma il lato nord. Durante l’organizzazione della prima ricognizione sul lato nord Zawada fu però colto da un malore improvviso, che non gli permise di raggiungere la regione del Karakorum e che lo portò alla morte in agosto, dopo sei mesi di ricovero ospedaliero.
K2 Winter Expedition – 2002-03. Foto: @himalanman.wordpress.org
Nonostante la perdita, il team di Zawada proseguì nell’organizzazione della spedizione e nel dicembre del 2002, 14 alpinisti ed altrettanti membri del team di supporto partirono per il Karakorum. A guidare il gruppo c’era Krzysztof Wielicki, alpinista simbolo storico delle salite in invernale. La squadra era composta da 19 alpinisti, tra cui 15 polacchi e quattro scalatori caucasici provenienti dalla Georgia, dal Kazakistan e dall’Uzbekistan. Il piano era quello di scalare il K2 dal versante nord. (La squadra di punta era composta dai polacchi Jacek Berbeka, Marcin Kaczkan, Piotr Morawski, Jerzy Natkanski, Maciej Pawlikowski e Dariusz Zaluski, più quattro alpinisti dell’ex-Unione Sovietica, vale a dire Gia Tortladze (Georgia), Ilias Thukvatulin (Uzbekistan), Vasily Pivtsov e Denis Urubko (entrambi del Kazakistan). NdR).
Il Campo Base fu installato a 5100 m sul lato nord, proprio come deciso da Zawada. Da quella data in poi tutti gli alpinisti iniziarono a lavorare sul percorso. Il 5 gennaio Urubko e Pivtsov stabilirono il Campo 1 a 6000 m. Nonostante una rovinosa caduta, Wielicki e Berbeka riuscirono a fissare 200 m di corda attraverso la Rock Barrier, aprendo così la strada al raggiungimento del Campo 2, che venne installato da Urubko e Pivtsov a 6750 m il 20 gennaio. Tutto procedeva secondo i piani, ma un duro colpo venne inferto alla spedizione non dal clima o da qualche caduta, ma dalla decisione da parte degli alpinisti provenienti dal Caucaso di abbandonare la spedizione. Solo Denis Urubko rimase con il team di polacchi. Nell’amalgamare le due culture qualcosa non aveva funzionato.
La via seguita durante la K2 Winter Expedition del 2002-03. Foto: Piotr Morawski. Disegno: Grzegorz Glazek.
Anche se gravati dalla perdita di importanti risorse, il tentativo fu comunque portato avanti. Il campo 3 fu installato il 4 febbraio a 7300 m, mentre il 12 venne raggiunta la quota di 7650 m, dove venne fissato il Campo 4. Finalmente il 21 febbraio, dopo un lungo periodo di maltempo, la spedizione lanciò il primo tentativo di vetta al K2. A Jacek Jawien e Jerzy Jurek Natkanski spettava il compito di controllare e rifornire i campi, così da rendere possibile l’ascesa di Kaczkan e Urubko il giorno seguente. Il 26 febbraio Urubko e Kaczkan arrivarono fino a campo 4, a 7630 metri, in condizioni difficilissime. Il vento forte aveva distrutto e spazzato via gran parte del loro accampamento, compreso il materiale di emergenza.
Urubko e Wielicki durante la spedizione del 2002-03. Foto: @Explorersweb.com
Il mattino seguente Urubko comunicò al Campo Base che qualcosa non andava nelle condizioni di Marcin Kaczkan: «Non risponde a quello che sto dicendo, non riesce nemmeno a legare gli scarponi, c’è qualcosa che non va». Kaczkan stava iniziando a soffrire di edema cerebrale. Venne organizzata subito una missione di soccorso. Il 27 febbraio tutti i membri erano in salvo al Campo Base e la spedizione fu dichiarata conclusa.
Nonostante il fallimento della spedizione, e a dispetto della resistenza che anche questa volta il K2 aveva opposto, il tentativo del 2002 mostrò chiaramente, come scrisse Piotr Morawsk nel report della spedizione, «che il raggiungimento della vetta in inverno era possibile».
