La bestemmia del no limits

In questi ultimi decenni c’è stato un forte accostamento tra la pretesa che possiamo chiamare del no limits (vecchio motto di un orologio famoso, perché è proprio in quei primi anni Ottanta di ottimismo reaganiano che tutto è incominciato) e la pretesa sicurezza, completa al 100%.

Bestemmia-adidas0001

La nostra è una società strana, perché come si fa a vivere questa schizoide contrapposizione tra il non avere limiti (o comunque predicare di non averli) e contemporaneamente insistere su una sicurezza quasi maniacale in tutto ciò che facciamo?

Il no limits è ciò che gli inglesi chiamano attitudine al risk taking (attitudine ad assumersi rischi); invece l’essere “sicuri” (una condizione che non esiste mai, quasi per definizione) è probabilmente assimilabile all’over confidence, altra espressione inglese per dire stra-confidenza in noi stessi o, meglio, nei mezzi di cui disponiamo per aumentare la nostra sicurezza.

I limiti ci sono per tutti, ciascuno ha i suoi, ogni gruppo di individui ha i suoi. Questo dev’essere chiaro. Non si può dire il contrario, non si può scherzare (o semplicemente esagerare a uso marketing). No limits è una vera e propria bestemmia, è un’iperbole pari a quella di chi paragona l’essenza della massima divinità a quella suina. Chi tutti i giorni profferisce questa bestemmia è l’apparato pubblicitario, il marketing in generale.

Quando per esempio si voleva promozionare l’ultima APP per GPS, la frase che io udii al Festival di Trento (quindi in una sede assai competente, per di più) fu, testualmente: “perché così, finalmente, anche il signor Rossi potrà andare ovunque voglia, in piena sicurezza”.

Questo, tradotto, significa che per il signor Rossi non ci saranno più limiti. Vuole dire predicare una gigantesca falsità alle migliaia di signori Rossi, allo scopo che questi comprino questo “dannato” oggetto… che non è importante qui sapere se funziona, o se non funziona.

Ecco l’accostamento che vi dicevo, tra no limits e sicurezza.

Dany Kiwi Meier, Zurs. Foto: Roberto Trabucchi
Fuoripista, Dany Kiwi Meier, snowboard, Zurs

Ma davvero la sicurezza si può comprare? Non credo. E non te la possono neppure regalare. Qualunque oggetto di cui noi ci dotiamo è in grado di darci un servizio, più o meno utile o più o meno superfluo: ma non ci può garantire la sicurezza. Questa la si ottiene invece (ma sempre solo parzialmente) con la modestia, grande impegno, tanta fatica, talvolta con dolore, in molti anni di esperienze. Questi sono gli elementi catalizzatori del rinforzo di ogni sicurezza individuale. Così è sempre stato e sempre sarà, ce lo dice anche il buon senso.

In un momento storico come questo, in cui quasi sembra di ravvisare una maggiore importanza delle parole rispetto ai fatti, credo sia essenziale fare estrema attenzione alle parole che usiamo. Le magnifiche iniziative del Club Alpino Italiano comprese nel marchio “Montagna sicura” sono indubbiamente lodevoli, contribuiscono alla consapevolezza degli appassionati, sono vive e di successo, varie ed efficaci. Con le sezioni “Sicuri in falesia”, Sicuri sulla neve”, ecc. Ma hanno un peccatuccio originale che ne vizia il messaggio: il nome, “montagna sicura”. Anche qui si vogliono i signori Rossi? Non credo il CAI voglia questo. E dunque, perché (come ormai sostengo inutilmente da mesi) non cambiare quel nome aggiungendo semplicemente un “più”? “Montagna più sicura”.

Riflettiamoci. Noi stiamo dando importanza alle parole. Queste volano, vanno a maggior velocità dei fatti. Dunque abbiamo bisogno di precisione: non possiamo “bestemmiare” una montagna sicura quando sappiamo perfettamente che non potrà mai esserlo, neppure in una percentuale che vi si avvicini più di tanto: noi sappiamo questo, mentre i destinatari del messaggio non lo sanno e prendono purtroppo alla lettera quanto asserito.

