Le avventure del giovane “Tromba”

Le avventure del giovane Tromba
di Andrea Giorda
(luglio 2023)

Se mi manca il Tromba? Sì, tanto, e non solo a me. Adriano Trombetta, nato a Torino il 25 aprile 1979, è morto il 17 febbraio 2017 in un incidente di sci ripido sul Monte Chaberton a soli 38 anni, con Antonio Lovato e Margherita Beria di Argentina.

In tanti ricordano Adriano, anche in relazione ai diversi momenti della sua breve vita, bruciata di corsa ma indubbiamente molto intensa e senza compromessi.

A distanza di sei anni la sua memoria è sempre viva, anche perché negli ultimi tempi della sua esistenza, un po’ acciaccato da vari incidenti, ha raccolto intorno a sé ragazzi giovani a cui trasferire la sua passione e i suoi obiettivi: i due più noti sono Michele Amadio e Federica Mingolla, oggi Guide alpine.

Adriano scende su Stairway to Heaven, Becco di Valsoera

Orrido di Chianocco : Il giovane Tromba e le Trombettate
Ma io vorrei ricordare il Tromba dei primi anni, meno conosciuto, quello in piena forma. Direi che il suo culmine è rappresentato bene in questo video del maggio 2007, girato nell’Orrido di Chianocco in Val di Susa. Ricordo che al tempo lavoravo, ero un dirigente di una grossa azienda e avevo pochissimo tempo per scalare, ma il Tromba che mi vedeva come un fratello maggiore (e per età potevo essere suo padre) voleva a tutti i costi che vedessi in azione il suo potenziale erede, un ragazzino che in effetti non deluderà, Michele Amadio.

Il video è emblematico, a me assegnò la Concava (ora Senza zucchero), un vecchio 7a+ con bei buchi ma spit a distanza siderale. Lui si fece riprendere, fisicato come un eroe greco, sui passaggi più duri di Futur Body, che aveva lavorato con successo nei mesi precedenti. In cima al tiro, nel video fa una “Trombettata”: non moschettona la catena e si lancia di sotto! E’ la sua firma.

Ad Adriano si deve la riscoperta dell’Orrido di Chianocco. Il Tromba era avido di luoghi e racconti del passato. Ebbe una lite infinita con la Direzione della Riserva Naturale Orrido di Chianocco che voleva vietare l’arrampicata ma che, in piena contraddizione, nel 2005 aveva lasciato costruire una ferrata che lo attraversava. Adriano non era diplomatico, aveva ragione e lottò, pagando personalmente un duro prezzo, da vero guerrigliero, per difendere un luogo simbolo della scalata in Valle di Susa.

Adriano Trombetta in Valle dell’Orco. Foto: Damiano Levati.

Amici e nemici
L’esuberanza di Adriano è stata la sua forza ma anche un po’ la sua croce, alimentava la schiera dei suoi detrattori, non pochi. Ognuno di noi ha lati positivi e aspetti critici e la morte non ci trasforma in santi.

Di sicuro il giovane Adriano aveva trovato nel sottoscritto, in Sergio Cerutti e Fabrizio Ferrari, un riferimento e dei veri amici, e ognuno di noi era differente. Con Sergio ripeteva via impegnative, ricordo una bellissima gita sul furgoncino del Tromba ad Aiglun in Francia. Il viaggio si svolse in un caos tremendo, con cene con stoviglie mai lavate (sosteneva che era fatica sprecata). Sergio e Adriano scalarono L’Artisan du Huitième Jour, io con Elvio Balboni un’altra via. Ci si prendeva in giro a vicenda senza pietà, il clima però era sempre gioioso.

Fabrizio, maestro sulle placche di granito, lo ha accompagnato nelle sue aperture a Noaschetta: anche se davanti andava Adriano, la sua esperienza e il suo equilibrio erano preziosi.

Io per lui ero un redivivo, perché ho iniziato a scalare giovanissimo, nel 1971, e il mio nome compare spesso nelle vie aperte tra la fine degli anni ’70 e gli anni ’80, l’epoca d’oro e di scoperta della Valle dell’Orco e delle valli alte, Piantonetto e Noaschetta. Verso la fine degli anni ’80 il lavoro mi ha allontanato, ho abitato anche in Argentina e Cuba e solo alla fine degli anni ’90 per caso ho ripreso a scalare. Tutto era cambiato, ho scoperto la falesia per alzare il mio livello di scalata e soprattutto i friend che rendevano tutto più sicuro rispetto ai vecchi excentric. Il fisico e la testa per fortuna erano ancora buoni e mi sono tolto qualche soddisfazione in montagna, con vie come la Gervasutti alla Est delle Grand Jorasses o altre in Marmolada. Ripetevo le vie di Manlio Motto (che avevo conosciuto) ovunque fossero, anche sul Monte Bianco.

Non ricordo esattamente come incontrai Adriano, ma quando mi conobbe fu per lui come vedere uno uscito dalla tomba, di cui non si sapeva più nulla. Scoprii che lui aveva ripetuto le mie vecchie vie ed erano per lui un esempio, perché rispetto a quelle della stessa epoca si distinguevano per essere state aperte quasi totalmente in arrampicata libera. Ne apprezzava poi l’estetica.

Era un fanatico della fessura Sitting Bull, che avevo scoperto nel 1979, tanto che in seguito ci portò Nico Favresse. Aveva scalato la via Filo a Piombo ma la sua preferita era Sturm und Drang sul Becco di Valsoera, da me aperta con Sandro Zuccon (1983/84) su una parete estremamente compatta, senza spit o chiodi a pressione, volutamente, solo con nut e chiodi normali e una Rurp. Liberare il tiro chiave per Tromba divenne un’ossessione, dopo diverse prove mi disse che l’aveva fatto in top rope e gradato 7c.

In tanti ci hanno provato, da Manlio Motto e Stephane Benoist, ma a riuscirci da primo di cordata fu proprio la sua preferita, Federica Mingolla, nel 2016: il problema non era il grado, ma il proteggersi. Un po’ come sul Pesce in Marmolada, si scala su nut e chiodi mezzi fuori e una caduta è fuori discussione.