Tentativo russo 2011-12
Passarono circa altri dieci anni finché alla fine del dicembre 2011 arrivò al Campo Base del K2 una spedizione composta da 16 alpinisti, guidata da Viktor Kozlov e interamente proveniente dalla Russia. Era un gruppo forte, reduce da molti successi, che consistevano nell’apertura di nuove vie su tre giganti himalayani: la prima salita al Lhotse Middle del 2001, l’ascesa sulla parete nord dell’Everest del 2004 e la scalata della parete ovest del K2 risalente al 2007. Nonostante questi successi, nessuno dei componenti aveva mai compiuto salite invernali se non su cime russe.
(In ogni caso Andrew Mariev, Vadim Popovich, Alexey Bolotov, Nickolay Totmjanin, Valery Shamalo, Vladimir Belous, Eugeny Vinogradsky e Iljas Tukhvatullin erano trea i più grandi nomi dell’alpinismo mondiale. NdR).
Alexey Bolotov, Vladimir Belous ed Eugeny Vinogradsky dopo la discesa dal C1 sotto la tempesta. Foto: @Explorersweb.com
Il piano era quello di acclimatarsi sulle montagne della zona di Satpara e di cominciare a scalare, sempre senza ossigeno, il 25 dicembre, fissando circa 2000 metri di corde fisse sulla via Česen fino ai 7560 metri. Da qui fino alla cima di 8611 metri l’idea era invece quella di seguire una nuova variante.
L’organizzazione era in stile militare, caratterizzata da un grande team di alpinisti che lavoravano divisi in squadre per permettere la salita: alcuni dovevano attrezzare la parete con le corde fisse, mentre ad altri spettava il compito di allestire i campi alti. Grazie a questo veloce e metodico lavoro riuscirono il 4 gennaio ad installare il Campo 1 a 6050 m. Dieci giorni dopo arrivarono a fissare il Campo 2, ad un altezza di 6350 m. Per diversi giorni il team fu costretto a restare al Campo Base a causa delle difficili condizioni meteorologiche, ma dal 25 gennaio i lavori sopra il Campo 2 ripresero, tanto che alla fine di gennaio il percorso risultava assicurato fino a 7000 m.
Il campo base dei russi spazzato dalla tempesta. Foto: @Explorersweb.com
Il 31 gennaio Iljas Tukhvatullin, Andrew Mariev e Vadim Popovich riuscirono a fissare le corde fino a 7200 m, mentre spettava a Nick Totmjanin, Valery Shamalo e Vitaly Gorelik portare equipaggiamenti e viveri a 7000 m. Il sogno russo si spezzò il 2 febbraio, quando una fortissima tempesta di neve impose al team di far ritorno al Campo Base.
Durante queste fasi Vitaly Gorelik accusò sintomi da congelamento e polmonite. Il gruppo attivò immediatamente i soccorsi in modo da far evacuare Gorelik dal Campo Base, ma il maltempo impedì l’arrivo dell’elicottero e il 6 febbraio l’alpinista morì a causa della polmonite e di un conseguente arresto cardiaco. Questo tragico evento segnò la fine della spedizione russa e congelò i sogni di vetta fino alla spedizione polacca di quest’inverno 2017-18.
Denis Urubko sul versante nord del K2, spedizione polacca del 2002-03
Krzysztof Wielicki
(a cura della Redazione)
E’ nato a Szklarka Przygodzicka (Polonia), il 5 gennaio 1950. È famoso soprattutto per aver compiuto la prima ascensione invernale di tre Ottomila. È anche il primo e unico alpinista ad aver scalato in solitaria un Ottomila in inverno. È inoltre il quinto uomo ad aver salito tutti i quattordici Ottomila, alcuni dei quali utilizzando ossigeno supplementare, tra il 1980 e il 1996. Nel 2004 è stato incaricato di presiedere la giuria dell’edizione di quell’anno del Piolet d’Or.