E il cambio di nome non deve passare in sordina, al contrario dev’essere manifesto, come a sottolineare un’evoluzione nel linguaggio, una nuova presa di coscienza da parte del sodalizio.

Sono convinto che tanti più mezzi noi dispieghiamo per aumentare la nostra sicurezza, aggeggi comprati, tecnologie APPlicate, informazioni in tempo reale (nell’illusione di una sicurezza quasi totale), tanta meno importanza noi finiamo per dare a quella sicurezza che io chiamo interiore, quella da quasi tutti oggi trascurata. Nessuno può fare business sulla sicurezza interiore, ecco uno dei motivi (ma non è il solo) per cui non se ne parla. Però a mio avviso è, e resta, la prima dotazione di sicurezza che abbiamo a disposizione.

Vi faccio un esempio: prendiamo uno di questi matti (vabbè, matto lo sono stato anch’io…) che oggi va a fare il free solo, arrampicare su grandi pareti da soli, slegati, senza corda e senza imbrago. Mi viene in mente Alex Honnold, ma ancor prima tanti altri, tra i quali l’austriaco Hans Jörg Auer che sale il Pesce sulla Sud della Marmolada. Bravura e preparazione infinite, determinazione, ambizione. Il successo planetario. Ciò che colpisce è la concentrazione che gli deve essere stata necessaria, quella condizione (che non si ottiene certo in poco tempo) di spirito che gli intima di andare, nella certezza che, almeno in quell’occasione, non gli potrà succedere nulla.

Prendiamo lo stesso scalatore, dotiamolo di compagno, corda, mezzi e tecniche di sicurezza. Facciamogli fare la stessa salita. Per lui sarà un’autostrada, una danza, un motivetto fischiettato! E quella concentrazione della volta precedente? Non necessaria, quasi inutile, dunque accantonata. Buona per la prossima volta. Ecco ciò che voglio esprimere: più mezzi e tecniche = meno concentrazione (sicurezza interiore).

Maurizio Giordani in free solo su Tempi Moderni, parete sud della Marmolada
Giordani solo su Tempi Moderni
Questo ovviamente non significa che sia giusto trascurare i mezzi e le tecniche. Mi guardo bene anche solo dal pensare che l’ARTVA non sia necessario! Fa parte ormai della nostra cultura, assieme a pala e sonda. E anche all’air-bag!

Non è che bisogna dire no a questi strumenti. C’è solo da non avere eccessiva fiducia in essi. La maggior parte di questi sono mezzi di sicurezza passiva. L’ARTVA comincia a essere utile quando ormai l’incidente è avvenuto. Non confondiamo la maggior probabilità di essere estratti dalla valanga con la minor probabilità di incappare in essa!

Le previsioni meteorologiche sono ben altra cosa rispetto a solo 30 anni fa. Quando c’è alta pressione sulle Azzorre siamo tranquilli… Ma quando la meteo è incerta, abbiamo una considerevole percentuale di gente che fa attività in montagna, confidando nella cosiddetta “finestra” di bel tempo. Se avessimo previsioni del tutto inaffidabili, nessuno parlerebbe di “finestra”, qualcuno in più starebbe a casa.

Questo discorso porterebbe assai lontano, il mio scopo non è quello di convincere ma è solo quello di fornire dei bagliori di verità alternativa. Dunque sì alle informazioni, alle tecniche e alla strumentazione: ma senza diventarne schiavi o fanatici, senza attribuire loro maggiore importanza di quanta ne riserviamo al nostro istinto.

Ciò di cui prima di tutto dobbiamo dotarci è la modestia di fondo che ti dà il senso del limite, esattamente contro l’imperversare del no limits. Questa volta, decisi! Avere il senso del limite è una manifestazione di umiltà, di ricettività all’esempio e all’insegnamento degli altri, amici e non amici. E’ manifestazione di “amore” per la montagna perché c’è il rispetto per essa, che ti può dare indifferentemente gioia o dolore.