Entrare nella storia
Adriano a differenza dei giovani di oggi, a cui interessa poco, era avido di storia e spesso voleva sapere notizie di personaggi del passato, come Isidoro Meneghin o Gabriele Beuchod che io avevo conosciuto bene nella mia prima vita. Il suo desiderio più grande era aprire una via che rimanesse nel tempo, che fosse un simbolo, un esempio del suo stile.

Alcuni di noi lo indirizzarono verso il Vallone di Noaschetta, scoperto alpinisticamente da Gian Carlo Grassi e poi, nei primissimi anni ’80, preso d’assalto dai reduci della Valle dell’Orco, Isidoro Meneghin, Ugo Manera, ma anche Anne-Lise Rochat, Marco Bernardi e tantissimi altri. A questa prima ondata partecipai anche io con Mario Ogliengo e Sandro Zuccon fin sulla lontanissima Cresta dei Prosces: era l’epoca della Baita di Sitting Bull. In brevissimo, nel giro di quattro anni (1980/84), questa corsa all’oro si esaurì e le vie caddero tutte nell’oblio.

Molto restava da fare e Adriano nel 2002 viene attratto dalle spettacolari e lontanissime Torri del Blanc Giuir, note anche per essere un po’ erbose, ma la linea del Tromba sembra bella e propone con un punto interrogativo un 7b, non si capisce se scalato o meno, ma poco importa.

Emblematico è il nome della via, Il mio Nome è Nessuno, uno Spaghetti Western del 1973 con un furbastro Terence Hill e che si rifà al più famoso Il mucchio selvaggio (The Wild Bunch), il mitico western americano del 1969 diretto da Sam Peckinpah.

E’ evidente che Adriano (Terence Hill) voleva proporsi come erede dei mitici scalatori degli anni ’70 della Valle Orco, Danilo Galante, Roberto Bonelli, Gian Piero Motti, Gian Carlo Grassi, ecc., romanticamente raccontati da Andrea Gobetti come il Mucchio Selvaggio.

Dal settembre 2003 al 2004 in più riprese, con una giovanissima e forte Anna Torretta e Fabrizio Ferrari, il Tromba apre una via sullo Scudo (parete est) del Monte Castello. Il racconto di Arsenio Lupin è rocambolesco, l’ho ascoltato da lui più volte. Una via fortemente ingaggiata dove i tre giovani, alle prime esperienze, si sono presi grandi rischi, fino al 7a lasciando passi di A0, che nonostante i suoi propositi non tornò mai a liberare.

Adriano, pur sempre euforico, vive la delusione che le sue vie non hanno una grande eco e nessuno va a ripeterle. Spesso chiodava con spit corti da 8 mm, che riteneva più che sufficienti e i suoi detrattori, malignamente, dicevano che lui metteva gli spit distanti fino al 6c poi dal 7a in su si avvicinavano di molto riducendo l’obbligatorio, poiché non aveva il livello dei suoi riferimenti, Manlio Motto o Rolando Larcher.

Il Tromba in apertura su Stairway to Heaven, Becco di Valsoera

Tromba prende casa a Noaschetta
Nel 2004 ritenta la sorte, si impossessa delle chiavi del rifugio di Noaschetta, una baita incustodita con cucina, gas, toilette, posti letto, di cui si dovevano chiedere la chiavi e pagare una piccola tariffa giornaliera al CAI di Rivarolo. Il Tromba risolve il problema del soggiorno a modo suo, si fa una copia delle chiavi e restituisce quelle ricevute. Al CAI di Rivarolo sono incazzati ancora adesso e, sapendo che era un mio amico, recentemente non mi volevano dare le chiavi.

Negli anni ’80 l’unico luogo per bivaccare era una baita all’Alpe La Bruna, in uno scenario da favola: ora è crollata e abbandonata. Il rifugio era solo per gli operai dell’Azienda Elettrica Municipale e intorno al 2000 è stato dato in uso al CAI.

Per tre anni dal 2004 al 2006 il rifugio di Noaschetta è stato la casa del Tromba, dove appena poteva correva per scalare, ma era anche il luogo dove consumare la sua turbolenta vita sentimentale.

Le mire del Tromba si spostano sulla punta principale del Monte Castello: la prima scalata su questa vetta è di Ugo Manera e Roberto Bonis, per lo spigolo est nel maggio del 1982. A distanza di pochi giorni, Gian Carlo Grassi e Jean-Michel Cambon (che non aveva ancora scoperto Briançon e la Tête d’Aval ma scalava sul Monte Bianco con Jean-Marc Boivin) tentano di scalare la parete al centro per raggiungere il diedro yosemitico che la caratterizza, ma ripiegano sullo spigolo o respinti dalle placche non chiodabili dello zoccolo o dalle fessure altrettanto difficili da proteggere.

A distanza di poche settimane, sempre nell’estate del 1982, Mario Ogliengo ed io, partiti in giornata da Ivrea e a piedi da Noasca (non c’era la strada di Balmarossa) pur attaccando tardi, scalammo placche sprotette, il famoso diedro e le fessure in velocità, arrivando quasi in cima. In certi giorni, da giovani, tutto sembra facile e si domina la paura sentendosi immortali. Per me e Mario una delle più belle realizzazioni, anche per stile, della nostra lunga storia di scalatori.

La via, Aldebaran, di 450 metri, percorre la linea naturale più logica di queste pareti. 150 metri di placche e più di 300 metri di diedri e fessure. Solo qualche chiodo usato e qualche excentric, nessun friend (erano agli albori) per lunghezze e soste. Gli spit erano ancora da venire in montagna.

Nel 2004 Aldebaran era l’unica via che solcava direttamente la parete al centro. Adriano risolse intanto le placche dello zoccolo mettendo pochi spit lontani, dove io e Mario, non avendoli, ci eravamo appoggiati alle mutte erbose.