Wielicki e Cichy dopo la prima invernale dell’Everest, nel 1980
Ha cominciato a praticare l’alpinismo e a frequentare il club alpino polacco dopo essersi trasferito a Breslavia per seguire la facoltà di ingegneria elettronica. Nel 1972, grazie a uno scambio con gli studenti dell’UCPA di Chamonix, ha l’occasione di compiere diverse ascensioni in alta montagna. Questo gli permette di ottenere meriti all’interno del club alpino e quindi di essere assegnato a spedizioni all’estero, nel Caucaso, nell’HinduKush afgano, nel Pamir sovietico.
Nel 1980 prende parte alla spedizione polacca che intendeva effettuare la prima salita invernale di un Ottomila, e in particolare dell’Everest, l’Ottomila più alto. Il 17 febbraio, a un solo giorno dalla scadenza dei permessi, riesce nell’impresa con Leszek Cichy. E’ il primo Ottomila scalato d’inverno.
È l’inizio di una lunga serie di spedizioni in Himalaya, sia come alpinista che come capo spedizione, che lo avrebbe portato a compiere la prima invernale di altri due ottomila, il Kangchenjunga (11 gennaio 1986) con Jerzy Kukuczka e il Lhotse (31 dicembre 1988) in solitaria. E ad aprire nuove vie, e a completare nel 1996 la salita di tutti i quattordici gli ottomila, quinto uomo ad esserci riuscito dopo Reinhold Messner, Jerzy Kukuczka, Erhard Loretan e Carlos Carsolio.
1 settembre 1996: il “Polacco degli Ottomila” ha conquistato il suo quattordicesimo gigante himalayano. Krzysztof Wielicki, raggiunse i piedi della parete Diamir al Nanga Parbat e la salì da solo, in stile alpino, in 3 giorni di ascensione.
Krzysztof non era nuovo alle salite veloci sugli Ottomila: già nel 1984 (14 luglio), infatti, fu il primo uomo al mondo ad aver salito un Ottomila, il Broad Peak, in un solo giorno.
Sul Dhaulagiri, il 24 aprile 1990, salì in solitaria una via nuova e più diretta sulla parete est, impiegando solamente 16 ore dal campo base alla vetta, divenendo il protagonista di una delle più straordinarie imprese dell’himalaysmo negli anni Novanta. Il 7 ottobre 1993 salì in solitaria una via nuova sulla parete sud dello Shisha Pangma, impiegando ancora una volta il tempo sbalorditivo di 20 ore dal campo base alla vetta. Entrambe queste due imprese si svolsero su due delle più alte pareti della Terra, mai inferiori ai 3000 metri di dislivello.
Wielicki è stato l’alpinista che più di tutti ha conquistato nuove pareti inviolate ai giganti della terra. Oltre al caso del Dhaulagiri e dello Shisha Pangma, infatti, Wielicki conquistò anche, questa volta in cordata, la parete sud-est del Manaslu (20 ottobre 1984, con Aleksander Lwow).
Dati alla mano, Wielicki salì le vie normali agli Ottomila solo in occasione delle grandi prime invernali e in occasione della sua “campagna” estiva in Karakorum nel 1995, quando gli ci vollero solamente 6 giorni per conquistare le vette prima del Gasherbrum II (salita in velocità, 9 luglio), e poi del Gasherbrum I (per la parete nord-ovest, 15 luglio). Tutto in soli 15 giorni!
Wielicki è stato il protagonista del grandioso tentativo di vincere la parete sud del Lhotse nel 1987, raggiungendo la quota di 8300 metri… praticamente alla fine delle difficoltà. Nel 1990, inoltre, tentò la salita solitaria e invernale del pilastro dei francesi al Makalu, raggiungendo la quota di 7300 metri. In entrambi i casi, lo respinse l’inverno himalayano.
Wielicki è considerante, infine, il precursore di quel che accade in Himalaya oggi: salite veloci e leggere, invernali, salite solitarie a pareti inviolate e salite solitarie invernali.