Umiltà vuole dire capacità di dare fiducia, dunque dare amore. Se c’è una cosa che quasi tutti noi facciamo malvolentieri è proprio il dare fiducia. E’ raro che lo facciamo. La diamo se siamo innamorati, quindi in una condizione di amore. E quanto al dare fiducia a noi stessi, alla totalità di noi stessi?

Non credo che un individuo convinto d’essere il “migliore” in qualche cosa sia un qualcuno che si dà molta fiducia. In realtà dà molta fiducia al suo corpo e alla sua volontà cosciente, ma poca all’intero se stesso.

E invece è essenziale dare fiducia alla totalità di noi stessi. Le azioni che noi compiamo nella giornata, le reazioni, le battute, le decisioni sono solo per il 10, massimo il 15%, governate dalla nostra coscienza. Il resto è determinato da scelte che avvengono nelle nostre profondità, proprio come succede al galleggiamento degli iceberg. E’ importante dunque, accettando la molto incompleta conoscenza di noi stessi, dare grande fiducia a ciò che ci dirige nel bene e nel male. E’ l’unico valido sistema per fare in modo che le nostre scelte profonde coincidano con la nostra sicurezza.

Pensate solo a questo: l’amore è selettivo. O sì o no. Lasciamo fuori per un momento (e solo per chiarezza) la possibilità di compromessi, l’amore di “convivenza”. L’amore è l’unico strumento per cui o è sì o è no. Ma allora ne consegue che è proprio l’amore che ci aiuta nei momenti di pericolo, perché ti dice rapidamente o sì o no. Ti scarta come ciarpame le statistiche di cui siamo invasi, le probabilità numeriche, le possibilità all’80%, al 60%, quando non al drammatico 50%. Ne fa piazza pulita in un microsecondo. O sì o no. Perché è questo che richiede il pericolo che stiamo affrontando. Decidere, e in fretta, quello che dobbiamo fare. Non cazzeggiare con le statistiche.

Fuoripista a Ischgl, Tirolo
Ischgl, Silvretta, Tirolo, fuoripista
Dotiamoci di amore, perché è selettivo. Facciamoci permeare, senza avere vergogna di essere meno scientifici di altri. Avere dalla parte nostra l’istinto.

Il riconoscimento del limite (e dunque l’umiltà e l’amore) è l’unico passaporto per la vera responsabilità, la sola “carta” che ce la può permettere.

Un individuo responsabile è davvero libero (nel senso dell’essere dotato di libero arbitrio): perché non è libero chi “fa quello che vuole”, ma è libero chi fa dopo aver scelto. Gli individui sono responsabili perché hanno scelto, per questo sono liberi. Il limite non divide ciò che è possibile da ciò che non lo è: perché è soggettivo. Prima di tutto devi riconoscerlo tu. Sei tu che lo riconosci, dunque sei tu a valutare e a decidere. Ecco la scelta, quella scelta che ti rende responsabile e libero.

Occorre mettersi deliberatamente in modalità di ricerca. Ma occorre anche sapere cosa cercare, come quando vai per funghi in un bosco o in un esame chimico si cercano determinate sostanze con precisi test. E la ricerca è umiltà, perché impone di riconoscere che non si sa abbastanza.

C’è anche il caso particolare di chi è dominato dall’adrenalina. Costui ogni tanto fa anche grandi imprese, che occorre rispettare, ma l’adrenalina è amore corrotto, praticamente droga. C’è troppo risk taking, troppa predisposizione al rischio, con la conseguenza di avere una responsabilità tendente a zero che non ti fa crescere.

Ben più moderato e salutare è l’amore per l’imprevisto. Chi ha letto i libri di Bruce Chatwin sa cosa voglio dire. Davvero emozionante è la genialità con la quale Chatwin ci ha raccontato le sue avventure di viaggio. Questo mostro sacro del Novecento mica faceva viaggi con le agenzie che oggi parlano di travel engineering… quello partiva, non sapeva neppure quando tornare o se sarebbe mai tornato. Chatwin ci ha insegnato l’amore per l’imprevisto, con risultati grandiosi per la letteratura.