Becco di Valsoera: in discesa sul tiro Ledge to ledge di Stairway to Heaven

Amitrax il diserbante e Twin Towers
A destra di Aldebaran, anche con l’aiuto di Fabrizio Ferrari, Adrian aprì, utilizzando gli spit, Amitrax, che è il nome di un noto diserbante. Il Vallone di Noaschetta ha spesso il problema dell’erba. La via è notevole per ingaggio (7b e 6b+ obbl.) e i tiri sono belli. Nella guida A sud del Paradiso di due espertissimi scalatori, Gianni Predan e Rinaldo Sartore (spesso compagni di apertura di Manlio Motto) , vi è una piccola critica, “spit da 8mm e chiodatura fuori linea”, che non saprei commentare, non avendola ripetuta, ma Fabrizio comunque la consiglia.

Un mese dopo Amitrax, Adriano rispolvera addirittura Daniele Caneparo e con Fabrizio scalano Twin Towers (7b e 6c obbl.), altra bella via, molto ingaggiata.

Nonostante le insistenze del Tromba, non ero più tornato dal 1982 su quella parete, anche perché lavoravo, ero sempre in giro per l’italia o per il mondo e non avevo il tempo che aveva lui per scalare. Fabrizio essendo ferroviere aveva dei turni e aveva potuto aiutarlo.

Un giorno mi chiama e mi dice, “ho fatto un casino”… Io sorridendo gli dico: “Ma no, da te non me lo sarei mai aspettato”. Ride anche lui e mi dice “Devi assolutamente venire sulla parete del Monte Castello, perché mi sa che son finito su Aldebaran, non capisco dove passa e dove far passare le mie vie”.

Adriano e l’attrezzatura alla base della Rocca dell’Ulivo

I Tormenti del giovane Tromba
Tergiverso, ma poi prevale il suo entusiasmo e mi faccio convincere, prendo qualche giorno di ferie e ci spariamo nella sua alcova di Noaschetta dove, come fossi una fidanzata, mi cucina un’ottima cena. La notte, come tante altre con lui, la passo a rispondere a domande su come era uno o l’altro scalatore del passato e anche ascoltando i suoi tormenti.

Lui vedeva in me un uomo di quasi 50 anni realizzato. Un manager che viveva in un mondo rutilante fatto di successi, soldi e bellone della televisione. Avevo avuto la fortuna di vivere gli anni della scoperta della Valle dell’Orco e ora quello spirito non c’era più, oltre a ciò le mie vie erano considerate, il mio nome era un brand affidabile. E poi non si capacitava che pur con pochissimo tempo per scalare e la mia età non più verde, sui sentieri e sulle pareti, potevo sempre dire la mia e giocarmela con lui che lo faceva di professione.

La realtà era ben diversa, fare il manager alla direzione di una azienda da un miliardo di euro è come correre in Formula 1, devi avere sempre l’acceleratore a fondo corsa, il tempo libero non esiste e nonostante quello ti possono buttare fuori in qualsiasi momento senza motivo.

Le mie vie non le hanno considerate per anni, neanche il Nautilus, ora famosissimo. La fessura Sitting Bullnel 1979 non interessava a nessuno perchè era un monotiro, non una via, e non la pubblicarono sulla Rivista della Montagna. Maurizio Oviglia, anni dopo, arrivò a scrivere che non si sapeva chi l’avesse aperta! Una eresia… Aldebaran era nell’oblio e su Sturm und Drang i primi aspiranti ripetitori dicevano che si erano persi, perché dove non si poteva chiodare, bisognava scalare lo stesso, in libera. Sentenziavano che era un postaccio pericoloso.

Ho dovuto aspettare Manlio Motto che scrivesse, venti anni dopo sulla rivista francese Vertical, che le mie vie e quelle di Roberto Perucca rappresentavano un passo avanti nella storia dell’arrampicata del Gran Paradiso o che Michel Piola desse ben due stelle nel suo librone del Monte Bianco alle mie vie sull’Evêque e sull’Aiguille des Grands Charmoz, su quelle Aiguilles de Chamonix dove di altri apritori italiani non c’è neppure l’ombra.

1982, Monte Castello. Andrea Giorda semiassiderato dopo il bivacco su Aldebaran.

Ma la vera questione centrale è che per me la montagna, la scalata, è sì una passione, ma solo un aspetto della mia vita, un divertimento. Potevo fare spallucce se uno mi criticava. Per Adriano era diverso, aveva iniziato il conservatorio, studiato composizione, ma mai finito: e la montagna, la scalata, erano tutta la sua vita. Le critiche, ahimè spesso fondate, lo laceravano.

Aspettarsi poi riconoscimenti, non solo nella scalata ma nella vita, è l’anticamera della frustrazione e della depressione. Nella scalata in particolare non vi è nulla di oggettivo, il giudizio è del primo che passa, magari è pure rosicone e invidioso. La storia dell’alpinismo è piena poi di grandissimi scalatori morti sconosciuti.

Angelo Dibona finì lavapiatti in un rifugio e Giovanni Battista Vinatzer, uno scalatore di un altro pianeta per la sua epoca, ha dovuto aspettare 50 anni perché gli venissero riconosciuti i suoi meriti. Quando andammo io e Pietro Crivellaro ad intervistarlo per la rivista Alp, a casa sua, rimase senza parole, non capiva perché! Per tutti era un vecchio maestro di sci a riposo e non il funambolo (negli anni ’30 del XX secolo) della Marmolada o della Furchetta. Un omone grosso, con due badili per mani, seduto nella sua Stube con il tipico cappello di feltro, pianse come un bambino quando ci congedammo, la famiglia gli si strinse intorno, una giovane nipote che nulla sapeva del suo passato lo abbracciò. Per me un ricordo e un insegnamento indelebili.

Aldebaran 2005
Passata la notte dei tormenti, il Tromba ritrovava la sua verve e il suo buon umore. Caricati a pallettoni, ci spariamo come rincorsi dai cani alla base della parete.

La mattina è radiosa, arriviamo sotto la Cima Principale del Monte Castello e vedo uno spettacolo incredibile, centinaia di metri di corde pendevano su tutta la parete: un veliero! Il più grande inquinamento da nylon della storia dell’arrampicata. Lui poteva muoversi in lungo e in largo su più di 400 metri di parete, con le maniglie Jumar, e lavorare sulle sue vie. Scaliamo lo zoccolo che io Mario avevamo scalato senza spit con miracolosi espedienti. Adriano aveva messo pochi spit che rendevano comunque piacevole e più sicuro questo tratto (ora conosciuto come Zoccolo Trombetta).