Nel 2013 ha guidato la spedizione invernale al Broad Peak che ha portato per la prima volta quattro alpinisti in vetta in inverno. La spedizione ha tuttavia subito il lutto della perdita di Maciej Berbeka e Tomasz Kowalski, dati per dispersi durante la discesa dalla cima.
Per questo, molti sono concordi a definire Wielicki come uno degli himalaysti più forti mai esistiti.
In questa tabella sono elencate tutte le sue salite degli Ottomila, compresi i tentativi falliti.
Come Wielicki ha salito il Kangchenjunga d’inverno
11 gennaio 1986: Krzysztof Wielicki e Jerzy Kukuczka salivano per la prima volta il Kangchenjunga 8586 m, terza montagna più alta della terra, in inverno, per la via normale sulla parete sud-ovest. Wielecki, raggiungeva così il suo secondo Ottomila invernale. Va detto che la salita fu compiuta completamente in stile alpino, senza portatori e senza l’utilizzo dell’ossigeno. Durante la salita perse la vita, a causa di un edema polmonare, l’alpinista polacco Andrzej Czok.
Jerzy Kukuczka e Krzysztof Wielicki sono con Wanda Rutkiewicz, prima donna ad arrivare in vetta al K2. Nel 1992 Wanda perse la vita proprio sul Kanchenjunga
Qui sotto è riportato un breve estratto dal libro Art of Freedom, the Life and Climbs of Voyek Kurtyka di Bernadette McDonald’s, dove si raccontano l’ultimo attacco alla vetta e la tragica fine di Andrzej Czok:
“Dopo quella partenza ingloriosa, altre due squadre partirono per arrivare in cima: Jerzy Jurek Kukuczka e Krzysztof Wielicki, Andrzej Czok e Przemek Piasecki. Mentre salivano verso l’alto, non si poteva non notare la persistente tosse di Andrzej, a causa dell’altitudine. Era strano, considerata la sua attitudine alla quota e la sua forza fisica. I suoi record erano impressionati: una nuova via sul K2, il Lhotse senza ossigeno, una nuova via sull’Everest, la parete ovest del Makalu, il Dhaulagiri, il Kangchenjunga sarebbe stato il suo quinto ottomila in inverno. La tosse di Andrzej peggiorò man mano che salivano sempre più in alto: l’aria secca e gelida non aiutava. Al Campo IV fu chiaro che Andrzej avrebbe dovuto scendere. Solo Jurek e Krzysztof avrebbero continuato.
L’11 gennaio partirono alle 5.45, a 800 metri dalla vetta, arrancando nell’aria gelida. In poco tempo iniziarono a perdere la sensibilità alle gambe. Alle 10 del mattino il sole li colpiva e li riscaldava, attivando la circolazione alle estremità. Si muovevano da soli, ognuno al proprio ritmo. Dal momento che il terreno non era troppo ripido non avevano bisogno di fermarsi. Krzysztof raggiunse per primo la cima, e scendette immediatamente. Jurek lo incontrò proprio sotto la cima, non si scambiarono nemmeno una parola. Le loro menti erano offuscate. Erano robot. Dopo alcune foto, anche Jurek tornò giù. Si diressero verso il campo, qui comunicarono il successo al campo base. La risposta fu priva d’entusiasmo, perché molto più in basso Andrzej stava molto male.
A metà strada tra i campi IV e III, Andrzej era diventato così debole che riusciva a malapena a camminare. A campo III, in una tenda, passarono la notte a reidratare Jurek e Krzysztof, e a somministrare diuretici ad Andrzej. Le sue condizioni peggiorarono di minuto in minuto. Ad un certo punto guardarono il Andrzej che riposava. Aveva smesso di respirare“.