Non è che dobbiamo essere tutti dei Chatwin, ma è purtroppo vero che oggi nessuno desidera e ama l’imprevisto. Al contrario, deve andare tutto come previsto. Però l’amore per il non programmato favorisce l’istinto, lo allena, gli dà importanza. La parte nascosta di noi ha bisogno di riconoscimenti, non ne può più d’essere continuamente calpestata da modalità razionali.

Una slavina travolge uno sciatore in Engadina. Quella volta è andata bene. Foto: Marco Milani
Marco Spataro travolto da valanga in Engadina
Come l’animale sente o fiuta il pericolo, anche noi dobbiamo ritrovare questa primitiva dimensione istintuale, riappropriarci di quell’attitudine persa.

Con cultura davvero minima dal punto di vista scolastico, individui nati in montagna sono diventati, proprio per la loro attitudine istintuale, grandi guide tra i più eccelsi alpinisti. Dei veri e propri geni di montagna che hanno portato i loro clienti a scalare per 30-40 anni senza che mai gli fosse successo nulla. Uno come Angelo Dibona, tanto per fare un solo nome.

Ecco a cosa porta l’istinto, la prima arma che abbiamo quando siamo in pericolo o subito prima.

Vediamo alcuni esempi, alcune situazioni tipo, in cui l’istinto ci potrebbe aiutare più d’ogni altra cosa, smantellando i filtri che nel frattempo la nostra mente si è costruita. Filtri conoscitivi che viaggiano nella nostra psiche alla velocità della luce, che quindi non abbiamo tempo di riconoscere, ma che solo dopo poche ore tranquillamente siamo in grado di rifiutare:

overconfidence. La straconfidenza. L’ho sempre fatto… almeno altre venti volte… cosa ci sarà mai questa volta di diverso?

fissazione sull’obiettivo. La cima è lì… saranno neanche 100 metri… sta per venire giù un uragano ma non importa, ci siamo così vicini…

riconoscimento personale o di gruppo. La competizione tra gruppi o individui per un riconoscimento anche piccolo, banale. Il non darla vinta agli altri. Non mi farò mica fare le scarpe da quello là… non ci faremo mica fregare da quelli là…

aura dell’esperto. Il dio del gruppo, il più figo. Questo è il rapporto che c’è tra le pecore e il cane. Non si può abdicare dal nostro personale giudizio solo perché c’è qualcuno che (solo probabilmente) è più esperto di noi.

visione egoica. Per me è facile… dunque lo è anche per loro. Non è necessariamente proprio degli egoisti, anzi. Uno sprazzo di pensiero che ti fa prendere la decisione sbagliata.

occasione rara. Condizioni così non le vedo da vent’anni… e magari non le vedrò mai più… dobbiamo andare per forza! Però, se ti è venuto questo dubbio, un motivo ci sarà… magari c’è qualcuno che non sta bene, magari è già tardi… Un’occasione rara non va colta necessariamente.

il calendario. La nostra società c’impone di calendarizzare la nostra attività. I corsi di scialpinismo per esempio: uscita del corso il 10 gennaio al monte Qualunque. Ritrovo al pullman alle 5.30. Tutti si ritrovano, qualcuno sa bene che probabilmente c’è pericolo 3. Si dormicchia fino alla fine del viaggio, si scende, occorre prendere una decisione. Fa freddo. Beh, intanto andiamo a prendere il caffè. Beh, intanto cominciamo ad attaccare le pelli e a metterci gli scarponi, poi vediamo. Beh, cominciamo a fare i primi cento o duecento metri… e così il gruppo parte. Questo è esattamente quello che succede. E le cose non è che cambino in presenza di buoni istruttori o buone guide. Anche loro si lasciano prendere da questo infernale meccanismo di gruppo. Dunque facciamo pure la calendarizzazione, ma poi non dobbiamo seguirla manco fosse l’undicesimo comandamento del Sinai. Se quel giorno non è prudente andare, o se non è possibile in quella località una gita davvero alternativa, basta, non si parte e si va tutti all’osteria. E gli scarponi li lasciamo sul pullman!