Becco di Valsoera, il tiro chiave Ledge to ledge di Stairway to Heaven. Foto: Marcello Sanguineti.

Poi con le Jumar, oltre il grande diedro, raggiungemmo il punto incriminato. In realtà un pezzo di Twin Towers saliva sulle più dure fessure di Aldebaran (Adriano aveva trovato i vecchi chiodi miei e di Mario) e a sinistra aveva iniziato un’altra via, la Vedova Nera, che la incrociava. Insomma un vero casino alla Tromba.

Adriano, che tutto era meno che diplomatico, mi propose sorprendentemente una soluzione: “Insieme troviamo una variante più a sinistra per Aldebaran, mettiamo le soste a spit e mettiamo qualche spit dove ci stanno solo i chiodi. La puliamo bene per poterla ripetere solo con i friend.”

Ci penso e rifletto che anche Aldebaran, che io sapessi, aveva avuto pochissime ripetizioni, Sergio e Fabrizio, Manlio Motto e da poco ho scoperto Alessandro Gogna e Anne-Lise Rochat (c’è un bel racconto recente su GognaBlog).

E’ nata così Aldebaran 2005, più facile e meno ingaggiata della versione del 1982, ma il successo fu immediato e ancora oggi è l’unica via di quella parete che ogni anno viene ripetuta. Ironia della sorte, sui siti consigliano due serie di friend… io e Mario nel 1982 non ne avevamo neanche uno, i tempi sono cambiati, ora con soste a spit è una via per tutti.

Con la sua enfasi esagerata, Adriano scriverà sul suo sito Guide latraccia tutto il suo stupore e l’ammirazione per raccontare la vecchia Aldebaran, aperta in tempi remoti, quasi tutta in libera, con pochissimi mezzi per le interminabili fessure:

“Chi è Andrea Giorda?
Nel ’71 uno sbarbatello talentuoso comincia ad arrampicare sulle rocce del Gran Paradiso. Alla fine del decennio, mentre i suoi contemporanei tirano chiodi, lui apre vie “dritte” prendendo laschi inauditi. All’inizio degli anni ’80 lui “Scala” e senza neanche rendersi conto delle difficoltà che supera! Nel 1982 apre quasi in giornata
Aldebaran, non rendendosi conto di quale opera d’arte firma… prima che gli anni ’90 inizino viene ibernato!
Evo moderno.
Un sipario erboso cela agli occhi dei visitatori l’opera Giordiana: occorre riportarla alla luce!
E’ il “Fato” dunque che scongela Andrea, lo allena e lo invia a noi, gli dona un Makita ed una zappa, e la scultura risorge!
Via interamente in fessura, sono presenti tutti i tipi d’incastro; quindi attenzione alle gradazioni, si presterebbe ben di più la scala americana. Il grado d’ingaggio elevato è dovuto allo zoccolo“.

Diverse volte sono poi andato ancora ad aiutarlo, anche a finire la Vedova Nera, dove aveva trovato una dura fessura, ma molto sporca e lichenata che valutò in seguito 7b+.

Adriano Trombetta sul granito perfetto di Stairway to Heaven (Becco di Valsoera)

La GT, Giorda/Trombetta
Uno dei motivi casuali per cui verso il 2000 tornai a scalare è che mi separai dalla mia prima moglie, senza litigi, consensualmente, comunque psicologicamente fu un momento difficile. Alp mi mandò ad intervistare Manlio Motto, che voleva che andassi a ripetere le sue vie. Sergio Cerutti mi propose di rientrare alla Scuola Gervasutti. Ma io non avevo idea se sarei ancora stato in grado di scalare, troppo tempo era passato. Ugo Manera, che ha sempre creduto nelle mie qualità, fin da ragazzino, mi incontrò al Palavela e mi incoraggiò a suo modo, Mi disse “sei diventato un bel Bucin (un vitellino in piemontese), se vuoi scalare ora, devi buttare giù peso”.

Nonostante il programma fosse rifuggire da nuove relazioni stabili, da un po’ avevo conosciuto Sabrina Marsili, di Marlia vicino a Lucca: con lei avevo aperto una via a Toirano, in Liguria, alla parete della Grotta dell’Ulivo, la Panoramica. Andrea Gallo mi aveva dato un suggerimento, sapendo che cercavo una parete di calcare dove provare ad aprire dal basso. Mi disse che dopo anni, ora era permesso scalare su quella parete della Val Varatella.

Aprii altre due vie, Hotel Varatella che faceva il verso ad Hotel Supramonte del mio amico Rolly (Rolando Larcher), che venne anche a scalarla con me e Gallo. Poi Wall Rats in solitaria, un’esperienza da provare una volta nella vita, ma non ripetere. Restava una linea breve, ma bellissima sul muro centrale e mi sembrò naturale coinvolgere il Tromba, per passare una giornata in allegria. Con lui, l’adrenalina era assicurata.

Adriano arriva a Toirano e mi catechizza con fare severo sulla sua nuova attrezzatura per aprire dal basso, che consiste in due fettucce con un fermo da portapacchi regolabile per i cliff. Non pare male, ma i fermi mi sembrano di un metallo simile alla plastica, lui liquida la questione e dice che vanno benissimo.

Superato il primo tiro di 6b+, si inizia a ballare e lo strapiombo tocca a me. Metto uno spit in partenza, poi incitato anche dalle sue grida non metto nulla fino all’uscita per un mitico run-out. In precario equilibrio metto il cliff con le fettucce del Tromba.

E’ una di quelle situazioni in cui a cadere neanche si vuol pensare: il primo chiodo è sotto il tetto, ti sembra di avere cordini e impicci che ti impediscono i movimenti; alzato il trapano per mettere lo spit, il sistema di fettucce cede, si sfila e casco a testa in giù con il trapano in mano, mi vedo al rallentatore nel vuoto e arrivo a pochi metri dal Tromba che mi fissa incredulo.