Krzysztof Wielicki e Jerzy Kukuczka al ritorno dal Kangchenjunga
Denis Urubko. Foto: International Mountain Summit
Denis Urubko
Denis Urubko è nato il 29 luglio 1973 a Newinnomyssk (Caucaso settentrionale, Russia). In questa cittadina frequenta le scuole e sui rilievi attorno compie le sue prime escursioni assieme al padre che lo porta con sé a caccia e a pesca. Poi partecipa anche alle gite organizzate dal Touring Club locale: in queste occasioni riesce anche a salire due facili montagne.
A causa di fastidiosi e preoccupanti sintomi di asma, i genitori decidono di cambiare zona climatica. La famiglia si trasferisce nel 1986 nella parte meridionale dell’isola di Sachalin, dove Urubko frequenta le scuole superiori e incomincia ad arrampicare assieme ai gruppi sportivi di Vladivostok. Si iscrive anche al locale club alpino e partecipa ad ascensioni e spedizioni.
Il 3 gennaio 1993 si trasferisce ad Almaty, in Kazakhstan. Sono anni difficili a causa del collasso dell’URSS, ma ormai Denis ha deciso: vuole fare alpinismo e migliorare, diventare qualcuno in questo campo. Sale dapprima la via normale del Pik Mramornaya Stena (la “Parete di Marmo”) 6400 m poi due volte la normale del Khan-Tengri 7010 m.
Nel 1999 incontra l’alpinista italiano Simone Moro alla ricerca di un compagno per la sfida dello Snow Leopard: la salita di tutti i Settemila metri in Caucaso. Insieme conseguono il risultato con nel tempo record di 42 gironi. Con Moro si instaura subito un rapporto di grande stima e reciproco rispetto e nel 2000 sono insieme in una spedizione all’Everest. Per Denis inizia così la lunga serie di ascensioni alle montagne di ottomila metri dell’Himalaya e del Karakorum, talvolta con l’apertura di nuovi itinerari, come la parete sud-ovest del Broad Peak (2005), la parete nord-est del Manaslu (2006) oppure ancora la meravigliosa parete sud-est del Cho Oyu (con Boris Dedeshko, nel 2009), montagna con la quale termina la salita di tutti i 14 Ottomila. E’ l’ottavo a compiere questa impresa senza mai aver usato ossigeno supplementare. Notevole la sua salita solitaria e notturna all’Annapurna (2004). Assieme a Simone Moro riesce in ben due spettacolari prime ascensioni invernali a montagne di ottomila metri, il Makalu nel 2009 e il Gasherbrum II nel 2011. Uno stile pulito, alpino, per realizzazioni ideali su linee eleganti, prime assolute, prime invernali, in solitaria e in velocità.
La spedizione polacca al K2 invernale all’aeroporto di Skardu, tardo autunno 2017
Alcuni riconoscimenti a Denis Urubko
Snow Leopard per aver salito tutti e 5 i Settemila metri dell’ex Unione Sovietica, nel tempo record di 42 giorni.
Quattro volte Champion of Kasakhstan alpinism.
Best climber of Kazakhstan nel 1998 e 1999.
Champion of Kazakhstan 1997,1998,1999 nell’ascensione in velocità del Pik Amangeldy 3999 m.
Record mondiale di salita all’Elbrus in Caucaso in velocità (14 settembre 2006) 3 ore 55’ e 58” da Azau a 2400 m fino sulla vetta dell’Elbrus West a 5642 m.
Asian Piolet d’Or 2006: per la nuova ascensione sulla parete nord-est del Manaslu, con Serguey Samoilov.
Asian Piolet d’Or 2009 e Piolet d’Or 2010: in cordata con Boris Dedeško, per l’incredibile via nuova aperta sulla parete sud-est del Cho Oyu.
Asian Piolet d’Or 2012: in cordata con Gennady Durov per la salita alla parete nord del Pik Pobeda, nella catena del Thien Shan.
Krzysztof Wielicki e Denis Urubko nel 2017
Colpevole di Alpinismo
Colpevole di alpinismo è il primo libro di Denis Urubko, pubblicato direttamente in italiano (Priuli&Verlucca, 2010). Snocciolare le pazzesche cifre del suo alpinismo può essere una lode pleonastica, un voler aggiungere dati numerici alla poesia e alla grandezza.