Dobbiamo prendere decisioni, più o meno rapidamente, sia sugli sci che su roccia o ghiaccio, ma anche su un sentiero. Per la decisione occorre avere le informazioni, quelle scritte in una guida, quelle degli amici, i propri ricordi; occorre avere i bollettini meteo; al limite vanno bene anche i consigli del contadino.

Mai però prenderle per oro colato e soprattutto diffidare di ogni tipo di statistica, di quei giochini con le percentuali di successo o di pericolo. Non stiamo giocando al totocalcio.

Statistiche e informazioni devono sottostare e non precedere il nostro istinto, che dobbiamo coscienziosamente esercitare. Quello che una volta si chiamava “prudenza”, ciò che prima abbiamo chiamato umiltà e anche amore. Amore anche per l’imprevisto, perché l’imprevisto è magico. Stiamo parlando della magia della montagna, ciò che ci attrae e ci porta avanti.

Allorché alleniamo l’istinto è perché dimostriamo di dare fiducia all’inconscio, cioè la parte di noi che davvero ci governa e che in definitiva ha potere su di noi di gioie e dolori, di vita e di morte. Al contrario di altri governi, questo è l’unico a essere sempre “forte”. Data l’indiscutibilità dei suoi decreti, meglio far parte del consiglio dei ministri che dell’opposizione… e ricordiamoci che se davvero il nostro inconscio, per qualche lontano motivo, è davvero malato in profondità, un malato terminale, allora il modo di farci morire lo trova comunque, a dispetto di qualunque ossessiva forma di sicurezza.

Così ci si dovrebbe presentare all’appuntamento con i pericoli
Stubaital, Parco degli ucelli rapaci

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La bestemmia del no limits ultima modifica: 2015-06-11T07:00:20+02:00 da GognaBlog

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3 pensieri su “La bestemmia del no limits”

  1. L’ultima foto richiama una frase di Montaigne e dunque l’istinto di cui si parla è l’ars moriendi dei latini, la conoscenza ed accettazione della Morte.
    Per dare un senso alla propria vita, come alla propria morte, quindi per abituarsi al pensiero della morte, bisogna come diceva Montaigne “portarlo sulla spalla come i signori del suo tempo portavano sulla spalla il falcone quando andavano a caccia nei boschi e sulle rive della Dordogna” per abituare se stessi e l’uccello cacciatore a stare insieme e prender confidenza l’uno dell’altro. “Se segui quel consiglio, lei ti diventa amica. In fondo fa parte della tua vita che avrebbe un altro sapore se tu non sapessi dell’appuntamento finale”.
    La vita è un viaggio che comprende la vulnerabilità degli attaccamenti e le separazioni. Per acquisire consapevolezza della propria esistenza occorre passare attraverso l’accettazione di un limite: la finitezza della vita. Il fine della vita non rende la vita priva di senso. Ecco allora che la vita acquisterebbe più senso se riuscissimo a vedere la morte come il concludersi “naturale” della nostra esistenza terrena. Una pedagogia della morte aiuta a celebrare la vita senza negare la paura della morte. Aiuta a contattare la propria pace interiore.

  2. P.S. sono molto d’accordo sulla perversione dell’utilizzo della statistica nel nostro mondo moderno. La teoria della probabilità è non-informazione ed è utilizzata dalla “politica” della pseudo-scienza moderna per eludere il contenuto (concetto generale e di minor importanza qui).
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    Si, dopo l’analisi razionale degli errori dell’uomo comune, pare esserci qui un salto quantico verso la via di un guerriero (dello spirito).
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    Si, sembrano parole di uno sciamano tolteco. E mi vengono in mente, Luca, certe cose lette su Lorenzo Massarotto (forse anche nel tuo libro). P.S. Grazie.
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  3. Tanta roba, pari all’esperienza. Vera, praticata in parte, condivisibile. E quest’ultima dell’inconscio, in particolare, se pur mi attrae non mi è ancora sufficientemente chiara.

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