Mi riprendo, risalgo tutto il tiro e faccio sosta. Poi tocca al Tromba, gli raccomando di mettere uno spit appena partito, che se cade non lo faccia sulla mia imbragatura: ovviamente non mi ascolta e procede sulla roccia a suo dire mirtillata, quella strana a puntini neri su calcare. Mette finalmente uno spit, quindi sale di diversi metri e quando si appende al suo miracoloso sistema di fettucce, il fermo da portapacchi, fatto di alluminio fragile, si spezza e precipita in un bel volo. Non dico nulla, in silenzio finiamo la via, spettacolare, 7a+ e 6c+ obbligatorio. La via diventa la Giorda/Trombetta abbreviato in GT, come le auto di una volta, le Gran Turismo. Alla destra della nostra GT, Manolo ha aperto successivamente una via, a conferma della bellezza del posto.

Verso la “bocca” del grande diedro di Aldebaran (Monte Castello). Foto: Marcello Sanguineti.

Io, Lui, Lei e l’altra
Nel 2006, Adriano inizia super incasinato sentimentalmente, tanto che la nuova via che apre, questa volta sulla Sud del Monte Castello, la chiama Io, Lui, Lei e l’Altra. Io non trovo più il tempo e in questa tempesta ormonale a dargli una mano resiste solo Fabrizio.

A giugno 2006 veniamo convocati, Fabrizio, Sergio ed io, per la prima libera della via. Adriano è felice come un bambino, mi dice che siamo i suoi amici forti del granito: come sempre esagera, ma è un miracolo averci tutti e tre.

Le cordate sono: il Tromba ed io davanti e Fabrizio e Sergio a seguire, il fuoco di fila di battute ci tiene allegri. Veniamo però cazziati perché il nostro abbigliamento non è fotogenico. Redarguiti, si inizia a scalare su belle placche con chiodatura ariosa sul 6c/6c+.

Il Tromba mi usa come un topino da laboratorio e sale da secondo, vuole vedere che effetto fa la sua chiodatura distanziata. Ovvio che non gli do nessuna soddisfazione e gli dico tutto regolare, gli ricordo con ironia che ai miei tempi gli spit non c’erano. Superiamo un tiro di 7a, poi su un tiro di 6b+ non trovo spit e dopo parecchi metri mi arrendo e gli chiedo se sono sulla linea giusta: si vendica e dice che lo spit è ancora sopra lo strapiombino, guai a cadere. Mi incazzo e sentenzia: “Se uno come te casca su un 6b+ di granito, Giorda, è giusto che tu muoia”.

Lui conosceva la parete al millimetro, io andavo a vista e su una via nuova può rimanere qualcosa in mano. Mi salvo e dopo un po’ sento Sergio che inveisce contro il Tromba per la pericolosità gratuita del tiro. Su una via di Motto non ci si trova mai in situazioni di vero pericolo: purtroppo le vie del Tromba qualche scherzo l’avevano spesso ed è uno dei motivi per cui non c’è mai stato l’assalto a ripeterle.

Arriviamo al tiro chiave di 7b, l’aveva provato più volte e ora con noi doveva scalarlo senza appendersi per liberarlo. Parte, trema, sembra che caschi ma si riprende e arriva in catena. Succede l’incredibile, per la commozione e la tensione gli scendono i lacrimoni e noi, i suoi amici, siamo lì a gioire con lui.

L’ultimo 7a tocca a me, salgo bene tutto il tiro, in uscita mi ritrovo fuori linea, la catena non è dove pensavo, abbozzo un traverso impossibile e casco tra le risate; riprendo la linea arrivando in catena.

Credo che sia per noi che per Adriano, quella giornata, che abbiamo rievocato spesso, sia stata una giornata di fortissime emozioni e il legante per tutti e tre era il Tromba con la sua carica.

La via è bellissima, forse la più raccomandabile del Tromba, sul 7a e 7b gli spit sono a distanza accettabile, sul 6c meglio non cadere.

Monte Castello, Fabrizio Ferrari e Sergio Cerutti su Io, Lui, Lei e l’Altra

Stairway to Heaven e il Ledge to ledge
Sulla rivista Alp ero riuscito a far uscire un bell’articolo con tutte le vie del Tromba al Monte Castello, ma l’unica che ebbe ripetizioni fu Aldebaran 2005. Ovvero la via che avevo aperto con Mario Ogliengo rivisitata.

Nella mia prima vita da scalatore avevo aperto due vie sul Becco di Valsoera, la Filo a Piombo e Sturm und Drang. Ricordavo che in occasione di una antica ripetizione del Diedro Giallo avevo messo gli occhi su tutta la porzione di roccia alla sua sinistra. Mi informo e scopro che, tolta una via di Daniele Caneparo, Filo da Torcere, mai ripetuta, forse non una delle sue migliori realizzazioni, era ancora tutto vergine.

Il Becco di Valsoera è una montagna alta più di 3000 metri, fredda: le sue più belle pareti sono a ovest. A metà della parete mai scalata, c’era una fessura che solcava un muro, propongo ad Adriano di andare a vederla. Lui subito entra in uno stato di esaltazione contagioso, aprire una via sul Becco è il sogno di molti scalatori, è un piccolo Dru, di lì è passata la storia.

Attacchiamo molto in basso, la scalata non è difficile ma neanche banale. Mettiamo pochissimi spit fino ad arrivare ad una cengia dove la parete si drizza e si fa più interessante. L’impegno cambia, inizio io, poi ci alterniamo puntando alla fessura, che nella testa fantasiosa del Tromba era già stata battezzata la Stove leg Crack… la mitica fessura che in Yosemite era stata superata incastrando la gamba di una stufa per assicurarsi, non avendo niente di meglio.

Anche se toccherebbe a me gli cedo il tiro, io ho già avuto tante soddisfazioni e voglio regalargli questo piccolo gioiello. Lui ringrazia, ma vuole tenere la regola dei tiri alterni. Parto, salgo un diedro fessurato e poi la splendida fessura, che ha i bordi stondati ma riesco, con fatica, avendo il trapano e materiale addosso, a scalarla in libera. Il Tromba darà il grado 6c (!). Lui era fortissimo in fessura (ma anche io me la cavavo): per certo era 7a, confermato dai ripetitori, ma poco importa, era bellissima.