In questa tabella sono elencate le maggiori ascensioni di Denis Urubko.
Però il mondo alpinistico oggi ha bisogno di certezze, quando ci si accorge che non c’è più vetta senza fotografia o filmati, non c’è notorietà cristallina senza curriculum certificato da gente come Elizabeth Hawley e compagnia giudicante.
Perciò, inchinandoci alle regole, ecco le sue oltre 1500 ascensioni, di cui oltre 50 in solitaria; quattro Ottomila li sale due volte, il Broad Peak, per nuova via, il Manaslu, per nuova via, il Makalu, in prima ascensione invernale con Simone Moro, 2009 e il Kangchenjunga nel 2014, terminando l’ascensione da solo della cresta nord, via degli Inglesi 1979).
Dopo una prima forte passione per il teatro e la recitazione, si forma alpinisticamente nelle montagne del Caucaso, severe, selvagge e difficilmente accessibili. All’arrivo della cartolina militare, Urubko nel 1993 fugge in Kazakistan per cercare di entrare a fare parte del gruppo sportivo dell’esercito kazako, noto per essere l’unico reparto d’alpinismo di tutta l’ex Unione Sovietica. Vive momenti molto difficili (esule in Kazakistan e disertore in patria), economicamente e personalmente, prima di riuscire a ottenere il permesso di residenza, ed essere infine arruolato e dedicarsi a tempo pieno all’alpinismo. Sposato, con tre figli, oggi vive in Val Seriana (BG).
«Denis è anche un bravo scrittore e un meticoloso, quotidiano relazionatore di fatti e aneddoti capitati durante tutte le sue avventure e spedizioni. Oggi è anche laureato in giornalismo alla facoltà di Almaty ma sin dalla giovane età gli piaceva leggere di montagna ed esplorazioni e riportare sul suo diario le emozioni vissute durante le prime escursioni e successivamente esperienze verticali. Questo libro è il primo di alcuni che ha scritto e che quasi sempre si è autofinanziato per pubblicare nella sua lingua russa. Altri ne sta per scrivere come pure le avventure che assieme a me e ad altri sono in corso di progettazione e realizzazione. Denis è una storia da raccontare, un sognatore da ammirare, un uomo da incontrare. Denis è anche un lungo libro da leggere…» così scrive Simone Moro nella sua introduzione a Colpevole di alpinismo.
Il libro, come pure il successivo, Eccesso di montagna, è caratterizzato da storie intime e avvincenti e da un insolito e scorrevole imprinting narrativo. Lo stile di Urubko è infatti maturo come il suo alpinismo, marchiato dalle certezze per le proprie scelte e calibrato da un umorismo di fondo tutto particolare, russo lo si potrebbe definire, proprio come esistono lo humor inglese e lo sberleffo prettamente italiano. La sua frase “Io amo cercare il rischio, il limite delle mie forze, dare il massimo in tutto e per tutto, voglio condividere con chi mi sta intorno la mia gioia… ma, forse, senza spartirla” è un bell’esempio di egoismo che si sa sorridere addosso.
Nei suoi libri, attraverso le sue grandi imprese, il lettore è trasportato con la fantasia in ambienti molto selvaggi, poco frequentati, dove le temperature scendono fino a decine di gradi sotto lo zero, l’Altaj, il Kamchatka e il Caucaso. E seguirà l’autore fino a capire come e perché ci si può riconoscere colpevoli di alpinismo senza sentirsi tali.
(continua)
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Veramente una Storia infinita quella del ( K 2 ) in Invernale, ma ” Denis rimane sempre un grande Alpinista e una Gr. persona , solo da ammirare per tutto quello che è riuscito a conquistare …nella sua carriera Alp. C. Saluti G.C.
chissà cosa sarebbe successo se al ribelle Urbko gli fosse riuscita la salita in solitaria ? Perdonato e acclamato vincitore dai polacchi, oppure lapidato per rapina?
E se invece non fosse più tornato?