A quel punto, stanco, faccio per preparare la sosta e Adriano inizia a urlare da sotto che devo continuare per la regola del Ledge to ledge! Non so dove, ma si era infatuato con la regola che i tiri si finiscono dove si staccano le mani, da cengia a cengia, Ledge to ledge appunto. Se no la via non è in libera. Ci mandiamo al diavolo a vicenda e poi sfinito dalla discussione proseguo, poco lucido, su un muro difficilissimo, che presto diventa avarissimo di prese.

Sono arrabbiatissimo e assolutamente sfinito, finisco il tiro che risulterà quasi di 60 metri, un’assurdità. Il Tromba sa di aver esagerato e assicura che libererà il muro da secondo, cosa che non gli riesce e non ci riusciremo neanche nel giro fatto per la libera. In 500 metri di via uno spit resiste, è 7b+ con un passo di aiuto. Un neo: neanche Federica Mingolla riuscirà a passare in una ripetizione recente, complici anche i licheni gialli scivolosi.

Monte Castello, Aldebaran 2005. In arrampicata sullo “Zoccolo Trombetta”. Foto: Marcello Sanguineti.

Pensavo ingenuamente che sarei riuscito a contenere le esuberanze del Tromba, ma era impossibile. Arrivati sotto un bel diedro voleva scalarlo ma si vedeva un vecchio chiodo a metà. Gli dico che sicuramente di lì passa la via di Caneparo, lui risponde che è una via non riuscita e che non la fa nessuno (non ha usato queste parole, ma interpreto per rispetto a Daniele) e voleva andare lo stesso. Qui mi impongo e minaccio di scendere, schifezze non ne faccio, rinsavisce e sale dunque a sinistra del diedro di Filo da Torcere.

Alla fine di ogni scazzo c’era poi sempre una risata e un abbraccio e spesso riconosceva la mia seniority, se non altro per l’età. Io cercavo di non farmi influenzare, ma alla fine di cazzate, trascinato da lui, ne facevo anche io.

Il giorno della libera decidiamo di salire dall’attacco alto della Mellano-Perego e traversare in parete per arrivare velocemente alla cengia, dove iniziano i tiri duri. Invece di aspettare e legarci, il Tromba si spara con le scarpe da avvicinamento slegato sui muri con duecento metri di salto sotto, la roccia è umida e un po’ rotta. Io mi incazzo, ma stupidamente lo seguo, dopo circa cinquanta metri siamo tutti e due incatramati con zaini pesantissimi su una placca scivolosa… ecco, mi dico, ora ci ammazziamo tutti e due nel modo più stupido. Mi invento un appoggio per un piede, chiudendo gli occhi, mi abbasso e raggiungo la cengia, lui fa lo stesso ma ce la siamo vista bruttissima.

Il Tromba era un generoso, la sera prima della scalata non avevamo dormito, avevamo soccorso due alpinisti proprio sul Becco. La Mara, la gestrice del rifugio, non vedendoli tornare all’ora di cena, ci chiese di andare a vedere. Saltammo la cena e passammo la notte a cercarli, li trovammo e li facemmo scendere per consegnarli al soccorso alpino, che di notte stava arrivando a piedi.

Una Scala per il Paradiso, Stairway to Heaven, il successo dei Led Zeppelin, fu il nome della nuova via. Questa dura avventura ci legò ancora di più, anche Adriano ora aveva una via, col suo nome, sul Becco di Valsoera.

Un giorno mi disse che un amico gli aveva chiesto come scala il figlio di Giorda e lui ridendo gli disse, guarda che è ancora lui, l’originale, ancora vivo.

Con nostra grande sorpresa, la via ci valse l’onore delle cronache, come uno degli exploit più rilevanti del 2006. L’annuario della rivista Alp, Exploit 06, riportava una foto della via con intervista ai protagonisti dell’anno, eravamo in compagnia di Simone Moro, Ermanno Salvaterra, Rolando Larcher e altri grandi nomi.

Ma come diceva Kipling nella sua famosa poesia If, la vittoria e la sconfitta mentono allo stesso modo, sono due facce della stessa medaglia: a prescindere da tutto, dai riconoscimenti ufficiali, una scalata con un amico è un momento intimo, irripetibile e personale.

La via fu subito frequentata e per una volta il Tromba ebbe la soddisfazione di veder compiuto il suo desiderio, qualcuno che scalava una sua via. Per le difficoltà non è popolare, ma ogni anno ha qualche ripetizione.

Nel 2012 con Maurizio Oviglia ho aperto la mia quarta via al Valsoera, Imagine, e ho potuto rivedere da vicino il tiro Ledge to ledge. Avrei voluto mettere la sosta che il Tromba non voleva e modificare un po’ più a sinistra il tiro sopra la fessura, con più prese, per eliminare il punto di aiuto. Ma è restato così, se qualcuno si chiede il perché di quel tiro assurdo di 60 metri, ora sa perché: il Ledge to Ledge.

Il Tromba in apertura sulla via GT della Rocca dell’Ulivo

Gli ultimi anni del Tromba
Quella del Valsoera fu l’ultima grande via vissuta insieme. Lo rividi ancora, ma saltuariamente. Era diventato un uomo, non più il ragazzo tormentato e po’ scapestrato dei primi anni.

Ci trovammo ancora per esplorare Pian Bernardo, avevo visto la parete andando in Val Pennavaire e coinvolsi il Tromba. Fummo i primi, non era ancora conosciuta, e iniziammo una via sulla parete sottostante, la Parete delle Orse, presente sulla guida attuale della Val Tanaro. Non ci fu poi più occasione di finirla fino in punta.

A partire dal 2010 partecipai con Mauro Penasa, Claudio Picco e Maurizio Oviglia, all’organizzazione dei Trad Meeting della Valle dell’Orco del Club Alpino Accademico Italiano. Furono una scommessa al buio, con pochi mezzi, ma si rivelarono un grande successo. Vennero i più forti scalatori in fessura del mondo come Tom Randall e Pete Whittaker e partecipanti da 21 paesi diversi. Questi meeting, che riproponemmo per tre anni, hanno sancito la svolta internazionale della Valle dell’Orco per come la conosciamo oggi e ne hanno fatto uno dei templi più riconosciuti della scalata Trad in Europa.

Chi oggi scala in Valle Orco ne è fortemente debitore, senza quella iniziativa la Valle Orco sarebbe ora un luogo marginale, dove lottare ancora per difendere le pareti dagli spit incondizionati. Intorno all’arrampicata, da allora è nata una cultura nuova e anche una piccola economia, non irrilevante per la Valle.

Adriano partecipò a qualche uscita, ed era entusiasta di vedere i campioni sulle vie di casa.

Monte Castello. Sergio Cerutti su Io, Lui, Lei e l’Altra

Nel 2011 ero tornato con Stefano Therisod e Antonio Lovato, uno dei ragazzi morti con lui sullo Chaberton, a mettere una sosta sul mio vecchio Diedro Atomico, un tiro che avevo aperto nel 1979 solo con gli excentric, un tiro storico ora dato 6c+. Lo trovai pieno di spit, lo scrissi amareggiato in un articolo e gli spit sparirono, sono sicuro che il giustiziere, anche se non me l’ha mai confessato, è stato il Tromba.

Nel 2015 ero andato in pensione e con mia moglie Sabrina avevo adottato dal Vietnam mio figlio Phuc. Non potevo allontanarmi e iniziai a chiodare le falesie del Cateissard, vicino a casa, che mi permettevano di andare a prendere il bambino a scuola tutti giorni.

I due tiri più duri del Neverending Wall volevo li scalassero due ragazzi giovani, un maschio e una femmina. Uno lo fece Carlo Giuliberti, figlio del mio grande amico Massimo, CateissHard 8a+, per l’altro, andai po’ alla cieca, ma mi ricordavo di una ragazzina magrissima che avevo visto alla Sasp e una volta, con mio stupore, alla falesia di Campambiardo, dove mi chiese come era Nemesis, un tiro ostico di 7c+/8a che dopo numerosi tentativi avevo chiuso.

Lei era Federica Mingolla, ancora poco conosciuta, ma vedevo in quella ragazza un talento selvaggio, non costruito, che mi incuriosiva. Accettò il mio invito e venne al Catesissard, liberò Perseverare è umano, un 8a di 40 metri che avevo chiodato. Un giorno la vidi anche con Adriano, alla base del tiro. Il Tromba a suo modo mi fece l’elogio della Ming, con qualche apprezzamento colorito, non solo sulla sua bravura, ma anche sul fatto che fosse molto carina.

La Ming mi aveva chiesto di provare a mettere degli spit, nel 2016 le indicai una porzione della falesia Profondo Rosso che stavo attrezzando con Aldo Tirabeni. Fece un eccellente lavoro, picchiò come un fabbro per ore per pulirla, si era ricoperta di terra e polvere come un minatore, lasciando basiti sia me che Aldo. La linea di Federica è un 7a bello e molto ripetuto, Tiro mancino.

L’ultima volta che ho visto il Tromba è nel 2016, al Cateissard, mentre liberavo i tiri a Profondo Rosso. Adriano, curioso, comparve dal nulla, mi disse, diavolo di un Giorda ne fai sempre una nuova. Si unì al gruppo per scalare con i vecchi amici di un tempo, Fabrizio, Sergio. Per un giorno eravamo di nuovo tutti assieme a prenderci in giro come sempre. Vide poi uno strapiombino con dei buchi e ci giurammo di chiodarlo insieme. Non facemmo in tempo, lui se ne andò nella primavera del 2017. Quel tiro l’ho chiodato e si chiama il Tromba e gli altri due di fianco si chiamano Tony Love (Antonio Lovato) e Margherita, i suoi compagni di sventura.

Adriano in apertura sulla via Giorda-Trombetta alla Parete delle Orse, Valle Tanaro.

Cosa ci ha lasciato il Tromba
Il Tromba era un portatore sano di entusiasmo, contagioso, irrefrenabile. In molti, a distanza ormai di qualche anno dalla sua scomparsa, lo ricordano e lo rimpiangono. Le sue vie, seppur notevoli, come anche l’ultima, la Nona Sinfonia, aperta con Michele Amadio, non sono mai decollate, la sua eredità sono piuttosto i ragazzi che ha fatto crescere, a cui ha trasferito la sua irrefrenabile energia.

Una giornata con il Tromba non era mai una giornata qualsiasi, succedeva sempre qualcosa. Tante cose ci univano, un po’ mi rivedevo in lui che, come me, quando ero giovane, viveva con la nonna.

La mia era scomparsa da anni, la sua lo aspettava a casa dopo le turbolente avventure, di scalata e sentimentali. Lui vicino a lei diventava un bambino amoroso, le parlava con una voce tenera, aspettando che la vecchina gli sgusciasse i gamberetti. L’austero alloggio di via Po, a Torino, era un museo a ricordo del marito della nonna, non suo nonno Mauro, famoso direttore d’orchestra.

Ho scritto di getto questi ricordi come una lettera al Tromba, se qualcuno mai avrà la voglia e la pazienza di leggerli. Lo dovevo a lui e a chi ne ha solo sentito parlare o a chi l’ha conosciuto solo negli ultimi anni. Quando venni in contatto con il Tromba lui era giovanissimo, io ero già verso i cinquanta, ma l’intesa era forte, assieme a lui tornavo ragazzo anche io, quello un po’ scapestrato e spericolato degli anni ’70.

Il Tromba non è stato un santo, tanti non ne hanno un ricordo edulcorato, ma anche i suoi detrattori devono ammettere che uno come lui era unico, un personaggio con una presenza scenica non replicabile. Anche nella sua fisicità, nelle foto che sono rimaste, con le mani incastrate nelle fessure e le nastrature sbrindellate. Metteva i maglioni alla Gian Carlo Grassi, quelli di alpaca sud americani, e il suo sguardo era spesso rivolto al passato. I suoi miti erano i californiani di Yosemite, ma anche i nostrani del Nuovo Mattino. Lui invidiava quei tempi, più romantici, di scoperta e meno tecnici. Avrebbe voluto viverli.

Portava i capelli a caschetto, come Wolfgang Güllich, di cui rincorreva la forza e il fisico, con duri allenamenti.

Non è retorica dire che il Tromba vive con noi, recentemente scendendo in doppia da una via nel vallone di Sea mi sono imbattuto in una sosta di calata con spit da 8 mm, li ho riconosciuti subito, uno era fuori di netto, penzolava, solo uno era rimasto ed ero in difficoltà, non sapevo che fare, una situazione imbarazzante e rischiosa.

Non sono credente, ma ho alzato gli occhi al cielo e ho detto dentro di me, con tutto l’affetto del mondo, commosso e incazzato… maledetto Tromba, ci manchi!

Il sito guidelatraccia.com non è più reperibile, ho raccolto alcuni disegni delle vie di Adriano di cui si parla in questo pezzo. Sono i suoi disegni originali, fatti con grande cura. Il suo grande desiderio era che venissero ripetute. Ancora sul Blog Side nel 2011 scrisse, “cercasi ripetitori disperatamente” riguardo alla Nona Sinfonia, che io sappia ripetuta solo dalla Mingolla. Credo di interpretare la sua volontà riproponendole così come sono al popolo degli scalatori. Ovvio che ognuno dovrà fare le sue valutazioni.

Monte Castello, Aldebaran 2005
Monte Castello, parete est-nord-est
Monte Castello, Amitrax
Scudo del Monte Castello, Arsenio Lupin
Monte Castello, parete est-nord-est, via Twin Towers
Torre Rossa del Blanc Giuir, Il mio Nome è Nessuno
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Le avventure del giovane “Tromba” ultima modifica: 2023-09-04T05:26:00+02:00 da GognaBlog

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19 pensieri su “Le avventure del giovane “Tromba””

  1. 18. È più comprensibile, pur non conoscendo il francese, ciò che scrive Claudine J. che non questa tua affermazione sconclusionata.

  2. Credo sia corretto che l’ospite si esprima nelle lingue che conosce,

    Cioè se ospito un libro per leggerlo devo andare io a cercare un traduttore…mah

  3. Grazie Andrea, bellissimo articolo che descrive perfettamente quella gran TDC del Tromba in tutte le sue sfaccettature. Sono stato uno dei primi compagni di cordata di Adriano e ho 1000 aneddoti da raccontarti!

  4. Credo sia corretto che l’ospite si esprima nelle lingue che conosce, mentre l’onere della eventuale traduzione spetta a chi ospita. In ogni caso di tratta di non più di 20 secondi di tempo, a fare copia incolla e metterlo su traduttore.
    Devo anche rilevare che commenti simili non li ho mai visti quando “il capo” posta articoli in inglese.
    Dall’articolo, che scorre via piacevolmente, emerge la chiara dimostrazione che genio e sregolatezza vanno di pari passo.

  5. Gran bell’articolo. Non conoscevo il selvatico Tromba e neppure il più equilibrato Giorda. Mi azzardo ad ipotizzare la presenza di un refuso. Quando Giorda scrive “Aspettarsi poi riconoscimenti, non solo nella scalata ma nella via, è l’anticamera della frustrazione e della depressione.” forse intendeva scrivere “Aspettarsi poi riconoscimenti, non solo nella scalata ma nella vita, è l’anticamera della frustrazione e della depressione. Complimenti comunque all’autore del testo e grazie.
    DOPO AVER CORRETTO il REFUSO, la REDAZIONE RINGRAZIA.

  6. Matteo, mi hai fatto ridere.

    Tuttavia, pur comprendendo il francese, ritengo che in questo blog lo scambio sia più ricco e arricchente se ci si esprime tutti usando la stessa lingua. 

  7. Io mi chiedo perché si debba pretendere (o anche solo chiedere) che a Claudine di scrivere in italiano…sopratutto in considerazione di quelli che qui scrivono spesso in modo linguisticamente deprecabile!

  8. Credo che lo scrivere in francese faccia parte di quelche di sabaudo a dire :

    che ne volete sapere voi di montagna!!

    Così come le molte frasi non tradotte nei libri storici e non. Dimenticando che la conoscenza della montagna, dopo la sua inglese scoperta, è  Tedesca 

  9. Pierlorenzo, do per scontato che Claudine comprenda la nostra lingua quindi sarebbe bello che si esprimesse in italiano.
     

  10. Claudine, ma non puoi usare il traduttore che vuoi per dirci cosa scrivi nei tuoi commenti?
    Grazie.

  11. Una sera sbucò dal suo furgone (una vera e propria tana) e, mai visto né conosciuto prima, si inserì nelle nostre chiacchiere da climber.
    Tra le altre cose, magnificò la bellezza delle falesie di Positano.
    Mi bastarono quei pochi minuti per capire l’entusiasmo che lo muoveva.
    Bellissimo articolo.

  12. Il ne devait pas passer inaperçu au pied des voies !
    et doit manquer à ceux qui l’aimaient.

  13. Leggendo queste belle righe ben scritte da Giorda, ho immediatamente ripensato ad un mio amico che non c’è più.

  14. Il lungo racconto potrebbe essere sulla meccanica quantistica (di cui non so nulla), per essere il mio poco, passato alpinismo, lontano almeno 4-5 gradi da quello descritto. Eppure l’ho letto d’un fiato, quasi rapito. Merito dell’essere scritto da una penna che sta in pari con i gradi alpinistici di quelle vie, in stile leggero e insieme profondo, da cui traspare amicizia, simpatia, empatia, prendersi per il culo come già scritto, il non essere mucche che si stanno a fianco ignorandosi nella difficile strada della vita. Tutto quel contorno-sostanza, che almeno mezzo grado in più te lo fa fare. Grazie.

  15. Ho incontrato Adriano qui sull’Etna al Rifugio Citelli poco prima della sua partenza, forse un mese o due.
    Abbiamo scambiato due chiacchiere a proposito della Montagna e del libro che stava leggendo.
    Mi è molto dispiaciuto sapere che non era più tra noi.

  16. Bella testimonianza.
    Prendersi per il culo mentre si scala è una delle cose più divertenti e produttive che ci siano.

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